• Non ci sono risultati.

LA PROSPETTIVA DI RICERCA

5. Sul campo: dalla teoria alla pratica etnografica

5.4 Accesso al campo

“Una confessione metodologica è utile a conferire una sorta di credibilità etnografica; in questo caso l’autocritica, oltre a denunciare i punti deboli e ad invitare il lettore alla cautela, dimostra anche il respiro, la profondità e l’implacabile ricerca della verità di un’analisi etnografica così incisiva da applicare le proprie armi critiche più devastanti proprio a se stessa” [Kunda 2004]. Il 24 gennaio del 2011 iniziava la mia ricerca sul campo. Ancora oggi ricordo quel giorno per il misto di curiosità, paura e spaesamento provato. Avevo, infatti, concordato l’accesso al Centro di formazione per l’età adulta solo qualche settimana prima, senza sapere bene cosa vi avrei trovato e quale tipo di comportamento avrei dovuto adottare. Sarebbe stata la mia prima presentazione, la mia prima osservazione e soprattutto sarebbero stati i miei primi ragazzi. Avrei saputo farmi accettare? Avrei saputo conquistare la loro fiducia? Avrei trovato quello che cercavo? Avrei avuto modo di superare la barriera della diffidenza, non solo loro ma anche mia, per instaurare un rapporto confidenziale? Ma soprattutto, ero nel posto giusto o stavo iniziando dal punto sbagliato? Come sosteneva Rosalie Wax [1971], mi sentivo in un “limbo sociale”, in uno spazio di cui non conoscevo nulla e in cui le regole e le teorie sarebbero risultate vane: sulla carta sapevo esattamente cosa avrei dovuto fare, cosa avrei dovuto evitare, che tipo di comportamento avrei dovuto adottare, ma la pratica era cosa diversa. Dovevo buttarmi nella mischia: dopo mesi passati ad accumulare, dati, appunti, testimonianze, era arrivato il momento di “sporcarsi il fondo dei pantaloni in mezzo alla ricerca vera”[Park in Gubert e Tomasi 1995].

5.4.1 Presentare se stessi: assunzione del ruolo e impression management

Durante lo stadio di negoziazione, avevo accuratamente tenuto nascosto il vero fine della ricerca: nei primi colloqui con i testimoni qualificati delle istituzioni locali, avevo notato un atteggiamento dubbioso nei miei confronti quando parlavo di analizzare la presenza di meccanismi sociali di inclusione ed esclusione nei processi di integrazione, sebbene accompagnato da un forte interesse per le finalità del progetto. Il mio rifeirmento all’interesse per gli stili di vita dei giovani stranieri, alla luce di tutti i fattori intervenienti nella definizione di traiettorie di inclusione, destava non poche perplessità, poiché era spesso inteso come un desiderio di critica alle organizzazioni scolastiche stesse e alla società modenese più in generale. Avevo così deciso di evitare di esplicitare il fine conoscitivo ultimo ai dirigenti scolastici, supponendo che avrei potuto essere fraintesa nei miei intenti di ricerca. In realtà, se questa omissione mi metteva in crisi da un punto di vista etico, mi rendevo conto che ciò avrebbe facilitato la mia presentazione alla classe, spostando l’attenzione dalle finalità dell’intervento.

Il ruolo che avevo scelto di assumere era, pertanto, quello di una giovane ricercatrice interessata per la propria tesi dottorale ad occuparsi della situazione dei giovani a Modena, scegliendo di passare del tempo con loro all’interno del contesto scolastico, in vista delle interviste che li avrebbero coinvolti direttamente. Così facendo, non solo evitavo di far riferimento alle tematiche di ricerca, che sarebbero risultate tra l’altro molte complicate da spiegare a dei ragazzi così giovani, ma schivavo ogni possibile riferimento

alla necessaria condizione di straniero, che avrebbe potuto insospettirli o metterli sulla difensiva. In un solo caso un ragazzo aveva fatto presente che le mie scelte erano “troppo indirizzate” verso i figli di immigrati:

“Oggi M. mi ha messo in difficoltà. Mentre chiamavo i ragazzi per l’intervista ha chiesto se poteva fare una domanda e quando gli ho detto di si mi ha chiesto direttamente: “Ma perchè sempre gli stranieri?”. Ho risposto che non era vero perché avevo portato fuori anche una ragazzina modenese. In realtà la ragazzina era una sostituta per una ragazza marocchina assente. M. non è sembrato convinto” (ottobre 2011, diario di campo, osservazione scuole).

