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Caterina Tristano

la vita culturale del territorio di Sansepolcro porta una cifra fondamentale: la presenza dell’abbazia benedettina fondata nel 1012 dall’abate roderico su terreni concessi dalla chiesa di roma e dotati fin da subito di privilegi imperiali. per comprendere di quale entità fosse fin da subito il problema giurisdizionale che si venne a creare intorno al governo dell’abbazia, basterebbe solamente tener conto da una parte della bolla pontificia del 1013, in cui papa Benedetto VIII concede all’abbazia il possesso di corti positae infra Castrum Felicitatis, cioè di possesso della chiesa, ma nel territorio della diocesi di città di castello1 e

dall’altra del privilegio, datato a pavia nello stesso anno, dell’imperatore enrico II, che pone sotto il proprio

mundeburdio, cioè sotto la propria alta protezione «il monastero in onore del Santo Sepolcro […] e dei santi

evangelisti, posto nella località chiamata noceati, insieme con […] le pertinenze che possiede nel comitato di città di castello e nei territori di perugia, assisi, arezzo e Siena»2, con ciò dichiarando l’abate proprio

vassallo e l’abbazia controllata dal potere imperiale. ma ancora, nel quadro politico più ristretto, il collegarsi dell’abbazia direttamente con il papato e con l’impero mira in primo luogo a liberarla dall’ingerenza del vescovo castellano, così come da quella di ogni altro vescovo di diocesi limitrofe. Sennonché, enrico II, in un documento emanato il 29 giugno del 1017 da Goslar3, nel ribadire il proprio diritto di investitura dell’abate,

gli assicura protezione materiale per il tramite di adiutores, individuati in quel Suppo, discendente del ramo

aretino della famiglia marchionale dei Supponidi, e i suoi figli4, il che contribuisce non poco ad attirare verso

arezzo non solo il coté politico, ma anche quello culturale dell’abbazia appena istituita.

non appare strano, certo, che nella prima metà dell’XI secolo, caratterizzata dalla presenza sul soglio aretino di vescovi filoimperiali di grande statura intellettuale e politica , quali adalberto, Teodaldo e poi Immone e arnaldo, che si fregiò per primo del titolo di vescovo-conte, figure di colti mecenati e di presuli di impostazione preriformista, ma anche guide politiche e amministratori riconosciuti dell’ampio territorio della diocesi, sia proprio arezzo ad avanzare diritto di giurisdizione sulla ricca abbazia e sul territorio ad essa sottoposto, tanto che papa Gregorio VI, durante il suo breve e contrastato governo, nel 1046, dovette emanare una bolla con cui liberava l’abbazia proprio dalla dipendenza dal vescovo di arezzo.

Del resto, la tanto ricercata autonomia degli abati di Sansepolcro da ingerenze di altre autorità ecclesiastiche o laiche che non fossero l’imperatore e il papa, sottolineata fin dal primo privilegio di enrico II con le parole «che nessuna autorità, arcivescovo, vescovo, marchese, conte, visconte […] pensi di molestare […] l’abate e i suoi successori»5, è un po’ il motivo conduttore della vita dell’abbazia, almeno fino alla metà del

XIII secolo, nonostante i ripetuti categorici inviti del papato a entrare nella congregazione camaldolese. I ripetuti disastrosi attacchi dei signori locali6 e i violenti terremoti che hanno devastato il territorio – le

cronache ricordano, tra gli altri, il sisma del 1351 in cui fu distrutta proprio la canonica e l’archivio7 – hanno

pesantemente inciso sulla permanenza di un congruo numero di testimonianze materiali dell’attività culturale promossa dal cenobio benedettino fin dall’epoca della sua fondazione, soprattutto di testimonianze scritte. Il piccolo manipolo di fonti librarie oggi reperibile annovera, accanto a frammenti di manoscritti la cui origine gli studi ancora non hanno situato con certezza in area aretina o castellana e che sono detti della Toscana orientale o dell’umbria settentrionale, alcuni codici databili tra XII e XIII secolo, probabilmente allestiti per la Badia in particolare, anche se non si può essere sicuri che siano stati prodotti in loco, perché 1 KeHr, IV, p. 108. 2 MGH, Dipl., III, p. 326. 3 MGH, Dipl., III, pp. 471-73. 4 WIcKam 1981; Delumeau 1996. 5 MGH, Dipl., p. 326. 6 rIccI 1942; cZorTeK 2010b. 7 muZI 1842-43; aGnoleTTI 1976.

