• Non ci sono risultati.

La tutela dell’affidamento dei destinatari dell’atto e l’obbligo generale di indennizzo.

5. Il potere di revoca nella codificazione della l n 15/

5.3. La tutela dell’affidamento dei destinatari dell’atto e l’obbligo generale di indennizzo.

L’autotutela in generale rappresenta il potere pubblico che più di ogni altro si muove in una prospettiva relazionale, ovvero contempera nelle sue manifestazioni l’interesse pubblico bilanciato con gli interessi dei privati che hanno ragionevolmente confidato nel provvedimento oggetto di ritiro.

L’interesse pubblico, pertanto, non può mai da solo giustificare la revoca o l’annullamento del provvedimento preesistente, se non all’esito di una comparazione e sintesi con le posizioni soggettive maturate dai destinatari dell’atto.

Tale esigenza è alla base della mutata concezione dell’azione amministrativa, come potere non più assoluto nel perseguimento delle proprie finalità ma relativo, ovvero dipendente nella sua estensione dagli interessi privati collaterali che risultano coinvolti.

In linea generale, l’affidamento legittimo rappresenta l’interesse alla tutela di una certa situazione giuridica generata da un precedente comportamento della p.a. che ha indotto il cittadino a confidare nel conseguimento di un dato risultato.

La natura anfibia dell’azione amministrativa, che si esplica talvolta mediante moduli pubblicistici, talaltra attraverso schemi negoziali privati, ha indotto per lungo tempo a chiedersi se nei riguardi della p.a. il principio del legittimo affidamento abbia rilievo in tutti i rapporti intrattenuti con i cittadini, siano essi di diritto pubblico o di diritto privato.

È evidente che, quale precipitato della buona fede, il principio risulta pacificamente applicabile nei rapporti squisitamente privatistici in cui è parte l'Autorità pubblica, essendo ormai assodato che l'Amministrazione nei rapporti di tipo paritario e nell'ambito contrattuale in specie è sottoposta alla disciplina del codice civile, pur non essendo libera ma vincolata al perseguimento di interessi pubblici.

Più sofferta invece è stata l’affermazione dell’operatività del principio in esame nell’ambito dell’attività pubblicistica, ove l'Amministrazione si pone su di un piano differenziato rispetto al cittadino. Il principio di legalità e la presunzione di legittimità degli atti amministrativi hanno

tradizionalmente rappresentato un ostacolo al riconoscimento della vigenza del principio dell'affidamento legittimo nell'ambito dei rapporti di diritto pubblico.

La dottrina classica70 escludeva l’applicazione del principio di affidamento nei rapporti di natura

pubblicistica, rilevando come l’archetipo della buona fede entrasse in tali relazioni in forma depotenziata, scontando la compresenza di ulteriori interessi di analogo rilievo che ne limitavano la portata.

Lo scenario muta con l’ordinamento democratico rappresentato dalla Carta Costituzionale del 1948: in luogo di un’Amministrazione autoritaria ed autoreferenziale, si comincia a prospettare l’idea dell’Autorità pubblica come del soggetto che individua l’interesse da garantire all’interno della funzione amministrativa, che fa uso di strumenti consensuali accanto a quelli unilaterali ed autoritativi, che favorisce la partecipazione del privato alla funzione pubblica.

In tale contesto, appare chiaro che l’Amministrazione non persegue più soltanto un interesse pubblico cristallizzato nella norma di legge e che si identifica con l’interesse soggettivo dell'ente pubblico. L'interesse pubblico concreto emerge dal raffronto di tutti gli interessi coinvolti dall'azione amministrativa. Non essendovi più un solo interesse pubblico predefinito, i rapporti tra l’Amministrazione e il cittadino devono ispirarsi al dovere di collaborazione, e pertanto, la buona fede cessa di essere un duplicato dell'interesse perseguito dall'Amministrazione divenendo un principio generale che deve ispirare ogni attività, sia che si svolga nelle forme del diritto pubblico o di quelle del diritto privato71.

