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Segue Esigui spazi di compatibilità tra art 41-bis e funzione rieducativa

7. L’art 41-bis ord pen e la funzione rieducativa Un valore residuale?

7.1. Segue Esigui spazi di compatibilità tra art 41-bis e funzione rieducativa

Appurato come l’ideale rieducativo debba essere garantito a chiunque e debba caratterizzare, con maggiore o minore intensità, tutti i momenti della pena, va a questo punto vagliata la tenuta costituzionale dell’art. 41-bis ord. pen. in relazione all’art. 27, co. 3, Cost.

In primo luogo, non può sottacersi come l’ordinamento penitenziario sia costellato di norme che richiamano l’ideale rieducativo. In particolare, l’art. 1,

L’ideale rieducativo, imprescindibile sotto il profilo teorico, deve essere inserito all’interno

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della realtà carceraria, che, a causa dei suoi problemi endemici, ne rende più difficoltosa la realiz- zazione. Al riguardo, M. PALMA, Il difficile rapporto tra le teorie della pena, cit., p. 1298, mette a nudo le tare attuali del sistema carcerario, che inevitabilmente si riverberano sulla realizzabilità delle funzioni della pena. Queste problematiche sono: la centralità assoluta nel dibattito pubblico di una sola parte della popolazione carceraria, quella imputata o detenuta per reati di criminalità organizzata, che, però, rappresenta meno di un quinto del totale; l’affollamento delle carceri, ques- tione che acquisirà nuovamente rilevanza sia per un nuovo trend in aumento, sia alla luce della recente sentenza delle SS.UU. del 24 settembre 2020, che ha escluso dal computo dello spazio minimo di tre metri quadrati, gli arredi tendenzialmente fissi al suolo; il tempo trascorso in carcere qualitativamente scarso, caratterizzato per l’assenza di esperienze significative e per la sua ciclic- ità. Gli antidoti prospettati dall’A. alla crescente obsolescenza del carcere (rispetto alla sua fun- zione ma non rispetto alla sua diffusione), sono: una più frequente applicazione di misure alterna- tive alla detenzione, ancora viste come attenuazione dell’afflittività della sanzione piuttosto che come tappa di ritorno al contesto sociale esterno; un accompagnamento graduale al ritorno in lib- ertà (ossia, progressività del trattamento carcerario); una migliore gestione del tempo in carcere, da arricchire con esperienze che non rappresentino mero intrattenimento del detenuto, ma coinvolgi- mento in attività stimolanti più vicine a quelle del mondo esterno.

co. 5 dispone che «Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi». Analogamente, l’art. 1, co. 2 del Regolamento penitenziario (D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230), san- cisce che «Il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli at- teggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di os- tacolo a una costruttiva partecipazione sociale».

Tuttavia, nonostante tali affermazioni di principio, nei confronti di de- terminate categorie di condannati , e in particolare coloro che hanno commes256 - so delitti di stampo terroristico o delitti associativi di tipo mafioso, viene dis- posto, ai sensi dell’art. 4-bis ord. pen., il divieto di concessione dei benefici penitenziari (come l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione — tranne la liberazione anticipata —), a meno che non collaborino con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter della medesi- ma legge e non siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di col-

V. MONGILLO, La finalità rieducativa della pena nel tempo presente e nelle prospettive future,

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in Critica del diritto, 2009, pp. 173 ss., osserva come l’ideale rieducativo sia entrato in crisi per effetto del diffondersi del mito securitario. In particolare, l’A. afferma che l’atmosfera culturale, politica e sociale dominante a livello internazionale rappresenta un «ingombrante macigno sul cammino che conduce ad una più effettiva e meno declamatoria affermazione di tale scopo della pena». In un epoca caratterizzata da un sentimento di paura diffuso si afferma l’ossessione per la sicurezza e l’intolleranza di qualsivoglia smagliatura nell’offerta di sicurezza attesa, con la con- seguenza che la paura diviene essa stessa strategia di azione politica ed elemento costitutivo del potere. Si passa così ad una politica della paura che enfatizza talune minacce e le trasforma in emergenze. Tra queste, la più rilevante è sicuramente la paura della criminalità, con la conseguen- za che il modo più agevole per conseguire consenso politico è diventato quello di adottare un at- teggiamento inflessibile contro il crimine. Da qui il c.d. “populismo penale”, ossia una strategia comunicativa in grado di soddisfare i bisogni comunitari di sicurezza e il loro sistema valoriale tendenzialmente escludente, cui fa da pendant una trasformazione rudemente concreta del modello di giustizia criminale. Ne discende la dilatazione e l’inasprimento del sistema penale, la riesumazione del diritto penale della pericolosità, e la inevitabile compressione dell’obiettivo della rieducazione a favore della filosofia precauzionale, della neutralizzazione dei rei ritenuti altamente pericolosi o incorreggibili.

