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La ricerca etnografica in sociologia ed antropologia

LA PROSPETTIVA DI RICERCA

5. Sul campo: dalla teoria alla pratica etnografica

5.1 La ricerca etnografica in sociologia ed antropologia

La strategia etnografica affonda le proprie radici nel terreno dell’antropologia di fine XIX secolo, che si caratterizza per una vigorosa virata da un’impostazione a tavolino ad una logica pratica di ricerca sul campo. Sino ad allora i metodi etnografici, modellati sulle coeve concezioni dell’evoluzionismo, tendevano a rinvenire le prove degli stadi evolutivi della società e della cultura mediante ricostruzioni storico-culturali, impostate su prospettive diacroniche di ampio raggio [Bianco 1994]. Con Boas e Malinowski si diffonde invece un’attività fatta di ricerche capillari e sistematiche sul “campo” nei rispettivi continenti, che apre la strada allo sviluppo della pratica dell’osservazione partecipante. La loro è una rivoluzione copernicana che, poggiando su salde impostazioni teoriche, rivendica il ruolo predominante del “punto di vista del nativo”: sia nella logica diffusionista americana, sia nella visione strutturalista dell’antropologia coloniale inglese, le culture altre divengono mondi a cui guardare dall’interno, presupponendo l’esistenza di un sistema di simboli di fondo, fatto di valori, tradizioni e norme che il ricercatore sul campo può conoscere solo mediante l’esperienza diretta e il confronto con gli attori sociali.

Agli inizi del ‘900, i confini tra i due approcci si riducono a tal punto che diventa impossibile definirne i campi d’azione e le influenze antropologiche si diffondono ad altri ambiti e discipline. L’allora nascente Scuola di Chicago ne subisce il fascino, applicando lo studio empirico all’analisi sistematica della realtà sociale: le grandi migrazioni, il fulmineo sviluppo industriale, la crisi degli assetti societari avevano fatto delle grandi città e metropoli americane delle “terre straniere”, paragonabili, per complessità, sviluppo e organizzazione, alle terre lontane raccontate dai resoconti etnografici dei cugini antropologi [ibidem].

I primi studi di stampo etnografico in seno alla sociologia fioriscono così in un clima culturale, politico e sociale interessato alla comprensione delle trasformazioni profonde avvenute. L’orientamento progressista determina l’attenzione per le cause e gli effetti scatenati dal capitalismo imperante, così che i poveri, gli emarginati, i disadattati divengono gli attori principali delle indagini degli studiosi sociali che Hannerz chiamerà “gli etnografi di Chicago” [1980 cit. in Semi 2006]. Le opere di Thomas e Znaniecki [1918- 1920], Anderson [1923], Zourbagh [1929], Shaw [1930], Cressey [1932] e Wirth [1938],

sulla scia delle intuizioni e delle sollecitazioni metodologiche di Park e Burgess, aprono la strada ad una logica di ricerca fondata sulla rilevazione delle storie di vita, mediante l’uso di tecniche osservative associate all’analisi di dati cartografici o censuari [Semi 2006]. Come sostenuto da Deegan, “in generale, queste etnografie studiavano interazioni quotidiane faccia-a-faccia in contesti specifici. Queste narrazioni descrittive ritraevano “mondi sociali” vissuti nel quotidiano all’interno di un contesto moderno e spesso urbano” [2001]. Un contesto in cui la devianza e la disorganizzazione sociale, intesa come patologia sociale direttamente correlata alla distribuzione spaziale degli abitanti all’interno di un determinato contesto, acquisiscono una supremazia concettuale determinante nella definizione degli intenti di ricerca e delle prospettive di studio all’interno del circuito accademico, indirizzando gran parte dei lavori dell’epoca.

Sebbene la costruzione del mito della Scuola di Chicago [Harvey 1987] idealizzi esclusivamente la centralità della pratica etnografica dell’osservazione partecipante, questi primordi sono essenzialmente multimethod56. Bisognerà attendere, infatti, quella che è definita come seconda scuola di Chicago per vedere l’impatto dell’osservazione partecipante a tutto tondo: questa fase, che viene fatta coincidere con l’orientamento degli studi di caso della prima era verso gli studi di comunità [Fine 1995], introduce il primato dell’osservazione partecipante e sposta l’attenzione dal contesto urbano alla multiformità dello spazio sociale. Si istituzionalizza la ricerca etnografica tout-court, codificandola nei manuali, prendendola in esame in riflessioni metodologiche e, soprattutto, insegnandola57

[Semi 2006].