Anche la giurisprudenza ha progressivamente riconosciuto ampia portata al principio di tutela del legittimo affidamento, non solo nell'ambito della giurisprudenza del Consiglio di Stato ma anche nelle pronunce della Corte di Cassazione, specie nel settore della responsabilità civile72.

In una prospettiva ancora più ampia, ma con una specifica ricaduta nel settore di cui qui si discute, va ricordato il percorso della Corte Costituzionale, che in numerose sentenze ha ribadito la centralità del principio anche con riguardo all'operato del legislatore, sopratutto in tema di irretroattività della legge, individuando tra i possibili limiti alla retroattività delle norme primarie si pone anche l'affidamento legittimo posto dai cittadini nella certezza di una data situazione73.

70 Sostanzialmente contrario al rilievo della buona fede nel diritto amministrativo si mostra M. S. GIANNINI, L’interpretazione dell’atto amministrativo e la teoria generale dell'interpretazione, Milano 1939, p. 142 ss. che riconosce peraltro al principio solo una limitata e circoscritta operatività; cfr. F. MERUSI, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni “trenta” all’“alternanza”, Milano 2001 pp. 115 e ss.; F. MANGANARO, Il principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, Napoli 1995, pp 39 ss. A. MANTERO, Le situazioni favorevoli del privato nel rapporto amministrativo, Padova 1979, pp. 118 e ss.

71 F. MERUSI, L’affidamento del cittadino, Milano 1970.

72 Ex multis: Cons. St., 24 settembre 1996, n. 1255 Studium iuris, 1997, p. 197; in Foro amm., 1997, 1065 (s.m.); in Foro amm., 1997, p. 1434; Cons. St., 15 giugno 1994, n. 501, in Foro amm., 1994, p. 1398 (s.m.); Cass., Sez. Un., 17 novembre 1978, n. 5328, in Giust. civ., 1979, I, p. 32; Cass. Sez. Un., 13 giugno 1989, n. 2845, in Giust. civ. Mass., 1989, fasc. 6. 73 Corte Cost., 4 novembre 1999, n. 416, in Giust. civ., 2000, I, p. 973; in Giur. it., 2000, p. 678; Corte Cost., 22 novembre 2000, n. 525, in Rass. trib., 2000; Corte Cost., 12 novembre 2002, n. 446, in Giur. it., 2003, p. 841.

L’affermazione di una necessaria tutela dell’affidamento ingenerato dagli atti amministrativi trova il suo contributo più importante nell’ordinamento comunitario, ove si è ben presto imposto come principio generale74.

Le costruzioni enucleate per dare fondamento al legittimo affidamento generato dall'Autorità pubblica e dall'Amministrazione, in particolare, sono essenzialmente due e poggiano rispettivamente sulla nozione ampia e generale della buona fede, e sul principio altrettanto generale, ma di diversa rilevanza, della certezza del diritto, proprio della concezione moderna dello Stato di diritto.

Può certamente dirsi che entrambe le ricostruzioni forniscono giustificazioni teoriche non antitetiche che possono viceversa combinarsi nel fondare il principio in esame ritenendo la tutela del legittimo affidamento espressione del canone generale di buona fede nonché del principio di necessaria certezza del diritto.

Diverse, invece, sono le tecniche attraverso cui gli ordinamenti giungono all’obiettivo finale di salvaguardia della posizione maturata dal privato, registrandosi scelte differenti tra il sistema interno e quello comunitario.

Una prima rilevante differenza risiede nella possibilità per le Amministrazioni comunitarie di modulare, indipendentemente dalla tipologia di vizio riscontrata nel provvedimento, gli effetti nel tempo dell’atto di ritiro, essendo rimessa alla discrezionalità della p.a. la decorrenza ex nunc o ex tunc.

