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L’inserimento e il successo scolastico

STORIE E VOCI DELL’INTEGRAZIONE: UNA LETTURA MULTIDIMENSIONALE DELLE PRATICHE DEI GIOVAN

7. Scuola: motivazioni, influenze e questioni cruciali dell’inserimento delle seconde generazion

7.1 L’inserimento e il successo scolastico

Per comprendere quanto la scuola riesca a generare chances per chi la frequenta, diventa necessario analizzare quali elementi sottendano all’indirizzamento scolastico e quanto essi contribuiscano significativamente nella determinazione dei percorsi individuali, sia positivamente che negativamente.

Tra i fattori capaci di influenzare il successo scolastico, uno degli aspetti centrali per le generazioni straniere è dato dalla motivazione allo studio, che come tale è il risultato della combinazione di interessi personali, influenze familiari e interventi esterni: essa spiega, in termini volontaristici, coatti o casuali, il perché dell’indirizzamento scolastico e le ragioni sottese alla propensione per taluni percorsi, che nel caso dei ragazzi e delle ragazze straniere risultano quasi sempre orientati più alla professionalizzazione che alla licealizzazione [Portes e Rumbaut 2001; Ambrosini 2005; Tieghi e Ognisanti 2009; Pattaro 2010].

La motivazione spiega il perché del ricorso a determinati indirizzo di studio in funzione dell’agency84, tenendo quindi conto non solo della possibilità di scelta autonoma, ma anche

delle influenze scolastiche e familiari, sia nelle vesti di attori singoli che di apparati aggregati. Queste due agenzie di socializzazione producono condizionamenti che si manifestano nelle traiettorie scolastiche dei giovani stranieri, dando luogo a situazioni vantaggiose o al contrario discriminanti. L’atteggiamento degli insegnanti, la costruzione delle procedure di merito, la canalizzazione precoce, così come il capitale culturale familiare, il rapporto con la comunità di origine, lo stile educativo genitoriale non sono

84 Il concetto di agency è uno dei temi più spinosi e dibattuti nell’ambito delle scienze sociali, tanto da renderlo onnipresente nelle trattazioni sociologiche antropologiche. In questa sede, il senso di agency adottato è quello che rinvia alla capacità e alla facoltà umana al tempo stesso universale e socio-culturalmente mediata di agire (Ahearn 2001).

solo delle variabili di contesto, ma delle strutture di senso che indirizzano il cammino dei ragazzi stranieri, segnando a priori il loro destino.

Quello che cercherò di evidenziare in queste pagine è il modo in cui le scelte scolastiche si esplicano come frutto delle relazioni tra gli agenti sociali e che, in quanto tali, esse riproducano meccanismi discriminatori nei confronti dei giovani stranieri, e di alcuni meridionali, laddove sono la centralità della motivazione coercitiva, la doppia valenza della logica strumentale e l’esiguità della scelta emotiva le costanti scolastiche nelle seconde generazioni modenesi osservate.

7.1.1 La scelta scolastica

Utilizzando una ripartizione mutuata da autori italiani impegnati ad analizzare le strategie della generazione ponte [Besozzi, Colombo e Santagati 2009] nei percorsi di inclusione formativa, dall’analisi dei racconti dei soggetti intervistati emerge una varietà motivazionale sottesa alle scelte scolastiche, che mostra in alcuni casi delle specificità etniche interessanti.

Quando la scelta è spiegata come attitudine personale, interesse emotivo, inclinazione o predisposizione, parliamo di motivazione espressiva. In questa modalità vengono comprese scelte fatte in risposta a tendenze o passioni proprie, scelte dettate dalla volontà di progredire nella scala sociale, valutando positivamente l’importanza della scuola come agenzia di formazione o come strumento imprescindibile per l’accesso alla carriera universitaria. Si tratta di motivazioni rare, solitamente fornite da ragazze di origine turca e marocchina nate in Italia ed inserite in scuole professionali, mentre tra i ragazzi emergono in coloro che si trovano in classi sfasate rispetto alla loro età, classi in cui probabilmente l’essere più grande rispetto agli altri compagni aiuta a considerare la scuola non solo come un obbligo, ma come una possibilità, come una chance di vita positiva, e tra coloro che hanno vissuto la loro socializzazione completamente, o quasi, in Italia.

