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Piano di lavoro: la fase di progettazione

LA PROSPETTIVA DI RICERCA

5. Sul campo: dalla teoria alla pratica etnografica

5.3 Piano di lavoro: la fase di progettazione

Chiarite le logiche metodologiche, vorrei proporre una lettura del mio percorso di ricerca che spieghi le fasi e il modo di procedere adottato. Credo che possa servire per entrare nel cuore del problema indagato, individuando i nodi dello sviluppo e della riflessione dell’analisi, oltre che per rendere partecipe chi legge dei dubbi e dei timori sperimentati.

Condurre un’indagine esplorativa sui figli degli stranieri all’interno di un contesto urbano di medie dimensioni può rappresentare una bella sfida. Adottata dalla città di Modena, solo pochi mesi prima dell’inizio del mio corso di dottorato, mi sono ritrovata a pensare ad un’esplorazione sociologica che fosse frutto sia di un interesse scientifico, quello per i fenomeni migratori in senso ampio, sia di una passione personale, quella per le influenze delle differenze culturali nelle logiche integrative, profondamente convinta del fatto che per studiare e comprendere davvero a fondo qualcosa occorre un’immersione totale nelle azioni di vita pratiche e nella normalità del quotidiano.

Questa logica ha diretto la mia esperienza sin dalle prime fasi di approccio alla tematica scelta, obbligandomi a decise virate e cambi di prospettiva in corso d’opera, che hanno reso la ricerca più completa, sfaccettata, ma anche più impervia, titubante e negoziata. Quello che segue è il resoconto di come sono stati scelti gli spazi, i tempi e gli attori di un percorso che mi ha portato ad essere, per un certo periodo, una giovane straniera tra i giovani stranieri, una presenza a tratti incompresa, guardata con sospetto, un’entità sconosciuta ed indefinibile spesso etichettata erroneamente, un’estranea, ma soprattutto una confidente, un’amica, “una di loro”.

5.3.1 Un immediato cambio di rotta: dagli ambienti informali alle istituzioni formali

Una volta definito il quadro teorico di partenza, con un’ampia ricognizione della letteratura scientifica e delle ricerche svolte in ambito nazionale e internazionale sulle seconde generazioni e sul concetto di integrazione, ho provato ad ipotizzare il modo in cui avrei potuto raggiungere lo scopo conoscitivo prefissato, rispettando le impostazioni metodologiche e le conoscenze teoriche apprese. Tuttavia, come da tradizione, l’immaginazione e la progettazione delle fasi di ricerca hanno trovato subito uno scoglio insormontabile nella pratica.

L’idea di partenza era quella, infatti, di studiare la relazione tra l’esposizione al modello di integrazione, proposto nella società italiana, e gli stili di vita degli adolescenti stranieri in contesti di aggregazione informali, considerati come luoghi privilegiati per un’osservazione naturale, scevra dai condizionamenti che, in qualità di ricercatore sul campo e soggetto esterno, avrei inevitabilmente apportato. Per questa ragione, il primo contatto stabilito per l’accesso al campo ha visto il coinvolgimento diretto di alcuni responsabili dell’Assessorato alle politiche giovanili del Comune, grazie a cui sono stati individuati enti pubblici e di volontariato, impegnati da anni in progetti di promozione e riqualificazione urbana, attraverso l’implementazione di esperienze di aggregazione giovanile, oltre che di enti locali attivi nelle politiche migratorie, nella gestione delle problematiche derivanti dall’incontro di culture e negli interventi di promozione della prevenzione sociale nell’ambito delle tossicodipendenze66.

66 Centrale in questa fase è stato infatti il contributo offertomi da alcuni esponenti del Ser.T di Modena, da alcuni anni impegnato in progetti di prevenzione nelle scuole medie inferiori e superiori, e dai responsabili del Punto d’accordo del Comune, centro di mediazione sociale operante nell’ambito della risoluzione pacifica dei conflitti tra i cittadini, che interviene attivamente nei frequenti casi di litigi tra cittadini e giovani specie in luoghi di aggregazione come parchi o piazze pubbliche. Entrambe queste realtà mi hanno aiutato moltissimo nella lettura del fenomeno giovanile straniero in città, permettendomi di individuare alcuni nodi centrali del conflitto sociale e del rischio di derive devianti, in seno alle comunità e alle circoscrizioni locali.