Si tratta di una tecnica diffusa nell’ambito comunitario, consentita anche in sede di sindacato giurisdizionale, che realizza la tutela dell’interesse privato escludendo gli effetti pregiudizievoli di una caducazione retroattiva dell’atto, qualora questa risulti sproporzionata nel bilanciamento con l’interesse pubblico.

L’elasticità che contraddistingue l’autotutela comunitaria non si riscontra nel diritto interno, in cui appare rigida la dicotomia tra la retroattività dell’annullamento d’ufficio, e l’irretroattività della revoca ex art. 21 quinquies l. n. 241/90.

Il sistema dell’U.E. affianca ulteriori tecniche rimediali alla modulabilità degli effetti dell’atto di ritiro, individuate nella preclusione all’esercizio del potere di riesame una volta decorso un

74 M. CARTABIA, La tutela dei diritti nel Procedimento amministrativo - La legge n.241 del 1990 alla luce dei principi comunitari, Milano, 1991, R. CARANTA, La “comunitarizzazione” del diritto amministrativo: il caso della tutela dell’affidamento, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1996, pp. 417 ss. In giurisprudenza, cfr. Corte di Giustizia, 3 maggio 1978, causa 112/77; Corte di Giustizia, 21 settembre 1983 in cause riunite 205-215/82; Corte di Giustizia, 19 maggio 1983, causa 289/81; Corte di Giustizia, 17 aprile 1997, causa C-90/95; Corte di Giustizia, 26 febbraio 1987, causa 15/85, e Corte di Giustizia, 20 giugno 1991, causa C-248; G. FALCON, Dal diritto amministrativo nazionale al diritto amministrativo comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1991, 360; M. P. CHITI, I signori del diritto comunitario: la Corte di giustizia e lo sviluppo del diritto amministrativo europeo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1991, 797 e ss.; A. ESPOSITO, La revoca degli atti amministrativi comunitari, in collana Europapers, Università degli Studi Roma Tre, n. 11/2001.

determinato lasso temporale, vincendo così la presunzione di inesauribilità del potere amministrativo, nonché nella previsione di un ristoro patrimoniale sotto forma di indennizzo per il pregiudizio subito dal privato.

Nell’ordinamento interno, nessuna di tali forme di protezione era contemplata prima della riforma della l. n. 15/2005, ritenendosi pertanto gli interessi privati sempre soccombenti a fronte delle esigenze della p.a. di procedere in autotutela.

La scelta del legislatore del 2005, invece, accoglie le elaborazioni comunitarie seppur in forma attenuata, costruendo un sistema di tutela bipartito, in cui l’affidamento legittimo dei privati viene salvaguardato mediante l’introduzione di un limite temporale (ancorché flessibile) nell’annullamento d’ufficio ex art. 21 nonies e attraverso la previsione di un obbligo di indennizzo in caso di revoca ex art. 21 quinquies l. n. 241/90.

Il principio di affidamento, in linea generale, non costituisce mai un limite operativo all’esercizio del potere di revoca, a prescindere dal tempo decorso e dallo spessore delle situazioni soggettive maturate dai privati, potendo sempre essere evaso attraverso la corresponsione di un indennizzo da parte della p.a.

L’interesse del privato appare sempre recessivo a fronte di una rivalutazione della rispondenza all’interesse pubblico prevalente, seppure meritevole di tutela attraverso la corresponsione dell’indennizzo; la scelta legislativa si mostra, per certi versi, opposta a quanto previsto dall’art. 21 nonies l. n. 241/90, in cui l’affidamento dei destinatari del provvedimento può rilevare come elemento impeditivo all’annullamento dell’atto, contribuendo ad identificare quel termine ragionevole entro cui può essere esercitato il potere di ritiro.

L’annullamento oltre il termine ragionevole risulta infatti viziato da eccesso di potere, laddove il provvedimento di revoca, a prescindere dal tempo decorso, rimane legittimo con l’unico limite della necessaria corresponsione di un indennizzo.