Sin dalla prima presentazione ai “nativi”, mi accorgevo però che buona parte delle paure sulla mia accettazione erano assolutamente infondate: come sostenuto da Hammersley e Atkinson, i ragazzi erano più interessati a me come nuovo elemento nella classe, piuttosto che al mio ruolo di ricercatore, che tra l’altro faticavano spesso anche a comprendere: “sia che le persone siano a conoscenza della ricerca oppure no, sono più interessate alla persona del ricercatore che alla ricerca. Cercheranno di stimare fino a che punto ci si possa fidare di lui o di lei, che cosa abbia da offrire come conoscente o amico o amica, e forse anche quanto facilmente possa essere manipolato o manipolata, sfruttato o sfruttata” [Hammersley e Atkinson 1998].

Come ribadito da Ronzon infatti “il lavoro sul campo inizia con un singolare rito di inversione di status: l’osservatore diventa l’oggetto di osservazione dei nativi che, dai pochi indizi offerti dai primi incontri, cercano di capire se, e in che misura, possono fidarsi di lui” [2008]:

“Mentre mi presentavo alla classe un ragazzo, che ho scoperto dopo chiamarsi A., mi ha chiesto quanti anni avessi e se vivessi a Modena. Una ragazza (dopo che avevo detto loro che potevano farmi qualsiasi domanda ritenessero opportuna ma solo dopo la fine della lezione o la pausa) ha esordito chiedendomi se fossi sposata. Non sono interessati a me come studiosa, per loro sono una novità interessante… ho la sensazione che non riconoscano in me nessuna autorità, mi vedono come una di loro” (ottobre 2011, diario di campo).

Dopo i primi momenti di imbarazzo (più miei che loro in verità) e dopo essermi accomodata in uno dei banchi vuoti dell’aula, le lezioni riprendevano il loro corso naturalmente, salvo nei momenti in cui provvedevo alla stesura delle note di campo. La stesura delle note sul taccuino è stata parte integrante dell’osservazione partecipante ed ha implicato una trascrizione sistematica e fedele del materiale osservativo, con l’obiettivo di rimandare quella che Geertz [1973] definisce come una “descrizione densa”, arricchita di significati, interpretazioni, descrizioni dei fatti, riflessioni teoriche, resoconti, materiale dei nativi e del ricercatore [Poti 2007]. “Le note etnografiche rappresentano la prima formalizzazione dell’incontro tra due culture, quella studiante e quella studiata: di ciò il ricercatore deve essere consapevole, e questa consapevolezza deve orientare il suo stesso modo di stendere le note e di organizzare il materiale osservato” [Corbetta 1999]. Ogni giorno cercavo così di appuntare e annotare qualsiasi aspetto emergente dall’osservazione, non tralasciando però l’impatto emotivo di alcune situazioni sulla mia persona. In tal modo provavo a rispettare i canoni di stesura delle note di campo, prevedenti note di tipo osservativo, metodologico, teorico [Schatzman e Strauss 1973] ed emotivo: nel diario di ricerca, le prime erano chiose dei dialoghi e dei contesti di osservazione che mi avrebbero supportato nella ricostruzione del setting, le seconde erano dei sorta di feedback, necessari per fissare nella memoria alcune situazioni particolari, che richiedevano una comprensione ulteriore dei fenomeni; le terze costituivano invece un tentativo di sviluppare riflessioni interpretative che trovavano riscontro nella teoria sociale per cercare un ancoraggio esplicativo ed infine le ultime

assurgevano ad una duplice funzione, descrittiva e al contempo catartica, permettendomi di sfogare almeno sulla carta stati d’animo conseguenti all’interazione71.

Il prendere note e appunti costituiva però, oltre che un pregio grandissimo del tipo di ricerca adottato, anche un fortissimo limite. Il presupposto dell’invisibilità dell’etnografo, per cui l’etnografo è sul campo ma è come se non ci fosse [Matera 1996], era valido nel momento in cui rimanevo estranea ad ogni forma di azione e di rendicontazione.Come sostiene Duranti [1992], infatti, secondo il paradosso dell’osservazione partecipante, quanto più l’etnografo si cala nella realtà sociale che vuole studiare, tanto più i comportamenti osservati gli sembreranno naturali, ma è anche vero che una totale immersione nel mondo che si intende studiare è professionalmente e praticamente impossibile, laddove proprio l’arte del prendere appunti, annotare, farsi domande, registrare, tradurre e interpretare impedisce di entrarne a far parte totalmente, garantendoci un’estraneità ed un distacco di fondo che innalzano una barriera invisibile con i soggetti osservati, spesso confusi dall’attività di rilevazione sul campo. Se da un lato iniziavo ad afferrare i meccanismi interni alla classe, a riconoscere i ragazzi sulla base di caratteristiche fisiche e comportamentali, a individuare la leadership e i casi problematici, dall’altra l’attività del prendere appunti spezzava questo circolo magico, irretendo i ragazzi che in più di un’occasione ponevano domande sul cosa e perché scrivessi, costringendomi a creare alibi e inventare scuse plausibili o peggio ad abbandonare la scena:

