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I rendimenti dei sistemi di formazione continua: modelli nazionali a confronto.

La formazione continua in Europa: modelli istituzionali e quadro statistico.

2.6. I rendimenti dei sistemi di formazione continua: modelli nazionali a confronto.

In questo capitolo si è tentato di ricostruire, senza alcuna pretesa di esaustività, il panorama europeo della formazione continua, tentando di

affiancare all'analisi dei modelli di regolazione (svolta attraverso lo studio della letteratura sull'argomento e delle fonti documentali delle istituzioni europee preposte, soprattutto il Cedefop) la descrizione del quadro statistico relativo ai principali indicatori concernenti la formazione continua, tra cui il livello di partecipazione dei lavoratori e la percentuale di imprese formatrici nei diversi paesi (utilizzando i dati emersi da diverse indagini europee sulla formazione degli adulti e sulla formazione employer provided). In sede di conclusioni si proverà a trarre un bilancio con il fine di sviluppare, all'incrocio tra le due dimensioni analitiche appena descritte, una riflessione sul rendimento dei diversi modelli istituzionali di formazione continua esistenti in Europa.

La considerazione da cui è stata stimolata l'analisi svolta in questo capitolo è il maggiore successo dei sistemi formativi caratterizzati da una più ampia regolazione e, sebbene in forme diverse, riconducibili al modello intermedio che abbiamo definito statale-associativo, in particolare Danimarca e Francia (Lodigiani, 2008). A questa considerazione fanno da contraltare i dati relativi agli investimenti privati in formazione continua, ai buoni livelli di partecipazione al lifelong learning ed all'alta incidenza della popolazione con livello di studio terziario, riscontrati nel Regno Unito, patria del laissez faire, anche in questa materia. Il caso del Regno Unito sembrerebbe, cioè, sconfessare l'ipotesi che il successo di un sistema di formazione continua sia legato al suo livello complessivo di regolazione ed al coinvolgimento di diversi attori istituzionali (in primo luogo le parti sociali, oltre che lo Stato). A questo proposito, Lodigiani (2008), dopo aver più volte sottolineato l'eccessiva fiducia dell'impianto inglese nelle capacità del mercato di regolare il campo dell'apprendimento continuo, riconosce tuttavia l'efficacia complessiva dell'impianto rispetto all'obiettivo dello sviluppo del lifelong learning.

Considerati il debole ruolo statale e l'influenza marginale delle parti sociali, possiamo supporre che il successo del modello inglese sia effettivamente legato

al buon funzionamento di meccanismi "autoregolantisi", legato a sua volta a diversi fattori: da una lato, la fluidità del mercato del lavoro, caratterizzato da un'alta flessibilità in entrata ed in uscita, unita alla terziarizzazione dell'occupazione, che determinano lo sviluppo di carriere esterne basate sull'accumulazione di capitale umano e sull'aggiornamento continuo; dall'altro, l'impegno delle autorità preposte, delle imprese e degli stessi lavoratori sul versante della certificazione delle competenze, che rendendo trasparente il "mercato delle qualifiche" sottrae le imprese al classico dilemma49 degli investimenti in formazione, incoraggiandole ad incrementarli: da ciò gli alti investimenti in formazione continua di imprese e lavoratori, nonostante l'assenza di obblighi legali o accordi tra le parti sociali.

Non si può, tuttavia, non avanzare dubbi sui possibili esiti, in termini di equità sociale, di un sistema pur sempre basato sull'individualizzazione dei rischi e delle opportunità. I vantaggi connessi alla costruzione di un sistema regolato di formazione continua, a maggior ragione se caratterizzato da un alto livello di concertazione tra le parti sociali e tra queste e l'attore pubblico, al contrario, dovrebbero risiedere proprio nella riduzione dell'influenza di