non portano sottoscrizione del copista, pur mostrando di essere, ciascuno per le proprie specificità, “figli” di quella grande cultura grafica e ornamentale che ha caratterizzato tra XI e XIII secolo la Tuscia orientale e che ha avuto principalmente in arezzo il suo fulcro. I frammenti conservati in massima parte presso la Biblioteca comunale di Sansepolcro8 e presso l’archivio di Stato di arezzo, a volte costituiti di un unico

foglio, provengono da quelli che furono i libri usati per celebrazioni liturgiche o per letture scolastiche. Sopravvissuti ai colpi degli uomini e della natura, ricordano l’esistenza di una vita comunitaria fiorente e di stretti rapporti culturali intessuti tra gli abati e le istituzioni vescovili contermini, fin dal primo periodo di fondazione dell’abbazia almeno per tutto il tempo in cui essa e il suo territorio furono dichiarati nullius diecesis, cioè non sottoposti ad amministrazione vescovile e con piena giurisdizione temporale, cioè dalla

prima metà dell’XI secolo al 1363, fino a quando il vescovo di città di castello potrà affermare la propria autorità sul Borgo9.

con l’ascesa politica e sociale del Borgo e della sua abbazia, si sviluppa anche la vita culturale, ovviamente caratterizzata essenzialmente dagli studi teologici, una cultura, questa, che, se originariamente è tutta interna all’ambito monastico, poi sarà arricchita dai successivi insediamenti francescani e serviti, tra XIV e XV secolo10. Finché, con l’inizio del XVI secolo, quando nel 1515 l’abate Galeotto Graziani fu nominato vescovo

da papa leone X, l’istituzione verrà soppressa, i suoi beni assegnati alla nuova diocesi e forse i libri conservati per lungo tempo nel suo archivio e ridotti a brandelli saranno riutilizzati per coprire testi più “moderni”, manoscritti o a stampa, mentre solo pochissimi codici antichi in migliori condizioni verranno conservati. Già da tempo, comunque, il polo d’attrazione culturale della classe dirigente del Borgo si era spostato dalla Toscana orientale e dall’umbria settentrionale agli ambienti intorno ai malatesta di rimini prima, a partire dal 1371, e a quelli fiorentini dalla metà del XV secolo, là dove lo portavano i mutati orientamenti politici del territorio e il progressivo disinteresse dell’impero e del papato.

Se le vicende storiche del Borgo e della sua abbazia sono note11, sono proprio le poche testimonianze

librarie a permettere di ricostruire la sua storia culturale. In massima parte le fonti superstiti comprovano la presenza presso l’archivio abbaziale di testi liturgici e testi omiletici, che insieme alle opere esegetiche dei padri, agostino e Gregorio magno in primis, ai passionari e ai libri scritturali costituivano il patrimonio

indispensabile di una comunità ecclesiastica, soprattutto di marca monastica. Si tratta di testi di lunga tradizione per la religiosità occidentale, come il foglio tratto da un codice contenente le omelie di paolo Diacono che faceva da coperta a un volume di carattere teologico del XVI secolo, con la segnatura J.61, appartenuto prima al collegio dei Gesuiti della città e poi al Seminario vescovile. Il frammento, in scrittura carolina databile alla prima metà dell’XI secolo, porta l’inizio dell’omelia per la festa di San Benedetto, come recita la rubrica, ed è ornato da un’iniziale (H) tracciata a penna e non colorata con intrecci, foliaggi e protomi animali di stile geometrico iniziale (Fig. 99).

alla stessa epoca risale il frammento in minuscola carolina delle Omelie ai Vangeli di Gregorio magno,

servito per rilegare documentazione dell’archivio comunale nel XVI secolo e ora conservato alla segnatura arch. com. cass. I, busta 7, framm. 212 (Fig. 100), che mostra notevoli similitudini grafiche con codici

coevi attribuiti all’area aretina, come il Passionario di Firenze, Biblioteca nazionale centrale, II.I.412,

probabilmente anch’esso di ambito monastico13.

un testimone che porta evidenti i segni del sincretismo culturale che caratterizza la cultura del territorio è costituito dalle 15 carte superstiti di un messale, ora conservate presso l’archivio di Stato di arezzo (aSar, framm. II, 154-168)14. In base all’analisi grafica, la minuscola carolina dal modulo quadrato, regolare sul rigo,

con semplici capilettera ornati a inchiostro, presente nel frammento è databile alla prima metà del XII secolo e molto più vicina a coevi esempi aretini, come il Passionario, ms. Firenze laur. mugell. 14 o l’Omiliario, ms.

Firenze laur. plut. 17.39, attribuito dal Garrison a un’area di confine tra la Toscana e l’umbria settentrionale15.

