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Le tradizioni teoriche sui movimenti.

Le Iniziative di Transizione

2. Fra teoria e prassi: Le Iniziative di Transizione.

2.4. Transition Town, un movimento per il cibo locale?

2.4.1 Le tradizioni teoriche sui movimenti.

La sociologia, per spiegare il movimento sociale, si rifà a due differenti tradizioni teoriche95, spesso sottoposte a tentativi di dialogo fra loro da diversi studiosi. La prima, di estrazione struttural–funzionalista nell’America degli anni sessanta e settanta, coniuga le ricerche sul comportamento collettivo, e la corrente di studi centrata sull’analisi dei processi finalizzati alla mobilitazione di risorse per realizzare degli specifici obiettivi politici (RMT: Resource Mobilisation Theory) –Smelser (1964) e altri (Alexander 1996; McAdam, McCarthy e Zald 1998) –. Il secondo filone, di tradizione europea, si confronta con i modelli marxiani d’interpretazione del conflitto, definendo il movimento come portatore, o produttore, di un nuovo ordine sociale (Clark e Diani 1996; Scott 1990, 1992). Le due prospettive analitiche, dagli anni sessanta ad oggi, continuano ad offrire numerose interconnessioni; ciononostante in letteratura persiste questa differenziazione che nel dibattito contemporaneo ha prodotto sempre più nuove definizioni che seguitano a rimodellare le interpretazioni dei movimenti sociali.

Entriando più nello specifico di questa distinzione è possibile chiamare il primo approccio, che si riferisce ai teorici della mobilitazione delle risorse e del comportamento collettivo, processo politico e, culturale (o di orientamento identitario), quello che individua l’ideologia critica verso il modernismo e il progresso per realizzare un nuovo ordine sociale.

La prospettiva politica si concentra sul funzionamento degli attori collettivi, e sul modo in cui applicano criteri razionali e coscienti nella loro organizzazione; attraverso la Resource Mobilitation Theory (RMT) e l’analisi delle Social Movement Organizations (SMOs) si sottolinea

95 Donatella della Porta e Mario Diani (1997: 15) individuano quattro prospettive teoriche

per l’analisi dei movimenti collettivi: comportamento collettivo, mobilitazione delle risorse, processo politico e nuovi movimenti sociali. Specificando che non si tratta di correnti intellettuali omogenee, soprattutto se si tiene presente l’evoluzione intellettuale di ogni singolo studioso. In ragione delle nostre riflessioni, tendiamo ad una più stringente semplificazione, utile a definire i contorni analitici del nostro caso studio.

l’importanza dell’organizzazioni rappresentative dei movimenti sociali che riflettono sulla capacità di mobilitare risorse materiali e non a disposizione di un gruppo, poi distribuite rispetto agli obiettivi secondo un calcolo razionale delle risorse.

Contro questa caratterizzazione, che definisce i movimenti sociali come attori coscienti che applicano criteri di scelta razionale, «si sono indirizzati vari tipi di critiche. Si è criticata in primo luogo l’assenza di attenzione per la dimensione strutturale dei conflitti e per i contenuti specifici intorno a cui gli attori sociali si mobilitano» (Melucci, 1982, Piven, Cloward, 1992). Si è inoltre osservato come l’insistere sul ruolo delle risorse e sulle capacità di determinati imprenditori politici porti a trascurare le capacità di autorganizzazione dei gruppi sociali meno dotati di risorse (Piven, Cloward, 1992). Si è infine rilevato come questa prospettiva tenda a sottovalutare il peso delle emozioni e degli affetti nella spiegazione dell’azione collettiva (Marx Ferree, 1992; Taylor, Whittier, 1995) » (della Porta, Diani, 1997: 22). Melucci (1989), che può

essere collocato nella prospettiva culturale, sostiene che i movimenti sociali non rappresentano solo un bacino di persone pronte alla mobilitazione per eventi, manifestazioni e proteste politiche, ma piuttosto sono veri e propri laboratori culturali in cui si sviluppano nuovi stili di vita e forme di relazione sociale.

L’approccio culturale, pone l’attenzione sul fatto che i movimenti possono anche non essere un insieme di rapporti formalizzati attraverso gruppi ed organizzazioni; di fatto i soggetti che ne fanno parte riescono a interagire attraverso networks che si occupano di valori e stili di vita, delle categorie da includere nei processi di realizzazione delle politiche. Spesso il fine delle istanze di movimento è proprio quello di modificare ed estendere i confini del discorso politico (Mayer, 1995); il cambiamento si produce attraverso le innovazioni culturali atte alla ricostruzione delle identità e di un sistema di credenze condivise per una specifica solidarietà. Secondo Scott (1990), gli attori di movimento dimostrano sempre un sospetto nei confronti delle organizzazione gerarchizzate, che sono tipiche delle strutture rappresentative democratiche (per esempio i partiti politici).