“Oggi, A. mi ha chiesto cosa scrivevo sul quaderno. Me lo ha chiesto nella pausa caffè, avvicinandosi al mio banchetto e cercando di sbirciare. Subito è arrivato anche R. che ha fatto la stessa domanda. Ho chiuso istintivamente il quaderno… credo sia stato un grosso errore… era come dargli la conferma che stessi scrivendo su di loro. Al rientro dalla pausa ho iniziato a scrivere cose a caso, come la lista della spesa o degli impegni settimanali… quando alla fine dell’ora A. si è riavvicinato ho lasciato il quaderno aperto cosicché potesse vedere che non scrivevo di loro… non credo di averlo convinto ma da quel momento ha smesso di farmi domande a riguardo” (gennaio 2011, diario di campo, osservazione scuole).

“S. mi ha chiesto perché scrivo sempre mentre loro fanno lezione. Le ho risposto che scrivo cose che devo organizzare. E allora lei mi ha risposto: “Si ma scrivi anche quello che facciamo noi, perché quando parliamo tu ci guardi e poi ti metti a scrivere. Ma scrivi tutto quello che diciamo?”. Devo imparare a rispondere in maniera più veloce alle loro domande sul tipo di ricerca o rischio di insospettirli (ottobre 2011, diario di campo, osservazione scuole).

71 Un esempio della strutturazione delle note all’interno del taccuino etnografico chiarirà le differenze espresse:

a) “classe prima, 22 presenti, 3 assenti. La distribuzione dei ragazzi è identica a quella di ieri. Al mio arrivo, M., S. e R. sono in fondo all’aula e parlano tra loro incuranti dell’ingresso della Prof.ssa. Intanto G. e K. Ascoltano musica con gli auricolari e le gambe sul tavolo” (esempio di nota osservativa, diario di campo 12 gennaio 2011);

b) “oggi ho scoperto l’esistenza di un muro divisorio tra le classi del liceo (che usufruiscono di alcune aule per mancanza di spazio nel loro istituto) e le restanti classi del professionale. Devo indagare sulla questione per capire se è stato creato per isolare i ragazzi per motivi puramente legati alla sicurezza (eventuali problemi assicurativi in caso di incidente, per cui sarebbe difficile poi attribuire la responsabilità legale ad esempio) o per evitare contatti tra due mondi alquanto distanti tra loro” (esempio di nota metodologica, diario di campo 9 novembre 2011);

c) “provare a cogliere la correlazione esistente tra pratica religiosa e consumo di alcol: dalle prime osservazioni emerge un consumo maggiore laddove il sentimento religioso è meno radicato. Differenze tra maschi e femmine in relazione all’aspetto di secolarizzazione” (esempio di nota teorica, diario di campo 22 settembre 2011);

d) “non so come comportarmi, le ragazze sono visibilmente irritate dalla mia presenza. Durante la presentazione alla classe hanno riso tutto il tempo, scambiandosi battutine tra loro. So che sono un’adulta e che dovrei capire certi comportamenti infantili ma non posso fare a meno di essere infastidita da loro” (esempio di nota emotiva, diario di campo 29 settembre 2011).

“Stazione delle corriere. Sono seduta in un semicerchio di pietra a forma di panca, alle spalle delle banchine per la salita dei passeggeri dei mezzi pubblici. Di fronte a me ci sono un gruppo di ragazzine di colore (forse ghanesi?) che chiacchierano ad alta voce…alla mia sinistra ci sono invece 4 ragazzi: due sono sicuramente provenienti dal Maghreb (mi baso sulla lingua parlata e sull’aspetto fisico), altri due sembrano dell’Europa dell’Est. Continuano a muoversi in maniera sospetta, credo stiano cercando di farsi su uno spinello ma uno dei due europei ha notato la mia figura. Ovviamente ho con me un blocco su cui appunto quello che vedo ma i ragazzi ci hanno fatto caso. È arrivato un altro ragazzo, credo marocchino, e sembra abbiano sospeso tutto. Continuano a girarsi verso di me e a parlare tra di loro. È ora di levare le tende, ho buttato via una preziosa osservazione. La prossima volta dovrò posizionarmi vicino le banchine di sosta degli autobus, ma so che così non riuscirei a capire nulla dei loro discorsi. Trovare alternativa per posizione di osservazione!” (maggio 2011, diario di campo, osservazione contesti informali).