Da questo momento in avanti, l’etnografia di stampo sociale non viene più praticata solo a Chicago: rifacendosi ad un approccio inaugurato dai coniugi Lynd tra il 1924 e il 1925 sulla città di Muncie, nel ’43 l’opera di William Foote Whyte contribuisce all’evoluzione del filone degli studi di comunità,attraverso l’immersione totale nella vista di uno slum della città di Boston, introducendo la riflessività in etnografia, intesa “come capacità di rendere conscio e visibile il processo di costruzione interno a ogni ricerca e di esplicitare la posizione che l’osservatore assume nel campo di osservazione” [Colombo 1998].

Tuttavia, con il secondo dopoguerra e l’avvento dello struttural-funzionalismo di matrice parsonsiana, l’ossessione per l’ordine sociale diventa così pervasiva da relegare nell’ambito della devianza gli oggetti di interesse dell’etnografia sociale dell’era precedente [Maranini 1972]: sono anni in cui la ricerca qualitativa e i suoi metodi vengono esiliati nell’antro dell’a-scientificità, fungendo da immagine speculare per il paradigma sociologico dominante. Si tratta di un’egemonia culturale destinata però a spezzarsi in poco tempo.

Il sopraggiungere di crisi strutturali e congiunturali, legate alle profonde trasformazioni sociali in atto nella società americana e mondiale58, favorisce la nascita di

56 Come ci ricorda Semi [2006], “grazie, infatti, all’ormai ventennale opera di ricostruzione storica e critica dell’impresa di Park e colleghi da parte di studiosi come Martin Bulmer [1983a, 1983b, 1984], Jean-Michel Chapoulie [1987, 2001] Lee Harvey [1987] o Jennifer Platt [1983, 1992, 1996, 2003] è emersa con una certa chiarezza la distanza che si può osservare tra la maniera in cui sono state concretamente condotte le ricerche che hanno reso famoso l’approccio di Chicago e la ricostruzione selettiva che ne è stata data negli anni successivi”. Riprendendo la lettura di Harvey [1987], l’autore ricorda l’opera di mitizzazione della Scuola di Chicago, intervenuta nel dibattito sociologico dopo il tramonto di questa, considerando proprio la dominanza dell’approccio etnografico come una delle cause di questa celebrazione ostentata.

57 Centrale in questo periodo è l’attività di Hughes che torna a Chicago nel 1938, dopo essersi addottorato lì qualche anno prima, con l’intento di insegnare field work, ossia il lavoro sul campo [Semi 2006].

58 Tra queste, si parla del venir meno della pace sociale, della crisi dei ceti medi, della guerra nel Vietnam, delle rivolte studentesche, delle lotte per i diritti civili degli afroamericani, delle rivolte nei ghetti della metropoli americana [Dal Lago 2000]. Sono anni concitati, in cui le classi sociali più distanti dalle stanze del potere, rivendicano un ruolo attivo nella distribuzione delle risorse materiali, simboliche, culturali e politiche, avanzando richieste in termini di diritti e di possibilità, proprio sulla scorta delle teorie e delle ricerche,

nuovi orientamenti sociologici attenti alle relazioni e agli aspetti micro della vita quotidiana, in cui gli spunti etnografici trovano nuova linfa vitale. L’egemonia culturale struttural-funzionalista viene, infatti, osteggiata da una nuova generazione di studiosi, cresciuta all’ombra delle intuizioni etnografiche della Suola di Chicago, che ripropone la questione della disorganizzazione sociale, ed in particolare della devianza, in un’ottica pluralista, costituendo lo zoccolo duro di quella che, in ambito criminologico, verrà definita come criminologia critica59.

Negli anni ’60, i neo-chicagoans60, capeggiati da esponenti di spicco come Becker,

Lemert, Sudnow, riprendono le linee della Scuola di Chicago e focalizzano le loro analisi su un profondo mutamento epistemologico, presupponendo la preminenza delle pratiche rispetto alle strutture [Dal Lago e De Biasi 2002]. Le ricerche etnografiche di questo periodo sono orientate principalmente all’analisi dei fenomeni devianti, ossia di tutti quei comportamenti considerati come abnormi rispetto alle regole del senso comune, con un rilievo centrale per il processo che li determina e per il ruolo delle istituzioni deputate proprio alla sua prevenzione, al controllo e alla repressione. Compaiono concetti come stigma, degradazione, reazione sociale, che dimostrano come le istituzioni del controllo sociale diano forma alla devianza61. Si tratta di un’osservazione naturalistica dei fenomeni

collettivi, che mira ad un rinnovamento della società attraverso la messa in luce dei meccanismi quotidiani di controllo, tematizzando i processi alla radice dei meccanismi di esclusione, ed i cui intenti si concretizzano nei concetti di sovrapposizione e ironia, attraverso cui rendono permeabili i confini tra l’ordinario/conforme e lo straordinario/deviante.