Molti studiosi hanno tentato di far dialogare questi due orientamenti – che Cohen (1996) chiama instrumentally rational e identity –, alcuni hanno utilizzando le due categorie per un’analisi diacronica dei movimenti. Vale a dire, l’instrumentally rational descriverebbe i vecchi movimenti della modernità pre –riflessiva, mentre l’identity –oriented le istanze culturali dei nuovi movimenti. Nell’America degli anni settanta l’interesse analitico per i movimenti è maturato per comprendere l’azione collettiva in generale, per identificarne le caratteristiche in termini che trascendevano le particolari condizioni storiche o culturali. I teorici europei invece, sotto l’influenza marxiana, hanno suddiviso i tipi di movimento in relazione a specifiche fasi della società, per cui le azioni collettive della società fordista sono significativamente differenti da quelle post fordiste (Touraine, 1995). Secondo Plotke (1990) e Scott (1990), i movimenti contemporanei sono sempre meno organizzati, ed essendo sempre meno coinvolti nella ricerca di “emancipazione”, ridefiniscono nuovi obiettivi politici (Giddens, 1991), elaborano valori culturali alternativi (Goldbatt, 1996) e hanno una particolare attenzione nei confronti delle identità sociali più marginali. Un secondo tentativo di riconciliazione tra i due approcci viene chiamato stage o lifecycle model (Cohen 1996:199) e lo ritroviamo in autori intellettualmente lontani fra loro come Przeworski (1985), McAdam et al (1988) e Jamison (1996), i quali sostengono che questa differenziazione, tra approccio politico e culturale, non si riferisce a prospettive teoriche sui movimenti, né a movimenti che si sono affacciati in diverse fasi storiche, ma piuttosto si tratta di stadi di sviluppo che attraversano ogni singolo movimento nella sua evoluzione. In pratica, secondo questo modello, ogni movimento si evolve a partire dalle azioni spontanee e disarticolate, le forme di protesta di massa poi si trasformano in azioni politiche formalizzate attraverso la creazione di gruppi o di partiti. Di conseguenza un movimento è nuovo se ci appare nella forma di rete a maglie larghe, privo di un leader e dei propri seguaci, da questa fase precoce del proprio sviluppo se ne realizzerà un’altra in cui l’azione sarà più strumentale e

strategica: «The logic of collective action at this stage is structured by the politics of political inclusion», i movimenti sono poi sottoposti ad un «learning process involving goal-rational adaptation to political structures» (Cohen 1996: 200).

Un punto di debolezza del modello stage sta nella sua concezione lineare; si dovrebbe piuttosto riconoscere che molti, quasi tutti, i movimenti contemporanei hanno avuto una doppia logica organizzativa fin dal principio della loro creazione. È vero che la razionalizzazione dell’azione, l’organizzazione e istituzionalizzazione è particolarmente marcata in una fase più matura della militanza, ma non si può escludere che possano co – esistere contemporaneamente tendenze che vanno verso il decentramento e la democratizzazione, la proliferazione di reti culturali e stili di vita alternativi, attività orientate alla costruzione di identità collettive e nuove conoscenze. Cohen (1996) afferma che i movimenti sociali contemporanei hanno un doppio compito politico: devono influenzare le politiche sulla scena istituzionale, e parallelamente costruire un’identità nel lifecycle, nella sfera della società civile. Cohen sottolinea come secondo l’approccio culturale:

Contemporary collective actors consciously struggle over the power to construct new identities, to create democratic spaces within both civil society and the polity for autonomous social action, and to reinterpret norms and reshape institutions. It is incumbent on the theorist to view civil society as the target as well as the terrain of collective action. (Cohen 1996:181)

È importante sottolineare come la presenza di due analisi differenti sul movimento suggerisce che ci siano attività e obiettivi divergenti all'interno dei movimenti stessi. Nella vita del movimento, e quindi di ogni singolo militante, si realizza una forte dicotomia che trova spazio nelle riflessioni teoriche, ma che soprattutto viene vissuta dalle persone che devono continuamente mediare su questo doppio compito politico. Tale schizofrenia spesso crea derive che lacerano anche i sistemi di aggregazione, tra coloro che concentrano le proprie azioni sugli obiettivi prettamente razional-politici e chi invece vuole acquisire strumenti alieni al dialogo istituzionale per migliorare la propria quotidianità.