“Ho scelto da sola, mi piaceva questa scuola, l’avevo trovata nel libricino che ci avevano mandato alle medie…ne ho parlato con i miei e loro hanno detto va bene…dopo voglio lavorare, qualsiasi cosa che riguarda la moda…io mi sono già rotta di studiare ma se trovo lavoro bene, sennò vedo di studiare ancora ma non lo so…” (F., ragazza di 18 anni, genitori marocchini, da 10 anni in Italia). “Ho deciso di venire in questa scuola perché mi è sempre piaciuto moda, i vestiti, spero di riuscire a lavorare in questo settore, i miei sono contenti… i miei, mia mamma vorrebbe che io faccio

l’università però non lo so, se trovo lavoro vado a lavorare subito” (J., ragazzo di 18 anni, genitori ghanesi, nato in Italia).

Per il futuro mi serve la scuola, per l’educazione e per imparare cose che mi serviranno per il lavoro, per avere degli obiettivi non solo sul lavoro… (S., ragazzo di 19 anni, genitori moldavi, da 2 anni in Italia).

“Vengo a scuola per studiare, per imparare le cose che non so, per prendere diploma di terza media perché altrimenti non posso prendere diploma di Città dei ragazzi… se non vai a scuola non puoi mandare una mail, scuola serve per ogni cosa che non sai fare… tante cose. La scuola ti fa conoscere gente che non conosci, ti fa incontrare gente di tutto il mondo, marocchino di tuo paese, albanese, turco, mi piace incontrare le persone che non so come vivono, impari alcune cose che a tuo paese non c’è… anche io ho dato alcune cose ad un altro che non sa a suo paese…” (M., ragazzo di 19 anni, genitori marocchini, da 2 anni in Italia).

“Io voglio fare l’università, in ambito economico. Io ho scelto questa scuola perché uno sono bravo nelle lingue e poi perché da grande voglio fare qualcosa in ambito economico. Mi piace sta scuola” (C., ragazzo di 16 anni, genitori cinesi, nato in Italia).

“Ho scelto questa scuola e perché mi piace il disegno, penso di riuscire a fare anche l’università..ancora non so niente però potrebbe essere l’ambito della moda” (M., ragazza di 20 anni, genitori turchi, nata in Italia).

“Ho scelto il tecnico perché vado bene nelle materie che ci sono e vorrei fare la ragioniera e l’università quando finisco” (G., ragazza di 14 anni, genitori marocchini, nata in Italia).

Specie tra i ragazzi provenienti dall’Est Europa, dalle Filippine e dalla Cina appare diffuso un atteggiamento positivo nei confronti della scuola, dove l’autorità degli insegnanti non viene messa in discussione e dove appare riconosciuta la valenza propedeutica del sistema formativo per aspirare a posizioni lavorative ed economiche da

middle-class.

“La scuola ti dà delle cose che dopo uno sceglie come usare. Io forse andrò all’università, forse trovo subito un lavoro non lo so… però la scuola la faccio bene, mi impegno, perché senza scuola non sei nessuno, non puoi diventare niente” (A., ragazzo di 17 anni, genitori rumeni, da 6 anni in Italia).

“Per me la scuola è importantissima, perché solo gli stupidi pensano che vieni a scuola per divertirti, fare casino. A scuola ci sono delle persone che ti insegnano, certe cose sono difficili, dici “ma non mi servono a niente”, ma non è vero, perché se uno ti spiega delle cose, è più grande di te, allora lui sa quello che dice. Io non so se faccio un lavoro come questo aziendale, fare le fatture… se sono bravo posso fare anche l’università, fare l’ingegnere… se non studio non posso fare niente” (J., ragazzo di 16 anni, genitori cinesi, da 12 anni in Italia).

“Scuola è un passaggio da età giovane a un’età più grande per prepararci al mondo… la scuola ti fa capire delle cose, non solo studiare… mi piace la scuola, senza scuola non puoi andare avanti, migliorare” (S., ragazzo di 16 anni, genitori filippini, da 5 anni in Italia).

“Da grande vorrei fare biomeccanica, vorrei andare all’università ma non ho ancora pensato bene… anche se vengo in questa scuola (professionale) io voglio andare avanti, studiare o trovare un bel lavoro, non voglio fare il meccanico… sono venuto qua perché così imparo quello che mi serve sulla meccanica e poi vado avanti” (M., ragazzo di 17 anni, genitori filippini, nato in Italia).