Il Santorale presenta alcuni particolari santi aretini, come lorentino e pergentino, affianco ai nove martiri

8 SToppaccI 2007. 9 BenVenuTI 2000. 10 cZorTeK 2007. 11 cZorTeK 1997a. 12 lucerTInI 1997.

13 GarrISon 1993; lIccIarDello 2007; TrISTano 2010; eaDem 2012. 14 BaroFFIo 2000 con immagine.

celebrati a città di castello il 1 giugno e a santi di tradizione tedesca, come massimino e Bonifacio, secondo una sequenza che si riscontra in parte anche in un codice del secolo successivo e attribuito dalla critica a città di castello, anche se non contiene i nomi dei santi patroni Florido e amanzio, il Messale Lateranense,

arch. later. a 6516, ma che sembra trarre esempio diretto, nel testo tràdito e nella musica, dal cosiddetto

Sacramentario del Pionta (ms. BaV, Vat. lat. 4772), scritto presso la canonica aretina all’inizio dell’XI secolo

su modello probabilmente di provenienza germanica17. È per questi motivi che lo stesso Giacomo Baroffio,

che ha studiato la tradizione delle parti musicate del frammento, ne pone l’origine in un’area della Toscana orientale al confine con l’umbria, «nell’area delle diocesi di arezzo-città di castello»18.

per la circolazione libraria nel XIII secolo in ambiente abbaziale, si posseggono testimonianze, se non più numerose, sicuramente più significative. È attribuito alla metà/terzo quarto del secolo l’unico manoscritto intero pervenutoci e sicuramente attribuibile all’uso della chiesa biturgense, l’odierno codice J. 187 conservato presso la Biblioteca comunale di Sansepolcro. Si tratta di un Graduale con ampio apparato

ornamentale aniconico (Figg. 101 e 102) che, proprio sulla base dell’analisi storico artistica, è stato messo in relazione stretta con i due corali duecenteschi, segnati B e c (rispettivamente un Antifonario Temporale e un 16 BaroFFIo 1999; SHIn Ho cHanG 2002.

17 lIccIarDello 2006; TrISTano 2012. 18 BaroFFIo 2000, p. 18.

Fig. 99 Framm. J. 61 a, Sansepolcro, Biblioteca comunale

Fig. 100 cass. I, busta7, Framm. 2 rec- to, Sansepolcro, Biblioteca comunale

Graduale in Festis), conservati presso l’archivio capitolare di arezzo19 e appartenenti al capitolo del

Duomo, che Giovanna lazzi attribuisce a unica mano di scuola aretina20 in ciò confortata dall’acuta analisi

di maria Grazia ciardi Dupré in apertura alla catalogazione elaborata da roberta passalacqua.

Se, come chiaramente giustifica la passalacqua basandosi sullo stile dei tre miniatori identificabili, il Corale A del duomo di arezzo, può essere spostato dalla seconda metà del XIII, come ritenuto dalla critica

precedente, agli anni 1250-60 e gli altri corali ad esso collegati seguono il primo da presso, perché «prodotto di una stessa scuola di calligrafi e miniatori […] che non ebbe forse l’eguale in Toscana per precocità, durata e possibilità evolutive», per citare l’espressione di ciardi Dupré, allora si può ragionevolmente ritenere che la data di produzione del Graduale di Sansepolcro possa essere inserita nel terzo quarto del secolo e ascritta

a quella “officina libraria” cittadina a cui si riferisce la passalacqua. In maniera convincente e suggestiva, per

19 paSSalacQua 1980. 20 laZZI 1992. Fig. 101 ms. J 187, f. 84v, Sansepolcro,

parte sua, ciardi Dupré attribuisce i manufatti proprio allo scriptorium vescovile, rivivificato, negli anni di

governo del vescovo Guglielmino degli ubertini, al pari della vita canonicale e delle istituzioni politiche della città. una città, arezzo, che proprio nella seconda metà del ‘200 raggiunge il suo apice con la fondazione dell’università, che porterà a sintesi e supererà la tradizione culturale fiorita presso la scuola vescovile nei secoli precedenti21.

anche la scrittura del Graduale di Sansepolcro, una gotica textualis di modulo ampio e tendente al quadrato,

poco chiaroscurata e con curve scarsamente spezzate, trova riscontro con le caratteristiche grafiche dei codici liturgici aretini, piuttosto che con quelle dal tratteggio più duro riscontrabili in un altro gruppo di codici d’apparato messi pure in relazione stretta con la scuola grafica e miniatoria di arezzo di fine Duecento,

21 WIeruSZoWSKI 1993; TrISTano 2006.

Fig. 102 ms. 187, f. 7r, Sansepolcro, Biblioteca comunale

Fig. 103 Framm. J.17, f. 1r, Sansepol- cro, Biblioteca comunale

gli Antifonari francescani di cortona (Biblioteca

comunale, mss. 4c-8G), in cui ciardi Dupré riscontra riferimenti stringenti grafici e ornamentali con l’Antifonario A della pieve di arezzo e con il cosiddetto Leggendario di Certomondo presso poppi in casentino,

oggi conservato alla Biblioteca nazionale centrale di Firenze con la segnatura Conv. Soppr. S. Croce C. V. 5.