I colloqui con i miei informatori iniziavano a permettermi di tracciare una mappa urbana di grande utilità per l’individuazione delle varie componenti etniche sul territorio locale e degli spazi interconnessi da dinamiche sociali complesse, legate proprio all’avvicendarsi delle varie compagini straniere negli ultimi cinquant’anni. Sulla base delle informazioni ricevute, avevo iniziato a contattare i responsabili di alcuni circoli giovanili, operanti nella città di Modena e nella prima periferia urbana, cercando di rivolgermi contemporaneamente sia a luoghi caratterizzati da disagio sociale, sia a zone con un tessuto comunitario radicato e propositivo. La maggior parte di loro mi aveva da subito garantito completa disponibilità, permettendomi di avvicinarmi ai ragazzi in qualità di volontaria ed evitandomi soprattutto il lungo iter di trattative preventive67. Ciò mi avrebbe

permesso di incominciare a prendere confidenza con l’oggetto di analisi, sfruttando la posizione di fiducia riservata agli educatori dei centri, garantendomi quella naturalezza tanto agognata.

Tuttavia, dopo le prime settimane di osservazione sul campo, in particolare presso il Circolo Alchemia e l’associazione di volontariato Gavci, mi ero resa conto della necessità e dell’impellenza di rivedere la direzione del mio studio: i centri di aggregazione giovanile erano sicuramente ambiti di analisi perfetti per lo scopo, ma caratterizzati da un’utenza ben definita, che avrebbe finito per rimandare un’immagine dei ragazzi stranieri settaria e distorta. I ragazzi e le ragazze, frequentanti questi circoli, erano infatti accomunati da una sostanziale omogeneità in termini sia di appartenenza etnica (in prevalenza napoletani68 e

marocchini) sia di collocazione territoriale, essendo residenti nei quartieri in cui gli stessi circoli sorgevano.

Con motivazioni differenti, ma altrettanto valide, anche i luoghi di ritrovo informali incominciavano a sembrare poco produttivi: se passare intere mattinate tra i parchi più frequentati della città sfruttando le indicazioni degli operatori di Infobus69, annotare le

logiche comportamentali dei gruppi di ragazzini nelle piazze del centro storico o semplicemente osservare gli atteggiamenti dei giovani nei pub e nei locali serali sembrava necessario per iniziare a prendere confidenza con il mondo in esame, era anche vero che queste situazioni non mi avrebbero mai permesso di stabilire dei contatti con i ragazzi abbastanza intensi da aiutarmi a definire le pratiche di integrazione e a declinarlo sulle singole comunità etniche principalmente perché risultava impossibile passare inosservata, e di conseguenza essere vista come una persona di cui fidarsi 70.

67 Sebbene anche l’accesso ai circoli giovanili e alle associazioni di volontariato sia stato frutto di una contrattazione con i responsabili e gli educatori al loro interno, non posso parlare di una vera e propria negoziazione. Rispetto ai tempi e alle modalità adottate per l’accesso nelle scuole, la collaborazione con i centri di aggregazione è stata improntata su un modello paritario. Il fatto che fossi pronta a svolgere il lavoro di volontaria rendeva più tollerabile la mia presenza come ricercatrice nell’ottica di uno scambio di favori (io aiutavo loro e loro aiutavano me), laddove invece nelle scuole ogni aspetto legato allo sviluppo della ricerca è stato frutto di patteggiamenti, spesso anche incompatibili con i miei propositi di ricerca (ad esempio, il numero di classi era spesso motivo di discussione con i presidi che vedevano di cattivo occhio un’intromissione esterna in ben quattro classi per volta, specie quando si parlava di classi prime, considerate troppo vivaci e distraibili in presenza di estranei).

68 Come ho avuto modo di spiegar nel “campione” sono stati inseriti i ragazzi napoletani che per particolari caratteristiche sono stati considerati a tutti gli effetti come un gruppo etnico, con proprie dinamiche interne e archetipi comportamentali.

69 Infobus è un progetto del comune di Modena che si propone di incontrare i giovani che si aggregano informalmente nelle strade, nelle piazze, nei parchi. Gli obiettivi del progetto sono: conoscere la realtà dei gruppi giovanili informali, raccogliere esigenze, informare sulle opportunità della città, favorire una comunicazione positiva tra gruppi e città, sensibilizzare sui rischi derivanti dall'uso e abuso di alcol e sostanze e nell'ambito della sessualità.

