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La tenuta delle elaborazioni giurisprudenziali a fronte delle novità introdotte dal nuovo

L’AUTOTUTELA INTERNA ED ESTERNA AL CONTRATTO: I CONTROVERSI RAPPORTI TRA REVOCA E RECESSO DELLA P.A.

11. La tenuta delle elaborazioni giurisprudenziali a fronte delle novità introdotte dal nuovo

Codice Appalti, e le perplessità sulle forme di tutela azionabili dal privato.

Le coordinate ermeneutiche espresse dall’Adunanza Plenaria devono ora essere valutate alla luce della riscrittura delle forme di autotutela privatistica del recesso e della risoluzione ad opera del d.lgs. n. 50/2016.

Il nuovo art. 109 del Codice Appalti, riproduce la previgente disciplina del recesso ad nutum di cui all’art. 134 d.lgs. n. 163/2006, pertanto, può sostenersi che le elaborazioni della giurisprudenza sui rapporti con la revoca vadano tutt’ora confermate.

Vi è però una novità di fondamentale importanza, relativa all’ambito applicativo dell’art. 109 d.lgs. n. 50/2016, non più limitato ai soli appalti di lavori, ma ora esteso anche ai contratti di servizi e forniture.

Le modifiche normative superano allora la parzialità della soluzione dell’Adunanza Plenaria, ritenendosi che le coordinate ermeneutiche ivi espresse possano operare per tutto il settore degli appalti pubblici; se infatti l’affermazione della permanenza di un potere di revoca in capo alla p.a. per i contratti di servizi e forniture era fondata sull’assenza di una disposizione specifica in tema di recesso, analoga a quanto prevedeva l’art. 134 d.lgs.n. 163/2006 per gli appalti di lavori, l’attuale previsione di un recesso ad nutum per tutte le tipologie di appalti, amplia gli orizzonti dei principi enunciati.

La p.a., dunque, successivamente alla stipulazione di qualsiasi contratto di appalto pubblico per gestire eventuali sopravvenienze e sciogliersi dal vincolo contrattuale divenuto inopportuno non potrà esercitare il potere di revoca ex art. 21 quinquies l. n. 241/90, ma è obbligata ad azionare il recesso di cui all’art. 109 del Codice Appalti.

Permangono tuttavia le perplessità appena espresse, soprattutto in relazione all’asserita fungibilità dei presupposti con l’autotutela di cui all’art. 21 quinquies e con la maggiore ampiezza causale che pare connotare il recesso di pentimento, non interessato dalle limitazioni apportate alla revoca. Inoltre, nell’incipit dell’art. 109 d.lgs. n. 50/2016, laddove accanto al recesso di pentimento fa salvo espressamente il ricorso al recesso previsto dal Codice Antimafia: si tratta del recepimento a livello normativo del dictum della Plenaria, che aveva eccettuato dalla difficile relazione con la revoca proprio la facoltà di cui all’ art. 94 d.lgs. n. 159/2011.

Ciò è coerente con la riconducibilità del recesso per informativa antimafia negativa all’ambito dell’autotutela pubblicistica, espressione di interessi pubblici di carattere generale, solo indirettamente afferenti il singolo contratto.

La riconduzione del recesso ad una forma di autotutela privatistica, eccezionalmente riconosciuta alla p.a. nella fase di esecuzione del contratto, non determina l’estensione delle garanzie procedimentali previste per l’esercizio di poteri pubblicistici, come purtroppo confermato anche dal d.lgs. n. 50/2016.

Tuttavia, non v’è dubbio che dalle parole della Plenaria la facoltà di recesso comunque risulti avvicinabile ad una connotazione autoritativa, riservata in via esclusiva all’Amministrazione.

Si potrebbero ritenere allora estendibili le garanzie che governano l’attività amministrativa, tra cui quello di motivazione degli atti, sancito dall’art. 3 della l. n. 241/90 che, come principio generale, taglia ed interviene in orizzontale sulle modalità di esercizio del potere disciplinate dalle regole dei singoli procedimenti, ancorché limitate dalla peculiarità della materia e della disciplina e dalla fattispecie che caso per caso può presentarsi.