Soprattutto durante i primi tempi, prestavo molta attenzione a quello che Goffman aveva definito come impression management [1969], ossia a quell’insieme di pratiche di presentazione del self agli altri attraverso cui si cerca di controllare l’immagine di rimando che questi hanno di noi. La gestione dell’impressione diventa così un aspetto centrale delle complesse relazioni interpersonali e determina in larga parte le possibilità di essere accettati e giudicati positivamente dagli attori sociali. Nei primi tempi avevo così cercato di stabilire una serie di tattiche di gestione della complessità situazionale: Corsaro [1993], che ha condotto ricerche in scuole materne per studiare la cultura dei pari in età prescolare, aveva stilato una lista di strategie per farsi accettare e per assumere il ruolo che secondo lui avrebbe permesso ai bambini di accettarlo come amico. Allo stesso modo, cercavo di pormi dei confini comportamentali che mi permettessero di definire il mio ruolo all’interno delle dinamiche di classe in maniera chiara ed inequivocabile72.

Volevo apparire come una ricercatrice seria da un lato, ma ambivo a conquistare la fiducia e la simpatia dei ragazzi nel più breve tempo possibile. Mi impegnavo così costantemente, per cercare di trasmettere un’immagine di autorevolezza mista a cordialità affabile, da non rendermi conto di avere già tra le mani un vantaggio indiscutibile: l’età.

Più volte, durante l’intero corso della ricerca, ho faticato a far credere ai ragazzi di essere molto più grande di loro. La scelta di un abbigliamento casual- sportivo, l’avere sempre con me uno zaino identico a quello della maggior parte di loro, l’assumere posture del corpo poco formali completavano il quadro. Per loro non ero un’adulta, ma una di loro. Incominciavo a capire che avrei dovuto prestare attenzione anche a questi aspetti e sfruttare l’apertura dei ragazzi derivante dalla mia facciata esteriore. L’essere giovane si era rivelato un vantaggio indiscutibile nel mio avvicinamento ai ragazzi, un vantaggio capace di annullare in buona parte gli impliciti negativi derivanti dall’essere un adulto con un ruolo definito all’interno di un’istituzione formale come la scuola, ma anche dei contesti aggregativi informali:

“Durante l’ora di hip-hop ho chiacchierato molto con i ragazzi nigeriani che si allenavano lì. Abbiamo discusso della loro passione per il ballo e hanno volto insegnarmi dei passi di break dance. Dopo un po’ ho preferito allontanarmi per dedicarmi anche ad un altro gruppetto arrivato da poco, adducendo la scusa di essere troppo vecchia per attività così giovanili. I ragazzi ne hanno approfittato subito per chiedermi che età avessi e quando ho risposto sono rimasti sconvolti… credevano avessi la loro età o al massimo diciotto anni.. dopo questa dichiarazione hanno incominciato a parlarmi come se fossi una loro conoscente e alla fine sono rimasta con loro per quasi n’oretta, a sentirmi raccontare dei loro amici e dei loro interessi. Forse ho sottovalutato

72 Le mie strategie, quando possibile, sono state: trasmettere tramite il linguaggio para verbale vicinanza ai ragazzi (sorrisi, occhiolini in momenti in cui venivano ripresi dagli insegnanti ad esempio); utilizzare modi per far capire ai ragazzi che sostenevo loro e non i professori; rispondere alle loro domande in maniera pacata e autorevole al contempo, evitando di mostrarmi troppo una loro pari; mostrare apertura e interesse, oltre che una conoscenza diretta, dei comportamenti giovanili come uso di alcol o droga; non esplicitare mai realmente il lavoro e le finalità della ricerca; coprire i ragazzi con i professori per evitare problemi; sfruttare l’autorità dei professori in maniera indiretta per ottenere dai ragazzi un comportamento più tranquillo e distaccato; evitare comunque incontri extra-scolastici con i ragazzi, ma comportandosi normalmente e amichevolmente nel caso si fossero verificati.

questo vantaggio dell’età, che potrebbe rivelarsi prezioso da ora in avanti” (gennaio 2011, diario di campo).