A ben vedere, sono motivazioni espressive, che rivelano un interesse positivo per la scuola e per gli obiettivi che essa propone, ma che al contempo lasciano trasparire la volontà di usare la scuola come espediente di miglioramento o come trampolino per orizzonti professionali più allettanti. Hanno quindi una valenza strumentale, in quanto interpretano la scuola come una tappa di un percorso obbligato per avere successo nella vita, un’idea che quasi tutti i giovani intervistati sembrano avere senza però essere capaci di trasformarla in impegno concreto.

L’università viene chiamata in causa, ma assume tratti sfumati, quasi come fosse un modo per spostare in avanti la vera scelta professionale per se stessi. Quando chiedevo ai ragazzi se avrebbero o meno fatto l’università, o se non altro pensato di iscriversi in via teorica, avevo ottenuto una risposta costante: una sonora risata collettiva, uno sfogo di gruppo su un argomento a tratti tabù85. Pochi di loro, sicuramente molto più le ragazze, e

85 A riguardo, è interessante fare un parallelo con l’esempio proposto dalla Swidler nel suo saggio “Culture in action: symbols and strategies” [1986] sui giovani della working class messi innanzi alla possibilità d’iscriversi

tra queste quelle provenienti dai paesi dell’Est Europa e le ragazze filippine e cinesi, esprimevano progettualità reali sulla continuazione universitaria dei loro studi. Gli altri tendevano invece ad addurre riferimenti alla difficoltà degli studi universitari, all’ingente costo delle tasse universitarie, all’inutilità presunta dello studio accademico.

“L’università è difficile, si studia tanto e non so se io ce la faccio. E poi costa tanto, c’è non so se i miei possono pagare se ancora mi metto a studiare” (R., ragazzo di 16 anni, genitori tunisini, da 13 anni in Italia).

“Io non credo che andrò [all’università]… c’è alla fine non so quanto serve poi l’università… conosco gente che ha fatto la laurea e sta a fare la commessa adesso… forse è meglio che uno va a lavorare così almeno impara un lavoro davvero” (D., ragazza di 15 anni, genitori napoletani, da 7 anni a Modena).

“Ma seee… l’università! Ma mica io ce la faccio, già non mi piace adesso, figurati se faccio l’università” (W., ragazzo di 16 anni, genitori marocchini, nato in Italia).

Questo dato contraddice i risultati di alcune ricerche che tendono a distinguere un significato valoriale della scuola nei ragazzi stranieri rispetto a quelli italiani [Giovannini 1996]. La tesi è che i ragazzi autoctoni conoscano meglio le procedure di selezione del sistema scolastico e che vi si rapportino in maniera più realistica, mentre i giovani stranieri tendano ad attribuire un valore maggiore allo studio piuttosto che al lavoro.

Nella mia esperienza, non ho riscontrato invece una sostanziale differenza di orizzonti: università, prospettive di carriera futura, aspirazioni alla mobilità sono appannaggio di pochi e questi pochi sono solitamente italiani, o nel caso in cui siano stranieri, parliamo di ragazze, motivate dalla famiglia, come quelle moldave, o dalla volontà di successo, come alcune marocchine.

“Sono brava nelle materie scientifiche, per questo ho scelto questo tecnico. Mia madre dice poi anche le lingue sono importanti se voglio fare l’università e allora unisco le due cose. Mi piacerebbe fare ingegneria civile o informatica all’università (T., ragazza di 17 anni, genitori moldavi, da 5 anni in Italia).

“Io non voglio fare un lavoro che mi alzo alle 6 per andare a pulire le scale… quando finisco qua vado a fare l’università, non so ancora quale ma la faccio… l’università ti serve se vuoi fare un lavoro meglio della segretaria o della commessa” (S., ragazza di 17 anni, genitori marocchini, nata qui).

I genitori influenzano in maniera positiva la motivazione allo studio, investendo nella scuola come opportunità di riscatto sociale e di successo futuro, spingendo i ragazzi a proseguire gli studi o a concentrarsi su scuole convertibili in lavoro al momento del conseguimento del diploma. Lo fanno principalmente con le ragazze, specie nelle famiglie ghanesi o est-europee, dove si manifesta una maggiore volontà di miglioramento delle prospettive per i figli. Non a caso sono spesso migranti con titoli di studio elevati, ma non riconosciuti dall’ordinamento italiano, a manifestare questo bisogno di affermazione dei figli e delle figlie attraverso l’istituzione scolastica, cercando di inculcare loro l’idea del all’università. Il vivere in una cultura della povertà [Lewis 1966], in uno stato di deprivazione culturale, per l’Autrice rappresenta un fattore determinante nell’immagine di sé e delle possibilità reali di emancipazione dalla propria posizione sociale ad una migliore. I giovani cresciuti nella working class, socializzati al modello britannico, assomigliano ai loro coetanei nel vestire, nello slang, negli orientamenti musicali. Questo però non significa che ciò comporti lo stesso grado di aspettative e aspirazioni per il futuro, che rimangono invece ancorate alla cultura di riferimento: in questo modo, pensare di andare all’università, di diventare medico, di fare una brillante carriera scientifica diventa quasi utopico, poiché certe professioni restano prerogativa di determinati ceti, almeno secondo gli appartenenti ai ceti sociali più svantaggiati.