70 La mia presenza non poteva non insospettire i ragazzi e le ragazze, che inevitabilmente sentivano il peso di uno sguardo esterno. Nelle occasioni in cui ho provato a prendere appunti su quello che stavo osservando, mi sono resa conto di essere, io stessa, un soggetto osservato. Tuttavia era proprio la necessità di passare lunghi periodi in quei contesti a rendermi troppo visibile e a modificare inevitabilmente i comportamenti dei ragazzi/e. Ad esempio, durante un’osservazione in un parco cittadino, era stato abbastanza chiaro che proprio

Nel momento stesso in cui prendevo consapevolezza della necessità di sopperire alle carenze osservative nei contesti non ufficiali, avevo però avuto un’intuizione: rivolgermi ai plessi scolastici, con la certezza che, sebbene avrei sicuramente potuto influenzare le dinamiche intra-classe, sarei anche riuscita a velocizzare la fase d’accesso. Presenziando in classe e adottando una funzione in qualche misura formale avrei potuto stringere relazioni con i ragazzi, per poi in una seconda fase poter oltrepassare le barriere delle rispettive appartenenze di ruolo, avvalendomi della conoscenza pregressa e della costruzione di un clima fiduciario.

Da quel momento, la mia ricerca è diventata uno studio esplorativo a tutto tondo delle dinamiche generazionali dei giovani stranieri nel contesto urbano modenese, che ha cercato di procedere sfruttando le intuizioni teoriche e metodologiche, per dirigere una pratica etnografica capace di leggere gli stili di vita in maniera globale, inserendolo in logiche interpretative più ampie

5.3.2 Una negoziazione continua

Chiarito che i circoli giovanili, i parchi urbani, le piazze cittadine, erano aree centrali per lo studio delle relazioni giovanili, che avrei comunque dovuto continuare a tenere in considerazione, ho così iniziato a rivolgere l’attenzione alle scuole secondarie superiori di secondo grado, caratterizzate da un alto tasso di presenze straniere. Una lettura delle statistiche ufficiali sulla situazione scolastica provinciale aveva evidenziato chiaramente una concentrazione dei figli degli immigrati principalmente negli istituti professionali, tecnici e nei centri di formazione lavorativa, confermando il dato nazionale che vede una quasi totale assenza degli stessi nei licei scientifici e classici.

Una volta chiarito il quadro d’insieme, ho fissato dei colloqui con i dirigenti scolastici degli otto istituti scelti per convincerli a diventare “soggetti di osservazione” [Vasquez 2003], avvalendomi dell’aiuto dei referenti per gli studenti stranieri operanti al loro interno, rivelatisi poi fondamentali per la negoziazione degli accessi al campo e per la definizione delle modalità di intervento, a fronte di una resistenza spesso pregiudizievole dei responsabili educativi. Accedere ad una scuola pubblica iniziava a risultare, in effetti, molto complicato: in alcuni casi ho dovuto presentare per più volte consecutive richieste formali, autorizzazioni preventive per le famiglie, piani di lavoro dettagliatissimi, oltre che contrattare i tempi delle osservazioni, dovendo così abbreviare i momenti sul campo per lasciare spazio alla conduzione delle interviste. Ho imparato, ad esempio, da subito che non bisognava mai chiedere di iniziare la ricerca in periodi dell’anno in cui fossero previsti esami finali o scrutini parziali, dovendo così cercare di incastrare in maniera millimetrica gli accessi ai singoli istituti. Appariva, soprattutto, molto complicato far accettare ai dirigenti la mia funzione all’interno delle classi: la diffidenza verso un soggetto esterno che avrebbe passato del tempo nella scuola, annotando e guardando ogni movimento non solo degli alunni ma anche del corpo docente, era palese e spesso ho creduto che la continua richiesta di documentazione fosse una valida scusa per temporeggiare ed eventualmente stancare la mia motivazione.

Dopo lunghe trattative, degli otto plessi individuati sei hanno accettato di collaborare attivamente alla ricerca, mentre due (un istituto tecnico e un centro di formazione professionale) si sono rifiutati, adducendo incompatibilità tra la gestione delle attività didattiche e la presenza di un osservatore esterno. In uno dei due casi ero riuscita a stilare addirittura un piano di lavoro con indicazione delle classi e degli orari, concordati con alcuni insegnati, ma ad una settimana dall’inizio dell’osservazione ho ricevuto una lettera per il timore di essere visti da un adulto dei ragazzi si fossero allontanati per finire di preparare uno spinello che avrebbero consumato con la compagnia. Solo dopo aver completato l’opera, i tre ragazzi erano tornati alla panchina dove stazionavano gli altri, fingendo di passarsi tra di loro una comunissima sigaretta.

del dirigente che mi negava di procedere per salvaguardare il regolare svolgimento delle lezioni. L’altro invece aveva utilizzato la tecnica dell’indifferenza, evitando di rispondere alle mie richieste dirette e indirette e di concedermi appuntamenti con i responsabili scolastici per un chiarimento faccia a faccia.