Queste osservazioni dell’A. si adattano bene al discorso in esame, dal momento che, le esigenze securitarie connesse alla legislazione di emergenza che ha dato vita al 41-bis in una stagione politico-sociale molto delicata, i cc.dd. anni di piombo, hanno dato luogo a istituti giuridici che prediligono l’esigenza di neutralizzazione del reo piuttosto che quella di rieducazione, lasciata sullo sfondo se non del tutto obliterata. E’ così che determinate categorie di condannati, per effetto del sentimento di paura e dell’esigenza di una risposta politica ad un problema sociale molto pres- sante come quello della strategia stragista posto in essere della criminalità mafiosa, vengono trat- tate in modo deteriore rispetto alla generalità dei detenuti, proprio in virtù delle citate esigenze precauzionali e di neutralizzazione.

legamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, ovvero l’attiv- ità collaborativa venga considerata inutile o si dimostri irrilevante. Spesso, al divieto di concessione di benefici, vista l’identità dei presupposti soggettivi (os- sia essere detenuto o internato per alcuno dei delitti indicati nel primo periodo, primo comma dell’art. 4-bis), si affianca, altresì, l’adozione di tutte quelle mis- ure necessarie a limitare i contatti con l’esterno, tra cui la riduzione dei colloqui con i familiari, la censura della corrispondenza, la diminuzione della permanen- za all’aperto, conseguenti all’applicazione dell’art. 41-bis ord. pen.

Può un trattamento penitenziario caratterizzato dal divieto di conces- sione di benefici e dalla sospensione di numerose regole che ne consentono la proiezione verso l’esterno essere orientato alla rieducazione?

Invero, la Corte Costituzionale ha ritenuto l’art. 4-bis coerente con l’art. 27, co. 3, Cost., e ciò grazie alla valorizzazione della possibilità di applicare l’istituto della liberazione anticipata e della collaborazione con la giustizia, 257 scelta che consentirebbe al reo di fruire dei benefici penitenziari . 258

Anche l’art. 41-bis è stato ritenuto, sin dalle note sentenze n. 349/1993 e n. 351/1996, rispettoso della funzione rieducativa, giacché, secondo la i giudici della Consulta, le singole misure e il loro complesso non devono essere tali da vanificare del tutto quella finalità. Tra l’altro, anche per il trattamento peniten- ziario differenziato valgono le medesime considerazioni svolte per il 4-bis con riferimento alla collaborazione giudiziale che, costituendo un chiaro indice di

In senso analogo, la Corte Costituzionale, con sentenza 264/1984, aveva ritenuto compatibile

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con il principio rieducativo la pena dell’ergastolo in quanto, anch’essa, poteva essere estesa la lib- erazione condizionale. In tal senso, cfr. P. PITTARO - M. GIALUZ, Sub art. 27 Cost., in Commen-

tario breve alla Costituzione, a cura di R. BIN - S. BARTOLE, Padova, 2008, pp. 284 s.

Corte Cost., 8 luglio 1993, n. 306, in Cass. pen., 1994, p. 837, ai sensi della quale, al riguardo:

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«L’inciso "fatta eccezione per la liberazione anticipata" introdotto con la legge di conversione n. 356 del 1992 nel testo dell'impugnato art. 4-bis del D.L. n. 306 del 1992, primo comma, prima parte, (disciplinante le modalità di concessione dei benefici penitenziari), è volto ad escludere l'ap- plicabilità alla liberazione anticipata della limitazione (in esso contenuta) consistente nella non concedibilità dei benefici penitenziari ai condannati che non collaborano con la giustizia; tale in- terpretazione, condivisa dalla Corte di Cassazione e dalla Corte Costituzionale, oltre ad emergere dal dato letterale della disposizione, risulta anche dai lavori preparatori contrassegnati univoca- mente dall'intento di mitigare il rigore della norma originaria del decreto legge. Cadono perciò le censure di incostituzionalità in quanto fondate sull'erroneo presupposto interpretativo che la liber- azione anticipata non sarebbe concedibile neanche ai condannati che offrono collaborazione con la giustizia».

dissociazione, rappresenta la strada maestra per evitarne l’applicazione o la rin- novazione.