valore propedeutico della scuola e della sua necessarietà, soprattutto quando lo scarto tra il capitale culturale di partenza e l’allocazione lavorativa nella società di arrivo è tanto più considerevole:

“Mio padre me l’ha consigliata perché c’era la matematica… all’università ci andrò perché devo..i miei vogliono che studi… lui è un biologo in Ghana e allora dice che io devo studiare, perché lo studio è importante… per me la scuola certe volte è difficile però lo so che devo impegnarmi, non voglio deludere mio padre e voglio trovare un bel lavoro” (M., ragazza di 14 anni, genitori ghanesi, nata in Italia)

“Io sono venuta qua perché i miei volevano che facessi una scuola decente, che uscita da qui avessi delle possibilità. Io all’inizio ero indecisa tra l’economico-aziendale e il linguistico, alla fine ho scelto l’economico perché si fanno anche le lingue comunque e perché mia madre dice sempre che con l’economia si possono fare più università. Lei è laureata in economia in Serbia” (E., ragazza di 19 anni, genitori serbi, nata in Italia).

Anche le amicizie della famiglia del giovane, che sono quasi sempre rappresentate da connazionali, hanno una funzione di supporto e intervengono quando i genitori e i ragazzi cercano un appoggio fidato dinanzi alla complessità del mondo scolastico:

“Partendo dal fatto che vengo da un’altra scuola, dal liceo… non avevo pensato di cambiare scuola perché per le materie a me il liceo piaceva, solo che troppo studio, anche i professori non mi piacevano… allora un’amica di famiglia mi ha detto “guarda ti consiglio di andarci, ti aiuto io per l’esame di ammissione, vai che è bella e ti serve”…abbiamo parlato con i miei e così sono venuta qua, ma non è che mi piace molto sta cosa della moda” (G., ragazza di 17 anni, genitori napoletani, da 12 anni a Modena).

La tendenza espressiva, intesa come aspirazione a lavori collocati nell’ambito dello spettacolo e dello sport ad esempio, assume i toni del fantastico: i ragazzi, quando parlano del calcio o della musica, e le ragazze del mondo delle passerelle o della televisione, manifestano sogni di questo tipo, ma lo fanno sottolineandone l’irrealizzabilità o comunque confinandoli nel cassetto delle speranze migliori:

“Vorrei fare il calciatore, gioco in una squadra di serie b giovanile, ma non lo so se va bene… serve un lavoro se non va bene quella strada. Sono bravo ma non è che puoi pensare solo al calcio, serve una cosa che se non va almeno sai fare” (E., ragazzo di 15 anni, genitori ghanesi, da 12 anni in Italia).

“Volevo fare l’attrice… ho anche provato in Tunisia a fare un provino…mi vergognavo e non è andato bene… mia madre dice che quello non è un lavoro,… secondo me pochi ce la fanno, servono le conoscenze… alla fine imparo le lingue così almeno posso fare diversi lavori” (S., ragazza di 18 anni, genitori tunisini, nata in Italia).

Una parte delle dichiarazioni rese si radicalizzano, invece, sulla funzione strumentale dello studio, che a seconda dei casi assume tuttavia una valenza differente. La maggior parte degli intervistati, senza differenze di genere o di età, propende per una motivazione allo studio finalizzata al raggiungimento di un obiettivo ben preciso, quello del lavoro. L’atteggiamento più comune è quello di un’aspirazione generalista, dove la tipologia di mansione da svolgere non appare centrale, salvo tener conto del fatto che si tratta di occupazioni corrispondenti in buona parte alle competenze fornite dall’indirizzo di studio prescelto:

“La scuola mi serve per un lavoro e avere un futuro. Vorrei andare all’università finiti questi 5 anni e il lavoro che mi piacerebbe fare è in banca, per questo ho scelto questo ramo commerciale. Se non trovo in banca, faccio la segretaria o come commercialista nelle aziende (I., ragazza di 16 anni, genitori albanesi, da 5 anni in Italia).