La perentorietà di tale affermazione dev’essere però attenuata, giacché anche nella revoca la p.a. è tenuta a dar conto in motivazione dell’avvenuto bilanciamento degli interessi, potendosi ugualmente prospettare un’illegittimità per eccesso di potere ove l’Amministrazione non eserciti il potere di ritiro secondo quella logica relazionale che è propria dell’autotutela, ovvero, senza un’adeguata comparazione dei plurimi interessi coinvolti.

Ecco allora che la distanza tra le due forme di tutela dell’affidamento previste dal legislatore del 2005 si attenua, in quanto il tempo trascorso dall’emanazione dell’atto da ritirare, pur non essendo immediatamente ostativo al provvedimento di revoca, incide su quel bilanciamento di interessi cui l’Amministrazione non può sottrarsi.

Inoltre, anche la previsione di un generale obbligo di indennizzo in caso di revoca, ha posto alcune questioni interpretative, dal momento che l’enunciazione di cui all’art. 21 quinquies, nella sua

formulazione originaria, rischiava di rimanere un’affermazione di principio mancando una definizione dei criteri di quantificazione dell’indennizzo, nonché ogni riferimento alla natura della forma specifica o per equivalente.

Si contrapposero pertanto due orientamenti, l’uno volto a parificare l’indennizzo ad un obbligo risarcitorio tout court, con conseguente indennizzabilità sia del danno emergente che del lucro cessante, secondo la logica dell’integrale riparazione del danno ex art. 1223 c.c., l’altro propenso a limitare l’indennizzo al solo danno emergente.

Quest’ultimo indirizzo evidenziava l’ontologica diversità tra indennizzo e risarcimento, affermando che la risarcibilità del lucro cessante dovesse necessariamente correlarsi all’illegittimità del provvedimento di revoca, mentre a fronte di una revoca legittima residuava in capo alla p.a. una responsabilità da atto lecito che non consente un ristoro integrale.

Si pone così la necessità di individuare un confine tra revoca legittima ed illegittima, ovvero tra responsabilità da atto lecito ed illecito della p.a., al fine di contrapporre in maniera esatta l’obbligazione indennitaria a quella risarcitoria.

Del resto, il rispetto dei requisiti di cui all’art. 21 quinquies l. n. 241/90 esclude l’ingiustizia del danno, ovvero l’illiceità della condotta dell’Amministrazione, facendo automaticamente cadere lo schema di imputazione di cui all’art. 2043 c.c.

Si prospettava altrimenti un’irragionevole equiparazione riconoscendo al privato il medesimo ristoro patrimoniale sia che agisca per il danno subito dal provvedimento illegittimo di revoca, sia che faccia valere il proprio diritto all’indennizzo da revoca legittima: l’irragionevolezza del sistema si coglie giacché tale equiparazione consente al privato danneggiato da una revoca legittima di ottenere tutela per il solo fatto del ritiro del provvedimento, laddove il privato leso da un provvedimento illegittimo di revoca avrebbe dovuto sopportare l’intero onere probatorio della responsabilità da atto illecito.

In questo scenario irrompe, ancora una volta, il legislatore che con il d.l. n. 7 del 2007 (c.d. decreto Bersani bis) e con il successivo d.l. n. 112 del 2008, interviene in materia di criteri di quantificazione dell’indennizzo da revoca del provvedimento con una riforma foriera di numerose incertezze applicative.

Si osserva preliminarmente che la scelta legislativa è stata quella di separare nettamente il diritto all’indennizzo da revoca legittima dalla tutela risarcitoria, senza alcuna preclusione nell’accesso a quest’ultima qualora il provvedimento di ritiro risulti illegittimo, o nel caso in cui la revoca seppur legittima integri un più complesso ed illecito comportamento della p.a. da cui deriva una responsabilità precontrattuale75, come si vedrà profusamente nel prossimo capitolo.

In questa sede, oggetto d’indagine è l’obbligo di indennizzo così come costruito dalle riforme del 2007 e del 2008, come espressione di una responsabilità da atto lecito dell’Amministrazione che, pertanto, può essere chiamata solo a corrispondere i danni emergenti patiti per aver fatto legittimo affidamento sul provvedimento revocato.