49 Come sostiene Follis (2004), "la valutazione delle competenze offerte sul mercato del lavoro

incontra un grosso problema di asimmetria informativa, che può essere risolto solo attraverso policies capaci di rendere trasparente ciò che ogni impresa ha interesse a mantenere opaco, e d'assicurare con ciò lo status pubblico delle competenze professionali". Le imprese, nel timore di perdere i propri investimenti in formazione per via dell'uscita del collaboratore formato dalla propria organizzazione, possono essere tentate di ridurre questi investimenti ad un livello sub- ottimale, o di rendere le competenze da lui acquisite "non trasferibili". Se tutte le imprese, però, utilizzano criteri idiosincratici di valutazione/certificazione delle competenze dei propri lavoratori, impedendone la trasferibilità, gli investimenti in formazione saranno sempre meno convenienti in presenza di elevata mobilità esterna: come conseguenza ne risulterà impoverito il capitale umano del bacino produttivo territoriale. Le imprese si trovano dunque di fronte ad un dilemma: investire in formazione per migliorare la propria competitività (esponendosi al rischio di perdere "pezzi di sapere organizzativo", a vantaggio di altre imprese, o non investire? Una risposta a questo dilemma, l'idiosincrasia nelle procedure di certificazione, ha, come abbiamo visto, risvolti negati sia per le imprese (che allorché si trovano a dover cercare sul mercato nuovi collaboratori saranno vittime dell'opacità da loro stesse creata), che per i lavoratori (che non potranno vendere fuori dall'impresa le proprie competenze), che per il sistema produttivo locale. Solo l'istituzione di sistemi di certificazione condivisi dalle imprese e controllati da attori esterni può fornire una soluzione al problema: essi assicurano la trasparenza del mercato, rendendo la mobilità esterna più conveniente sia per le imprese che per i lavoratori.

variabili individuali (dal reddito disponibile alla posizione sul mercato del lavoro) e delle scelte degli attori economici sull'accesso dei lavoratori alla formazione continua.

Questo sembra dimostrare il caso francese, in cui l'esistenza di un sistema fortemente regolato, attraverso l'azione dello Stato e delle parti sociali, ha condotto a risultati ottimi per gli occupati, più discussi per i disoccupati50, ma sembra possibile parlare di un'effettiva realizzazione del diritto individuale alla formazione continua, attraverso la predisposizione di canali di finanziamento e misure dedicate per le diverse categorie sociali e lo stanziamento di importanti risorse pubbliche e private. I risultati migliori riguardano, come già accennato, i lavoratori: la Francia presenta una delle percentuali più alte in Europa di lavoratori che accedono ad opportunità formative, ed anche la percentuale di imprese formatrici è altissima (71%, preceduta solo da Danimarca e Svezia); inoltre, le opportunità formative sembrano essere ben distribuite tra le imprese di grandi, medie e piccole dimensioni, poichè, se è vero le la percentuale di imprese formatrici è maggiore tra le prime, essa è alta anche tra le imprese più piccole, almeno dieci punti percentuali in più rispetto alla media europea (CVTS, 2005).

D'altra parte, i risultati del sistema italiano di formazione continua, ispirato proprio al modello del paritarisme francese nella sua evoluzione verso una partecipazione sempre maggiore delle parti sociali al governo delle politiche ed alla gestione degli interventi, con lo Stato impegnato nella predisposizione del quadro regolativo generale e nelle misure a favore delle categorie svantaggiate, sono molto diversi: investimenti decrescenti (CVTS, 2005; Riva, 2008), livelli di partecipazione degli adulti alla formazione continua tra i più bassi in Europa (con risultati sensibilmente migliori se si guarda ai soli occupati),

50 A causa degli effetti non univoci, in termini di inclusione sociale, dei programmi di insertion

al lavoro, che coniugano formazione e sostegno al reddito, anche attraverso la creazione diretta di occupazione, nell'ottica del "welfare to work" (Lodigiani, 2008).

disuguaglianze nell'accesso alle opportunità formative (legate tanto alle caratteristiche personali ed alla posizione sul mercato del lavoro, quanto alle caratteristiche delle imprese), continuano a caratterizzare questo sistema, nonstante i recenti tentativi di riforma (cfr. Cap. 5). Inoltre, i risultati delle diverse indagini sulla formazione continua analizzate testimoniano performances deludenti dei paesi che abbiamo ricondotto al modello statale/associativo, caratterizzato da un più alto livello di regolazione, sul versante della riduzione delle disuguaglianze (per genere, età, posizione occupazionale) nell'accesso alle opportunità formative.

L'analisi dei sistemi generali di formazione continua sembra, dunque, suggerire una riflessione, che sarà confermata dallo studio dei modelli di regolazione della formazione per i lavoratori in somministrazione, nei capitoli successivi: a fronte di modelli "formalmente" simili, ispirati dalle stesse considerazioni politiche di massima, i prerequisiti istituzionali e le scelte dei policy makers possono giocare un ruolo determinante nel differenziare tanto la concreta attuazione del modello, quanto gli esiti. Anche in presenza di un quadro caratterizzato da un livello medio-alto di regolazione della formazione continua e dal coinvolgimento di tutti gli stakeholders nella gestione del sistema, dunque, è necessario prestare attenzione alle modalità concrete attraverso cui si da attuazione ai principi del controllo (statale) dell'agibilità del diritto alla formazione continua e della concertazione tra le parti degli obiettivi e degli strumenti opportuni.

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