“Voglio lavorare in banca, sono venuta qua per questo…. Voglio andare subito a lavorare così ho i miei soldi, posso comprare le mie cose (M., ragazza di 17 anni, genitori moldavi, da 3 anni in Italia).

“Questa scuola cioè l’abbiamo scelta perché tutti stranieri non studiano però lavorano… stranieri vengono qua per lavorare quindi ho scelto questa scuola per lavorare, riparatore, meccanico…mi piace però ingegnere ma non lo so” (H., ragazzo di 15 anni, genitori tunisini, da 4 anni in Italia)

“Finita la scuola vado a fare il meccanico, niente università, mi piacciono le macchine, sono bravo e voglio lavorare (T., ragazzo di 16 anni, genitori marocchini, da 14 anni in Italia).

Uno degli aspetti che più mi aveva incuriosito durante le prime interviste e che pertanto avevo cercato di far emergere in maniera più chiara era riferito all’assenza, quasi totale, di aspirazione a posizioni lavorative più qualificate. Secondo una letteratura recente, i figli degli stranieri aspirerebbero a posizioni migliori di quelle dei genitori, rifiutando di riempire gli stessi vuoti professionali offerti ai loro genitori, e proprio in questa potenziale discrasia tra aspirazioni e mete reali risiederebbe il rischio di ribellione o marginalità dei giovani stranieri una volta raggiunta l’età adulta e conseguito i titoli scolastici considerati necessari [Sayad 1979; Ambrosini 2004].

Pur avendo genitori impiegati nel settore operaio o dei servizi del terziario, in qualità di meccanici, saldatori, cuochi, dipendenti di aziende di pulizie, assistenti di anziani, i giovani intervistati non hanno mostrato una reale tendenza alla mobilità sociale, che avrebbe trovato senso, oltre che nella volontà di superare il destino lavorativo dei genitori in qualità di migranti, anche di staccarsi da una posizione sociale scarsamente competitiva in termini di disponibilità economica e di accesso a beni di consumo più elitari, considerati come simboli di benessere e mezzi di affermazione nelle relazioni con gli altri attori sociali dagli stessi adolescenti. Quasi nessuno di loro ha indicato libere professioni, come quella del medico, dell’avvocato o dell’imprenditore, e tra i pochi si notava sempre una tendenza all’autonomo giudizio di inadeguatezza86:

“Io da piccolo volevo fare il dottore, il medico, ma poi ho capito che era difficile, che non ce la facevo… faccio il meccanico, è più facile come lavoro” (M., ragazzo di 16 anni, genitori marocchini, da 8 anni in Italia).

“Magari fare l’avvocato, l’ingegnere… ma e chi studia? È troppe difficile, l’università… a me è già assai che studio qua. Non è che non mi piace di studiare ma secondo me non ci riesco… (P., ragazzo di 18 anni, genitori napoletani, da 10 anni a Modena).

“Mi piacerebbe fare l’avvocato donna, non lo so mi piace che devo parlare io, risolvere i problemi… però non ce l’ho le capacità, non mi vedo a studiare troppo tempo, sono cose difficili da ricordarsi tutte quelle leggi, quelle cosi… però si guadagnano un sacco di soldi, l’ufficio, vestita bene” (S., ragazza di 16 anni, genitori marocchini, nata in Italia).

In molte interviste il lavoro è considerato come la meta, senza alcun tipo di preferenza: il più delle volte è lo stesso per cui si sta studiando, anche se non si ha una reale

motivazione per quel particolare percorso. Più che il tipo di lavoro, che comunque per i professionali maschili del Corni e della Città dei ragazzi rimarca maggiormente il confinamento dei genitori in specifiche nicchie etniche (come ad esempio per i marocchini meccanici87), è il raggiungimento di un salario fisso ad essere considerato centrale.

L’attrazione verso il mondo del lavoro, la ricerca del guadagno e della sicurezza economica, secondo alcune ricerche sulla socializzazione economica in Italia, indicano un atteggiamento tipico dell’adolescenza, in cui si acuiscono gli atteggiamenti strumentali e i soldi divengono risorsa per la propria soddisfazione [Dosso e Rosci 2000; Ruspini 2008].