All’interno di questa nuova scuola di pensiero, l’impianto empirico di stampo etnografico assurge a motore della ricerca sociale, trovando completa espressione, rispettivamente, nei lavori di Goffman e Garfinkel.

Il primo, impegnato a descrivere le interazioni degli attori sociali nei contesti quotidiani, attribuisce all’etnografia una chiara valenza sociale, volta allo studio delle "cornici simboliche" o frames [1969], che consentono di inquadrare la realtà e di conferire significato alle interazioni sociali e al mondo oggettuale quotidiano. Le sue discese in campo in reparti psichiatrici [1968] e nelle sale del gioco d’azzardo [1988] introducono, infatti, una lettura etnografica, di impostazione naturalista e situazionale, della vita quotidiana che confluisce nel paradigma dell’azione situata, incentrato sulla progettualità e sull’intenzionalità del singolo, inteso sia come soggetto osservato che come osservatore.

Il secondo, invece, orientato alla problematizzazione del senso comune, attraverso i concetti dell’indicalità e della riflessività [1967], sostiene l’impossibilità per il ricercatore di comprendere la complessità delle convinzioni del senso comune senza una mediazione sociologiche e non, tese alla dimostrazione dell’esistenza di un substrato latente di discriminazioni nei confronti delle categorie meno influenti nel sistema sociale.

59 La Criminologia critica è una corrente criminologia che si sviluppa intorno agli anni ’70, con l’intento di porsi in una posizione critica rispetto alla teorie classiche di tipo eziologico mantenendo come riferimento la teoria marxista. Si tratta di un punto di vista di natura conflittualista, integrato da un analisi marxista delle teorie dell’interazionismo simbolico di Mead, dell’etichettamento, e dell’etnometodologia. Obiettivo principale è uno studio e dall’analisi dei processi di costruzione della devianza a livello sociale, prestando particolare attenzione agli aspetti discriminanti nella costruzione ed applicazione delle norme per alcune categorie sociali, dotate di minore potere contrattuale sul piano politico e sociale.

60 Dalla fine degli anni cinquanta, si sviluppa negli Stati Uniti un nuovo approccio sociologico, che ha assunto, a seconda dei casi, l’etichetta di neo-chicagoans , di west coast school o labelling theory ,al fine di affermare un diverso approccio allo studio dei fenomeni devianti parte da una critica e da un rifiuto dei precedenti modi "correzionali" di studiare la devianza, responsabili di aver ridotto la ricerca sociale a ricerca delle cause dei comportamenti devianti a servizio delle istituzioni dominanti.

61 Nella prospettiva dei neo-chicagoans viene infatti operato uno spostamento dalle cause dell'iniziale atto deviante (devianza primaria) alla reazione sociale (devianza secondaria), colpevole di innescare una riorganizzazione simbolica del sé del deviante, che determina un’appropriazione dello status imposto [Lemert 1951].

dei significati, compiuta dagli stessi nativi osservati: si celebra così la circolarità dell’azione etnografica che porta lo sguardo dell’osservatore “dentro” il campo di ricerca, a cogliere nelle conversazioni e nelle interazioni non verbali il senso profondo delle cose.

La virata dei neo-chicagoans individua una nuova fase nell’impostazione sociologica: si passa alle “nuove regole del metodo sociologico” [Giddens 1976], in cui l’etnografia, da rifugio degli oppositori della sistematicità scientifica, si trasforma in uno strumento ulteriore di indagine messo a disposizione della sociologia. Dalla fine degli anni ’70, nascono nuovi approcci e stili metodologici che introducono un’estensione del termine etnografia (reception ethnography, postmodernism ethnography, feminist ethnography) e portano la comunità scientifica a parlare di un “etnographic turn62”, capace di conferire ai

metodi qualitativi l’autorità scientifica tanto agognata.

In quegli anni, gli studi di Hoggart, Thompson e Williams presso il Centre for

Contemporary Cultural Studies (CCCS) dell'Università di Birmingham inaugurano, difatti,

una tradizione teorica e metodologica dalle molteplici anime che, continuando a prediligere le pratiche concrete degli attori sociali e le loro interrelazioni, subisce l’influenza delle interpretazioni marxiste, della psicologia e dell’antropologia postcoloniale [Markus e Fischer 1986], traducendole in una rinnovata pratica etnografica. Laddove l’etnografia tradizionale costruiva la propria metodologia e il proprio sapere sui «cronotopi idillici», ossia su «piccoli mondi spaziali, limitati, circoscritti e autosufficienti» [Bachtin 1997], l’etnografia postcoloniale, figlia della riflessione occidentale sul potere dello sguardo eurocentrico, inizia ad interrogarsi sulla specificità dei contesti culturali del proprio mondo sociale in un’ottica interdisciplinare. L’attenzione per i rapporti di potere, per la funzione dell’ideologia, per i processi di significazione della vita quotidiana, si traspone in un approccio etnografico militante all’interno dei contesti di fruizione culturale, che si concretizza in una serie di ricerche sul campo con l’adozione di tecniche di osservazione partecipante, specie nell’ambito della comunicazione e dei media [Lutter e Reisenleitner 2004].