Tali considerazioni portano ad avanzare l’ipotesi che l’abbazia biturgense, di grande forza politica e ecclesiale a metà del XIII secolo e con una tradizione culturale – e quindi grafica e ornamentale – orientata verso il polo aretino, proprio al bacino culturale e artigianale della città di arezzo si sia rivolta per la produzione di uno dei libri più importanti della celebrazione liturgica.

ma perché l’abbazia avrebbe sentito l’esigenza di dotarsi di un libro di tale magnificenza proprio nello scorcio del XIII secolo? Da tempo era forte il bisogno di ricostruire la chiesa abbaziale, quando nel 1301 l’abate Giovanni II, una volta abbandonati i poteri feudali che gli venivano dal rapporto di vassallaggio da sempre mantenuto dagli abati del monastero nei confronti dell’imperatore, decide di dedicarsi completamente all’edificazione della nuova struttura, servendosi delle migliori maestranze del territorio e soprattutto di quelle provenienti dall’area aretina, se la campana consacrata nel 1302 porta la scritta «menTem SancTam SponTaneam Honorem DeI eT paTrIae lIBeraTIonem Jacomo areTInuS me FecIT»22.

In questo caso, ovviamente, interessa l’origine dell’artigiano campanaio e probabilmente l’ubicazione della fonderia, in quanto sono conosciute officine per grandi bronzi sia in Toscana che in romagna23. peraltro

il motto, molto comune su campane prodotte in tutta europa dall’XI al XV-XVI secolo, è collegato alla figura di Sant’agata24 e deriva dall’orazione del sabato, ripresa

dalla Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine e che recita:

«Jesus mariae Filius, mundi salus, et Dominus sit mihi clemens et propitius, mentem sanctam, spontaneam, honorem Deo, et patriae liberationem: et nemo in eum

misit manum, quia nondum venerat hora ejus: qui est, qui erat, qui erit semper alpha e omega, Deus et homo, principium et finis, sit mihi ista invocatio aeterna protectio. amen».

Del resto, non pare strano ritenere che il “mercato” aretino del libro liturgico fornisse anche le chiese di territori di confine o limitrofi, se si pensa al ms. della Biblioteca apostolica Vaticana, BAV Chig. A VI 163,

un messale con calendario che riporta le festività aretine, scritto verosimilmente per la diocesi di città di castello, in quanto contiene la Vita di San crescenziano, protettore di quella chiesa, ma prodotto nel XII secolo presumibilmente ad arezzo in un ambiente monastico, forse il monastero delle SS. Flora e lucilla25.

Ben diversa è la valutazione che si può dare dell’unico altro manoscritto conservato a Sansepolcro, con la

22 SalmI 1942-44, pp. 14-16; rIccI 1942, p. 29. 23 DAL FUOCO ALL’ARIA 2007.

24 GoI 1998.

segnatura J. 17 della Biblioteca comunale. Si tratta di un codice composito che si configura nel suo insieme come una raccolta di Sermoni. la sezione più ampia è rappresentata dal testo dei Sermones quadragesimales

di Iacopo da Varazze (ff. 1r-140v) copiati da una mano della fine del XIII secolo (Fig. 103) in una gotica textualis minuta, disposta su due colonne e

sobriamente ornata in inchiostro rosso e nero nei capilettera: un codice d’uso, quindi, non certo un libro d’apparato.

alla prima parte sono state aggiunte almeno altre tre sezioni, contenenti Sermoni del Tempo e dei Santi, redatte nello stesso tempo della prima parte, ma probabilmente circolanti separatamente, fino a che, nel XIV secolo, si è provveduto ad assemblare tutto il materiale in un unico volume, per costituire una miscellanea organizzata, che è stata arricchita di altri sermoni in fine e corredata di indici, alfabetico e per argomento, in modo che costituisse un vero e proprio strumento per la preparazione di prediche.

la presenza dei Sermoni di Iacopo da Varazze, opera

scritta dal dotto domenicano nella seconda metà del XIII secolo, mostra quanto attenta fosse la chiesa biturgense alla produzione omiletica contemporanea, se solo una ventina di anni dopo la sua elaborazione, si ricava una copia del testo dei Sermones quadragesimales

ad uso di qualche istituzione religiosa.