Del resto, l’obbligo di preventiva comunicazione e di motivazione discende altresì dall’art. 41, commi 1 e 2, lett. c), della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea che stabiliscono che i cittadini hanno diritto ad una amministrazione imparziale ed equa nonché l’obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni in ogni materia.

È innegabile, infatti, che l’art. 109 d.lgs. n. 50/2016, sia comunque una norma attributiva di un potere, a prescindere dalla sua natura pubblicistica o privatistica, e il suo esercizio non può cadere nell’arbitrio, richiedonsi uno strumento, quale la motivazione, che ne consenta il controllo.

L’autotutela privatistica sembra inoltre aver trovato nuovo slancio nelle disposizioni del d.lgs. n. 50/2016, come si può desumere dall’analisi della disciplina in tema di risoluzione.

La normativa previgente regolava separatamente le diverse cause di risoluzione del contratto di appalto: l’art. 135 prevedeva il potere privatistico della p.a. di risolvere il contratto nel caso di reati accertati e di decadenza dall’attestazione di qualificazione.

Tuttavia, mentre la risoluzione si configurava quale mera proposta a fronte delle sentenze di condanna, nel caso di decadenza dall’attestazione vi era un obbligo di risoluzione. In entrambi i casi, l’esercizio di tale potere da parte della p.a. comportava il diritto dell’appaltatore al pagamento dei lavori eseguiti, con decurtazione degli oneri aggiuntivi derivanti dallo scioglimento del contratto.

L’art 136 riconosceva, poi, alla p.a. il potere di risolvere il contratto per grave inadempimento dell’appaltatore, subordinandolo ad un sub-procedimento in contraddittorio con l’appaltore che aveva diritto a vedersi contestati espressamente gli addebiti, garantendosi altresì il pagamento dei lavori eseguiti.

Il nuovo d.lgs. n. 50/2016, animato da esigenze di semplificazione e razionalizzazione, accorpa tutte le forme di risoluzione in un’unica disposizione, distinguendo tra facoltatività ed obbligatorietà dello scioglimento del rapporto, rispettivamente disciplinate al comma primo e secondo dell’art. 108.

Dall’analisi dei presupposti che legittimano la risoluzione del contratto emerge come tale potere sia stato configurato come reazione ad eventi che alterano la conformità del regolamento rispetto a tutti gli interessi pubblici che vengono coinvolti dall’attività negoziale della p.a.

Il rimedio della risoluzione viene allora concepito in termini molto diversi dall’analogo strumento civilistico, ricomprendendo presupposti che attengono prettamente alle facoltà di autotutela. Così il comma primo dell’art. 108 stabilisce che la stazione appaltante può risolvere il contratto in caso di modifiche sostanziali che avrebbe richiesto una nuova procedura di appalto ai sensi dell'art. 106 del Codice, o qualora vengano superate le soglie indicate dalla predetta norma.

La risoluzione è altresì esperibile qualora l’aggiudicatario si sia trovato in una delle condizioni che ne avrebbero determinato l’esclusione, o allorché “l’appalto non avrebbe dovuto essere

aggiudicato in considerazione di una grave violazione degli obblighi derivanti dai trattati, come riconosciuto dalla Corte di giustizia dell'Unione europea in un procedimento ai sensi dell'articolo 258 TFUE, o di una sentenza passata in giudicato per violazione del presente codice”.

Accanto a tali ipotesi facoltative, la p.a. è invece tenuta a risolvere il contratto nei confronti dell'appaltatore per cui sia intervenuta la decadenza dell'attestazione di qualificazione per aver prodotto falsa documentazione o dichiarazioni mendaci, nonché nei confronti dell'appaltatore sia intervenuto un provvedimento definitivo che dispone l'applicazione di una o più misure di prevenzione di cui al codice delle leggi antimafia e delle relative misure di prevenzione, ovvero sia intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato per i reati di cui all'articolo 80 del d.lgs. n. 50/2016.