Se, in effetti, la liberazione anticipata può rappresentare una speranza per il detenuto tale da indurlo a seguire un percorso di riacquisizione dei valori sociali, poco convincente appare però la posizione della Corte in merito alla collaborazione giudiziale, istituto non sempre in linea con l’ideale rieducativo. E’ possibile distinguere, infatti, tra collaborazione precedente alla sentenza de- finitiva di condanna da quella intervenuta in fase di esecuzione della pena, ove maggiori sono i rischi di scelte meramente utilitaristiche e del tutto disancorate da una reale volontà di emenda. Inoltre, se può essere ragionevole attribuire una valenza premiale a chi presti una collaborazione efficace, non altrettanto ra- gionevole pare, al contrario, l’applicazione di un handicap sanzionatorio a chi ritenga di non perseguire tale via , costituito da un trattamento penitenziario 259 ben più rigoroso.

In realtà, la collaborazione giudiziale appare coerente con la funzione rieducativa solo quando, appuratane la genuinità, ci si limiti a prevedere esclu- sivamente un momento di premialità nella commisurazione e nelle modalità es- ecutive della pena. Essa presta il fianco a dubbi di costituzionalità, invece, quando si frantuma «il rapporto di proporzionalità fra la gravità del reato e la conseguenza sanzionatoria». La funzione retributiva e la stessa funzione ried- ucativa verrebbero, infatti, del tutto eluse e pretermesse qualora l’esigenza pre- miale si spingesse al punto di neutralizzare del tutto l’effetto essenzialmente punitivo della sanzione penale, o, al contrario, si sanzionasse gravemente la scelta negativa, poiché fa apparire la pena come ingiusta . 260

M. RONCO, Il significato retributivo-rieducativo della pena, cit., p. 143.

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Ibidem, pp. 142 s., osserva in modo disincantato come solo un “bolso moralismo”, tale da con

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fondere il diritto con la morale, potrebbe indurre ad attribuire ai comportamenti collaborativi un valore redentivo di portata quasi integralmente liberatoria.

Laddove si consideri, dunque, che la collaborazione processuale si man- ifesta come indispensabile, se non unico , presupposto per ottenere la revoca 261 del trattamento penitenziario differenziato, e così accedere a quello ordinario, emergono alcuni profili di attrito con la funzione rieducativa della pena, giacché si finisce con il coartare la libertà di coscienza del condannato e con lo stru262 - mentalizzare la persona in vista di un fine eteronomo, ossia una funzione pura- mente general-preventiva di lotta contro la devianza terroristica e mafiosa.

Nè può affermarsi che la mancata collaborazione rivelerebbe il radica- mento del detenuto nella scelta criminale. Le ragioni che spingono a non col- laborare possono essere le più variegate, così come, viceversa, quelle che spin-

L’applicazione del 41-bis è subordinata, infatti, alla prova della capacità di collegamento con

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l’organizzazione di origine, prova molto semplice da fornire a fronte di una presunzione di perma- nenza del vincolo associativo anche in costanza di detenzione. La prova contraria potrà essere data, pertanto, solo in presenza di inequivocabili elementi di segno contrario, idonei a dimostrare la rescissione definitiva di tali legami. Non essendo sufficiente, a tal fine, il mero pentimento del reo, l’unico comportamento che la magistratura di sorveglianza valuta positivamente in sede di reclamo avverso il provvedimento di prima applicazione o rinnovazione del 41-bis, oltre quello della disgregazione del gruppo mafioso di riferimento, è la collaborazione con la giustizia.

L. EUSEBI, Ergastolano «non collaborante», cit., p. 1223.

gono a collaborare, tra cui, in primis, ragioni di mero tornaconto personale e non certo di abbandono delle logiche criminali . 263

Ne consegue, pertanto, la incrinazione del principio rieducativo tutte le volte in cui si ricolleghi un effetto negativo ad una scelta potenzialmente neutra in vista del perseguimento di una funzione di politica criminale . 264

Anche il concreto esplicarsi del 41-bis risulta, infine, difficilmente com- patibile con l’art. 27, co. 3, Cost.