Tra l’altro quello della responsabilità da atto lecito della p.a. rappresenta un modello diffuso di riequilibrio delle sperequazioni cagionate dall’esercizio dell’azione amministrativa, in cui il privato sconta la soccombenza legittima dei propri interessi in virtù del superiore interesse pubblico76.

Le due azioni restano ad ogni modo assolutamente distinte, poiché il privato danneggiato che intenda esperire la domanda ex art. 2043 c.c., deve fornire la prova dell’intero archetipo della responsabilità aquiliana, dalla condotta illecita, al danno, al nesso di causalità e alla colpa della p.a., non potendosi limitare ad allegare la sussistenza di un proprio legittimo affidamento violato. Anche la giurisprudenza77 ha più volte chiarito come le due domande differiscano per petitum,

giacché l’oggetto della domanda risarcitoria è strutturalmente e quantitativamente diverso da quella indennitaria, e per causa petendi essendo il comportamento a base della domanda rispettivamente illecito o lecito.

L’attuale formulazione del comma 1-bis dell’art. 21quinquies non lascia adito ad ulteriori dubbi stabilendo che l’indennizzo da revoca legittima è parametrato al solo danno emergente, dovendosi tuttavia tenere conto sia dell’eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell’atto all’interesse pubblico, sia dell’eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse pubblico.

La distinzione con la domanda di risarcitoria, che abbraccia sia il lucro cessante che il danno emergente appare netta, ma a suscitare nuove e profonde perplessità interpretative sono gli ulteriori criteri focalizzati sulla condotta del privato.

Rilevandosi in prima battuta la linea di continuità con l’art. 1227 c.c., che sancisce la proporzionale riduzione dell’entità del risarcimento in caso di concorso colposo del danneggiato nella causazione del danno, occorre anche osservare che la disposizione in discorso ha in tal modo voluto tendenzialmente individuare dei criteri per la valutazione dell’intensità dell’affidamento, evidentemente attenuato in presenza di una piena consapevolezza della caducità degli effetti del provvedimento, nonché della relativa incompatibilità con l’interesse pubblico.

76 Si veda, su tutti, l’obbligo d’indennizzo previsto dalla Carta Costituzionale in materia di espropriazione, nonché dall’art. 42 bis d.p.r. n. 327/2001, in cui di recente la giurisprudenza si è misurata con il tema della responsabilità da atto lecito della p.a. (cfr. C.Cost. 30 aprile 2015 n. 71).

77 Cfr. Cons. St., 11 luglio 2012 n. 4116 in www.giustamm.it ove si afferma che “la causa petendi, nel giudizio volto ad ottenere l’indennizzo dovuto nel caso di revoca, deve essere ravvisata nella legittimità dell’atto amministrativo di revoca adottato dalla P.A. che ha causato il pregiudizio; mentre nel giudizio risarcitorio, essa consiste nel fatto o nell’atto produttivo del danno. Quanto al petitum, esso sarà limitato al danno emergente con riferimento all’indennizzo; si estenderà al ristoro integrale (danno emergente e lucro cessante) nella diversa ipotesi di risarcimento del danno”.

Il legislatore del 2007 tenta una mediazione tra due sfere di autoresponsabilità, quella della p.a. che per tornare sui propri passi è onerata ad indennizzare i destinatari dell’atto per il pregiudizio sofferto, e quella del privato la cui condotta scorretta incide sullo spessore dell’affidamento maturato e sul quantum dell’indennizzo potendo spingersi sino ad escluderlo del tutto.

Tuttavia i suddetti parametri, non risultano esenti da critiche.

In primo luogo, si evidenzia che i parametri individuati non potrebbero che aver riguardo ad atti affetti da inopportunità originaria, con esclusione degli atti resi inopportuni da elementi sopravvenuti, in quanto la norma si riferisce ai profili problematici del provvedimento amministrativo “conosciuti o conoscibili dall’interessato al momento stesso della sua emanazione”, non potendo ovviamente essere oggetto di conoscenza un vizio sopravvenuto78.