L’eterogeneità dei casi che consentono o impongono la risoluzione, dimostra come tale rimedio trasportato nell’ottica dei contratti pubblici, perda le sua connotazioni tradizionali, divenendo uno strumento di reazione ad accadimenti che rendono la prosecuzione del rapporto illegittima o inopportuna.

L’istituto della risoluzione, calato nel contesto dell’attività negoziale della p.a., va ben oltre l’ambito dei rimedi avverso l’inadempimento, non rappresentando solo uno strumento di reazione all’alterazione del sinallagma, ma un potere posto a tutela di interessi pubblici ulteriori rispetto alla corretta esecuzione del contratto, con forti assonanze rispetto alle forme di autotutela di cui agli artt. 21 quinquies e 21 nonies l. n. 241/90.

È evidente come essa costituisca l’ennesima prerogativa riservata all’Amministrazione, che vale a confermare quella posizione di parità “solo tendenziale”, profeticamente enunciata dall’Adunanza Plenaria.

Ricostruito il reticolo di norme che fondano l’attuale statuto dell’autotutela interna al contratto di appalto pubblico, affiorano numerosi dubbi anche in relazione alla tutela giurisdizionale.

Si pone infatti il problema di stabilire quali siano i rimedi per l’appaltatore privato a fronte di un illegittimo recesso dalla stazione appaltante dal contratto e quale sia il giudice innanzi a cui azionarli, stante il silenzio serbato anche dal nuovo Codice.

Sotto il profilo del riparto di giurisdizione, trattandosi della fase di esecuzione del contratto che va ad incidere su diritti soggettivi scaturenti dal contratto stesso, ogni controversia relativa appartiene al giudice ordinario tenendosi presente che l’art. 133, comma 1, lett. e) c.p.a., si disinteressa completamente delle fasi successive alla stipula del contratto con particolare riguardo al potere di recesso.

Maggiori sono invece le problematiche relative all’effettività della tutela.

Infatti, il giudice ordinario, com’è noto, non potrebbe annullare l’atto formalmente ammnistrativo e redatto in forma scritta, che la dottrina che segue la tesi pubblicista qualifica come atto

ammnistrativo negoziale, ma solo disapplicarlo, ai sensi dell’art. 4 della L.A.C., con numerose perplessità circa il potere giudiziale di imporre la prosecuzione nell’esecuzione del contratto fino alla scadenza stabilita e non solo limitarsi alla tutela risarcitoria per equivalente, fornendo la prova dei danni diversi dal lucro cessante.

Tali perplessità potrebbero essere superate ritenendo pienamente applicabile, nei limiti della domanda, la norma dell’art. 2058 c.c. che prevede la tutela in forma specifica, nei limiti ivi previsti, accedendo ad una impostazione che consenta di superare lo storico divieto di condanna ad un facere specifico la p.a. anche attraverso la tesi c.d. privatistica della natura negoziale dell’atto di recesso.

Verrebbe così garantito il principio di effettività della tutela, consentendo all’impresa di ottenere l’utilità ingiustamente negata dalla brusca interruzione del rapporto contrattuale.

Ad ulteriore conferma di tale opzione ermeneutica, con specifico riferimento all’applicabilità dell’art. 2058 c.c., milita la disposizione dell’art. 34, comma 1, lett. c) c.p.a., secondo cui il giudice amministrativo, nei limiti della domanda, ha il potere di condannare la p.a. “all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio e dispone misure di risarcimento in forma specifica ai sensi dell’articolo 2058 del codice civile.”.

Ad ogni modo, l’appaltatore potrebbe trovare tutela in forma specifica attraverso l’attività del

commissario ad acta per le sentenze di accertamento e dichiarativa dell’illegittimità del recesso, con disapplicazione del relativo atto, nonché di eventuale condanna al risarcimento in forma specifica ex art. 2058, attraverso lo strumento del giudizio di ottemperanza, ex art. 112, comma 2, lett. c) c.p.a., azionabile anche per le “sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati del giudice ordinario”.

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