La Corte Costituzionale ha ritenuto che il regime speciale «non compor- ta e non può comportare la soppressione o la sospensione delle attività di osser- vazione e di trattamento individualizzato previste dall’art. 13 dell’ordinamento penitenziario, né la preclusione alla partecipazione del detenuto ad attività cul- turali, ricreative, sportive e di altro genere, volte alla realizzazione della person- alità, previste dall'art. 27 dello stesso ordinamento, le quali semmai dovranno essere organizzate, per i detenuti soggetti a tale regime, con modalità idonee a impedire quei contatti e quei collegamenti i cui rischi il provvedimento ministe-

Viola c. Italia (n. 2), n. 77633/16, Corte Edu 2019, ha dichiarato la violazione dell’art. 3 CEDU,

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ossia del divieto di trattamenti inumani e degradanti, nei confronti di un detenuto a regime di 41- bis, condannato alla pena dell’ergastolo ostativo di cui al combinato disposto ex artt. 22 c.p., 4-bis e 58-ter ord. pen., in quanto, considerata l’impossibilità di fruire dei benefici ex art. 4-bis e consid- erata la ristrettissima possibilità di liberazione anticipata e di revisione del processo, la misura sanzionatoria è stata considerata “irreducible”. La Corte ha osservato, in particolare, che la possi- bilità di fruire della liberazione anticipata e delle modalità alternative alla detenzione, sebbene previste dall’ordinamento, fosse condizionata alla scelta del detenuto di collaborare con la gius- tizia. La Corte ha dunque manifestato seri dubbi sulla possibilità di far discendere una presunzione di pericolosità sociale dalla mera opzione non collaborativa, potendo essere la decisione determi- nata da motivi diversi dalla volontà di mantenere i contatti con l’organizzazione criminale di rifer- imento, e la scelta contraria potrebbe avvenire nonostante il persistere dei legami associativi. Nel caso di specie, in effetti, la scelta non collaborativa del Viola era stata determinata della paura di ritorsioni oltre che dall’intima convinzione di essere innocente. La Corte ha ritenuto dunque che tale situazione non fosse il frutto di una decisione libera e deliberata, e che non riflettesse sempre la scelta del detenuto di recidere i contatti con l’organizzazione criminale di riferimento. Queste considerazioni si riflettono, a dire della Corte, anche sul processo rieducativo del condannato: questi potrebbe, infatti, collaborare senza andare incontro ad alcun processo riabilitativo, così come potrebbe aver perseguito un adeguata rieducazione nel caso contrario, come successo al ri- corrente, nei confronti del quale erano stati formulati giudizi positivi sulla condotta carceraria tenuta. Poiché, dunque, le possibilità di contatto con la società, pur previste dall’ordinamento pen- itenziario, non erano state garantite al detenuto per effetto del particolare regime cui era sottopos- to, e poiché la mancanza di cooperazione da parte degli organi giudiziari aveva dato luogo ad una sostanziale e inconfutabile presunzione di pericolosità sociale del ricorrente, la Corte ha concluso affermando che sarebbe incompatibile con la dignità umana privare una persona della libertà per- sonale senza concedergli una possibilità di riottenere quella libertà in futuro, come nel caso del- l’ergastolo ostativo, da qui la violazione dell’art. 3 CEDU.

M. RONCO, Il significato retributivo-rieducativo della pena, cit., p. 143.

riale tende ad evitare». Inoltre, ad avviso della Corte «l’applicazione dell'art. 41-bis non può dunque equivalere […] a riconoscere una categoria di detenuti che sfuggono, di fatto, a qualunque tentativo di risocializzazione» . Nondi265 - meno, la programmabilità e perseguibilità di un adeguato piano trattamentale si scontra sia con le forti limitazioni all’estrinsecazione della personalità individ- uale che la misura impone , sia con la grave carenza, soprattutto nelle sezioni 266 speciali, di operatori dell’area giuridico-pedagogica . Al riguardo si registra, 267 in particolare, l’assoluta rarità di colloqui con personale qualificato e, laddove presenti, del tutto svincolati da piani effettivi di costruzione di un percorso di reinserimento, al punto da far apparire le sezioni speciali di detenzione come territori totalmente affrancati da una logica programmatica, essenziale ai fini del rispetto dell’art. 27, co. 3, Cost. . 268

Si è visto, però, come il principio di rieducazione sia elastico, in quanto suscettibile di maggiore compressione o estensione a seconda delle caratteris- tiche del reo (che può essere più o meno predisposto ad essere risocializzato) e delle esigenze di ordine e sicurezza del caso concreto (che può presentare un maggiore o minore pericolo per la collettività). In astratto, pertanto, è possibile concordare con la posizione manifestata dalla Corte Costituzionale dal momen- to che, in presenza di pressanti esigenze di sicurezza pubblica conseguenti a gravi forme di manifestazione della criminalità organizzata, possono prevalere le funzioni di prevenzione e neutralizzazione al punto da limitare fortemente, senza mai escludere del tutto, alcuni rilevanti diritti della persona (come nel caso dei diritti alla libertà, alla corrispondenza, alla salute). Queste limitazioni sarebbero costituzionalmente legittime solo se inserite in un contesto di partico-

Corte Cost., 26 novembre 1997 n. 376, cit.