In effetti, gli studi, ad oggi, non attestano la presenza dei Domenicani nel territorio cittadino in età così precoce, che conforti l’idea che l’ordine dei predicatori, appena formato e appena insediatosi volesse dotarsi dell’opera di un confratello tanto influente, senza tener conto anche del livello qualitativo del libro che si produceva, non solo come

mise en page del testo, ma anche dell’ornamentazione

e del materiale scrittorio utilizzato.

Infatti, proprio gran parte della sezione del manoscritto contenente i Sermones quadragesimales

è palinsesta, riscritta su un testo non identificabile vergato in minuscola carolina del XII secolo.

Questo fatto porta a pensare che il copista abbia utilizzato materiale scrittorio presente nel proprio ambiente di lavoro e che tale ambiente sia stato proprio l’abbazia benedettina, dove non dovevano mancare fogli già scritti con testi non più utilizzati e pronti a servire per la copia di libri più utili o “moderni”, una volta raschiata via la scrittura preesistente, piuttosto che supporre una sorta di cessione o di vendita di materiale pergamenaceo di riuso da un’istituzione religiosa all’altra, oppure addirittura ipotizzare, in un’epoca così precoce, la presenza di una bottega laica di pergamenaio al Borgo. Il fatto che, contestualmente, siano stati prodotti altri manoscritti, contenenti raccolte di Sermoni di più affermata tradizione, i cui “resti” saranno in seguito collegati al corpo più cospicuo, induce a prefigurare un utilizzo per le attività dell’abbazia, rivivificata dalla fondazione della nuova chiesa, iniziata agli albori del secolo e consacrata nel 1340.

altre testimonianze manoscritte databili al XIII secolo e posteriori sono purtroppo molto esigue e prive, ad oggi, di sia pur labili collegamenti con la chiesa abbaziale, a differenza dell’opinione espressa, ma non

Fig. 104 Framm. J. 77 recto, Sansepol- cro, Biblioteca comunale

provata, da chi ha elaborato il catalogo dei manoscritti medievali della Biblioteca comunale di Sansepolcro per il repertorio coDeX. Sono un esempio i due fogli, illeggibili per il loro stato di usura, pur datati al XIII secolo e tratti uno da un manoscritto del XVII secolo e di provenienza privata (J. 122) e l’altro da un volume del XVIII-XIX secolo proveniente dall’accademia Tiberina (J. 112).

più probabile appare l’attribuzione all’abbazia – e, a nostro avviso, proprio alla chiesa rinnovata – del frammento trecentesco di messale ornato con un capolettera in oro (Fig. 104), contenuto in un manoscritto del XVII secolo di provenienza privata (J. 77), oppure il coevo foglio di corale che ricopriva l’attuale ms. J. 138. Sul recto è segnato un numero apposto da una mano coeva all’originario codice, il che porta a pensare

che il frammento superstite sia il primo foglio di un volume che faceva parte di una serie di corali di grande impatto visivo, che costituiva il corredo liturgico della nuova maestosa chiesa dell’abbazia, intorno a cui si riuniva tutta la vita della comunità.

una comunità, quella di Sansepolcro, che per tutto il ‘400 fu ricca di commerci, culturalmente vivace e ancora guidata dall’abate, che curava al contempo la gestione delle anime e quella del territorio, con l’aiuto dei monaci che certo non erano digiuni di diritto canonico, se dobbiamo pensare che alla biblioteca del monastero appartenesse il manoscritto di contenuto giuridico del XV secolo, di cui è rimasto un piccolo lacerto (J. 39), usato per ricoprire un codice del XVI secolo, in un periodo, forse, in cui l’abbazia oramai era stata soppressa a favore della creazione della diocesi di Sansepolcro. papa leone X nel 1515 istituisce la Diocesi, ma solo nel 1521 l’abate Galeotto Graziani, nominato vescovo, prende possesso26 del titolo e dei

beni dell’abbazia non più esistente; la nuova entità ecclesiale assumerà come luogo simbolo la cattedrale, nuova e antica a un tempo, perché ingloberà in alcuni punti e manterrà in vita le strutture della precedente chiesa abbaziale27 e, chissà, fors’anche per qualche tempo i suoi libri.

26 aGnoleTTI 1976; cZorTeK 2010b. 27 SalmI 1942-44.