“Dopo la lezione di italiano, n paio di ragazze si sono avvicinate per chiedermi altre informazioni sulla ricerca e sul perché fossi lì. Mi hanno chiesto quanti anni avessi e quando ho risposto 27 anni hanno subito cambiato espressione. Erano contente e divertite, perché si aspettavano fossi molto più giovane e nonostante la differenza tra la loro idea e la realtà, sono state comunque molto carine e gentili con me” (settembre 2011, diario di campo).

Più tempo passavo sul campo, più le mie capacità empatiche e relazionali miglioravano. Dopo pochi giorni nella prima scuola, ero ormai così accettata da poter passare le pause caffè/sigarette con i ragazzi e da poter essere chiamata in causa nei confronti con gli insegnanti come supporto. Anche nelle altre scuole non avevo problemi a stabilire contatti fuori dal momento didattico, laddove gli stessi ragazzi, di solito quelli più vivaci e spigliati, approfittavano dei momenti liberi per cercare di conoscermi, offrendomi involontariamente spunti di riflessione su alcune tematiche che credevo avrei avuto difficoltà ad affrontare:

“Ho fatto pausa con A. (ragazzo turco), M. ( ragazzo marocchino), F. ( ragazzo rom) e R. ( ragazza rumena)! Me lo hanno proposto loro chiedendomi se fumassi anche io. Una volta fuori, mi hanno fatto delle domande sulla mia vita e io ne ho approfittato per capire qualcosa della loro situazione familiare. Nessuno si è tirato indietro, parlavano liberamente dei loro genitori e dei loro compagni, quasi come se mi conoscessero ormai da tempo. ” (25 gennaio 2011, diario di campo).

“F. è un ragazzino napoletano molto vivace… non sta mai zitto in classe e credo rappresenti un serio elemento di disturbo visto anche il modo in cui si rivolgono a lui gli insegnanti… sembrano stanchi di riprenderlo in continuazione e passano dalla rabbia a alla rassegnazione quando si trovano davanti a lui… Oggi alla fine della lezione mi ha chiesto se andavo a fumare con loro. Ho accettato subito, perché so ormai che è uno dei veri momenti per provare a conoscerli… non so come ma nel giro di pochi minuti ci siamo ritrovati a parlare di canne, marijuana e sbronze… non credevo che in così poco tempo si sarebbero così fidati da lasciarsi andare su questi argomenti” (24 marzo 2011, diario di campo).

La fase delle interviste diventava così il completamento legittimo e naturale di un percorso di conoscenza e di permanenza sul campo. Raramente i ragazzi opponevano resistenza di fronte alla possibilità di essere intervistati: una ragazzina marocchina non aveva voluto seguirmi nella stanza messami a disposizione adducendo la scusa di un malore, che in realtà avrei scoperto dopo non esistere; un ragazzino pakistano si era rifiutato sostenendo di non riuscire ad esprimersi, sebbene lo avessi sentito per giorni parlare in italiano abbastanza correttamente; un giovane albanese aveva rinunciato alla possibilità di passare due ore fuori dalla classe durante una lezione molto impegnativa solo perché aveva saputo da altri ragazzi che durante l’intervista usavo un registratore.

Il livello di reattività per la mia presenza, in senso negativo, è stato quindi bassissimo. Non avendo nessuna mansione specifica, avevo tutto il tempo di svolgere il mio lavoro senza distrazioni, concentrandomi sulle relazioni instaurate all’interno della classe, sui rapporti con il corpo docente e su ogni discorso affrontato in classe.

I ragazzi si adattavano facilmente alla mia figura, che pure vedevano al massimo due ore al giorno. Nelle prime esperienze di campo, avevo notato che passare un’intera giornata nella stessa classe era deleterio: la mia attenzione calava moltissimo, offuscata dalle lezioni interminabili di meccanica, biologia, storia e disegno ed inoltre correvo il rischio di vedere la stessa classe anche tre giorni per far combaciare gli orari con le esigenze didattiche di tutti. Ho così pensato di concentrare le osservazioni nelle classi, facendole ruotare a turno nei giorni da lunedì a venerdì e “soggiornandovi” per un massimo di due ore giornaliere. In questo modo, riuscivo ad avere sotto controllo tutte e quattro le classi scelte contemporaneamente, monitorando i vari conflitti e le varie