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Si pensi all’interpretazione particolarmente restrittiva che, sino al Decreto del Ministro della

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giustizia del 5 ottobre 2017, era stata data della nozione di permanenza all’aperto: sino a tale mo- mento, infatti, le due ore da trascorrere all’aperto si ritenevano comprensive non solo della c.d. ora d’aria, ma anche delle attività da svolgere nelle sale di biblioteca, palestra ecc.

Garante dei diritti dei detenuti, Rapporto tematico sul regime detentivo speciale ex articolo 41-

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bis dell’ordinamento penitenziario (2016-2018), p. 20, che definisce la presenza del personale giuridico-pedagogico nelle sezioni 41-bis, «spesso del tutto aleatoria».

Ibidem, p. 20.

lare allarme sociale, di pericolo per la sicurezza pubblica e per l’ordine interno all’istituto carcerario, nonché di eccezionale pericolosità sociale del detenuto.

Tuttavia, allorché queste limitazioni, in ipotesi legittime, si dovessero accompagnare anche a una disciplina che subordina la concessione dei benefici penitenziari alla pura e semplice scelta collaborativa, senza un reale vaglio di pericolosità del soggetto e delle ragioni che hanno indotto a collaborare con la giustizia, e che determina un’evidente coartazione della libertà di scelta del de- tenuto, il principio di rieducazione del condannato rischia, inevitabilmente, di uscirne compromesso. A quale risocializzazione può andare incontro un sogget- to che, responsabile di crimini particolarmente gravi ed efferati, solo per aver scelto di collaborare con la giustizia, dovesse subire una sanzione ben inferiore alla propria responsabilità? Allo stesso modo, quale rieducazione potrà essere garantita a colui che si vede ricollegare una sanzione caratterizzata da modalità esecutive particolarmente alienanti e penalizzanti, solo per non aver scelto di intraprendere il medesimo percorso?

A ciò si aggiunga che eventuali residui spazi in cui potrebbero conser- varsi pulsioni rieducative vengono totalmente annichiliti dalla mancata predis- posizione di percorsi trattamentali ad hoc nei confronti dei detenuti a regime speciale.

Infine, diventa essenziale, affinché la tensione del principio rieducativo — determinata dalle limitazioni imposte dal 41-bis alla risocializzabilità del detenuto — non pervenga a vera e propria rottura, che limitazioni siffatte vengano applicate per il tempo necessario a tutelare l’ordine e la sicurezza in- terne alla vita degli istituti e a impedire collegamenti con l’esterno. Laddove, viceversa, a causa della diffusa prassi di reiterazione quasi automatica della misura al suo scadere , diventasse un istituto “ordinario” o addirittura perma269 -

Fino alla riforma del 2009, infatti, era previsto un requisito negativo di accertamento dei pre

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supposti ai fini della proroga che dava luogo ad un’evidente inversione dell’onere della prova a carico del detenuto. Dopo il 2009, pur essendo stato previsto un chiaro onere positivo a carico del- l’Amministrazione penitenziaria, non è mancato chi ritenesse che fosse rimasta, sul punto, una presunzione di persistenza di collegamenti tra detenuto e organizzazione di provenienza. Al riguardo, cfr. L. CESARIS, Sub art. 41 bis o.p., cit., p. 471.

nentemente caratterizzante lo stato di detenzione di determinate categorie di detenuti, esso costituirebbe un vero e proprio ostacolo al processo rieducativo, a causa della sua natura inutilmente vessatoria ed occultamente eliminativa . 270

Si pone dunque l’esigenza di un’applicazione misurata dell’istituto in esame, sulla base di provvedimenti ministeriali impositivi adeguatamente moti- vati, e di provvedimenti di proroga ancor meglio motivati, così da impedire quelle prassi volte a procrastinare in modo automatico un regime carcerario par- ticolarmente duro e alienante. Se in astratto il regime può essere considerato compatibile con l’art. 27, co. 3, Cost. (salve le criticità in merito alla disciplina