La norma allora non risulterebbe applicabile in tutti i casi in cui l’affidamento sia leso da una revoca disposta per la sopravvenienza di ragioni di pubblico interesse.

Alcuni autori, osservano come l’ipotesi indirettamente contemplata dall’art. 21 quinquies comma 1 bis non sia perfettamente riconducibile all’istituto della revoca tradizionalmente inteso, rappresentando piuttosto una sorta di “revoca-sanzione” o di “revoca-decadenza”, giacché il ritiro dell’atto verrebbe posto in essere non tanto per ragioni di inopportunità, ovvero per sopravvenienze che incidono sull’interesse pubblico piuttosto per un’accertata inadempienza dell’interessato alle prescrizioni che assicurano la compatibilità con il pubblico interesse79.

Si tratterebbe allora di una revoca per atti “oggettivamente” contrari all’interesse pubblico assimilabile analogicamente all’istituto della decadenza.

In secondo luogo, non si comprende appieno che incidenza possa avere sull’azione amministrativa l’eventuale conoscenza o conoscibilità della contrarietà dell’atto rispetto al pubblico interesse, dal momento che il privato non è in alcun modo autorizzato ad una ingerenza nel sindacato sul c.d. “merito amministrativo”, precluso perfino al giudice, in quanto riservato in via esclusiva alla p.a. Ulteriori perplessità derivano dal fatto che la norma in esame si riferisce espressamente alla sola revoca incidente su rapporti negoziali, discutendosi in ordine all’utilizzabilità del menzionato criterio di quantificazione dell’indennizzo anche negli altri casi.

Si argomenta, per sostenere la tesi contraria, che l’espresso ma isolato riferimento operato dal legislatore dovrebbe ragionevolmente condurre ad escludere la parametrazione dell’indennizzo al solo danno emergente nei casi ivi non esplicitamente ricompresi, giungendosi ad una simile conclusione in base ad un argomento a contrario per cui ubi lex voluit dixit, ubi tacuit noluit.

Le tesi più radicali, fedeli ad un’interpretazione quanto mai letterale della disposizione in esame, escludono per i rapporti non negoziali lo stesso diritto del privato ad un indennizzo,

78 R. GAROFOLI – G. FERRARI, Manuale di diritto amministrativo, Roma 2014 p. 1259.

79 F. VOLPE, Prime riflessioni sulla riforma dell’art. 21 quinquies della legge sul procedimento amministrativo, 2005 in www.lexitalia.it.

disconoscendo di fatto la tutela indennitaria per quell’affidamento maturato nell’ambito di rapporti amministrativi.

Le considerazioni che precedono non spiegano però come potrebbe superarsi, qualora a tali tesi si accedesse, l’irragionevole disparità di trattamento che ne deriverebbe a sfavore del destinatario di una revoca incidente su rapporti amministrativi e non negoziali, in cui l’asimmetria tra la p.a. e il privato non troverebbe alcun meccanismo di riequilibrio.

Pertanto, l’opposta ricostruzione limita il campo di applicazione dell’art. 21 quinquies comma 1 bis l. n. 241/90 alle sole revoche incidenti sui rapporti negoziali, affermando che non vi sarebbe ragione di limitare l’indennizzo al solo lucro cessante per gli atti che attengono a rapporti amministrativi, in cui troverebbe ristoro anche il lucro cessante80.

Anche sotto il profilo sistematico la disposizione in esame ha suscitato notevoli perplessità, soprattutto in merito ai rapporti con l’annullamento d’ufficio: si ipotizza infatti la revoca di un provvedimento che fin dall’origine era contrario all’interesse pubblico, mentre secondo la stessa definizione contenuta nel comma 1 dell’art. 21 quinquies sono i sopravvenuti motivi di interesse

Outline

Documenti correlati