All’interno dei Cultural studies, si sviluppano filoni di studio che, partendo dall’idea di classe, sviluppano interessi di tutela per specifiche categorie sociali, come nel caso del

Women’s Studies Group, impegnato a convertire nella pratica sociale i diritti conquistati

con l’impegno politico e civile. La rilettura polifonica, introdotta dagli studi culturali britannici aveva, difatti, posto l’accento sulla necessità di revisione dell’autorità etnografica: non solo l’uomo bianco occidentale, ma anche il genere del ricercatore diviene argomento di discussione nel dibattito scientifico. Le etnografe dell’approccio femminista, come la Powdermarker, la Wax, la Golde, proponendosi di svelare le disuguaglianze di genere insite nei campi del vivere sociale, evidenziano l’asimmetria nella distribuzione di potere all’interno della relazione tra ricercatore ed osservatore, con particolare riferimento alla tendenza “maschilista63”, in seno all’antropologia culturale e agli studi

sociali più in generale.

Insieme alla reception etnography, avviata dalla riflessione di autori come Lull, Hobson, Morley e Silverston alla fine degli anni ‘80, la metodologia femminista apre in questo modo

62 Alcuni commentatori parlano di una ricorrenza del turno (turn=svolta) qualitativo, e di conseguenza del revival etnografico, nelle ultime decadi di ogni decennio, che spiegherebbe il perché del proliferare degli studi di questo tipo. La teoria di fondo è che dopo periodi di profonda fiducia per la sistematicità e il rigore dei metodi quantitativi, la ricerca qualitativa venga vista come un’alternativa metodologica fondamentale per avviare una riflessione più profonda su tematiche sociali problematiche, come quelle legate ai fenomeni devianti e alle forme di disagio sociale [Culyba, Heimer and Coleman Petty 2004].

63 Uno degli aspetti centrali della rivendicazione delle antropologhe femministe è quello relativo alla presa di coscienza di una predominanza maschile nelle ricerche sociali sino ad allora condotte. Le tendenze metodologiche sono così orientate ad una maggiore attenzione per le categorie femminili socialmente discriminate, un accesso più empatico e partecipativo alla dimensione umana dei partecipanti, una riflessione più attenta alla questione della reflexivity, una pariteticità orientativa nella relazione tra intervistato ed intervistatore. Gli strumenti adottati dalle ricercatrici sono così quelli del caring e dell’empatia, attraverso una rinuncia progressiva al controllo totale della ricerca [Stanley e Wise 1983, Ruddick 1989, Skeggs 2001].

una fase meditativa che alimenta le considerazioni dei ricercatori sociali riguardo alle politiche e alle pratiche etnografiche, andando a completare il quadro di critica radicale, reso ancor più palese dall’opera di Clifford e Marcus64 [1986]. Opera che, lungi dall’essere

una semplice analisi della letteratura antropologica, predispone il campo per l’avvento dell’era decostruzionista e postmodernista, sotto il cui ombrello confluiscono diversi filoni di ricerca: l’interpretative etnography, ad esempio, o la critical etnography, o ancora la auto-etnography. Tutti questi indirizzi di studio convergono nella critica spietata della presunta oggettività del ricercatore, accusato principalmente di adottare un atteggiamento di superiorità nei confronti delle culture altre e di essere, suo malgrado, un mezzo di controllo sociale con un preciso scopo repressivo di tipo scientifico [Turner 1989], alimentando un dibattito disciplinare che, senza tregua, giunge fino ai nostri giorni.

Con l’avvento della “seconda generazione” antropologica, l’etnografia diventa elemento caratterizzante delle scienze sociali configurandosi, per il suo carattere insightful, come modello paradigmatico della conoscenza empirica [Faeta 2011]. Oggi, come sostiene Colombo [2001], il numero di pubblicazioni riferite ad esperienze etnografiche è, in effetti, in forte aumento. Dal Lago e De Biasi [2002] confermano questo trend parlando di “urbanizzazione” della ricerca etnografica, proprio per la presenza di un buon livello di monografie [Dal Lago 1990, Torti 1997, Colombo 1998, Sassatelli 2000] e manuali metodologici [Gobo 2001, Marzano 2006], volti a far emergere le pratiche concrete degli attori sociali nei loro contesti di vita quotidiana [Dal Lago e De Biasi 2002]. Il ricorso a questo metodo di ricerca diventa sempre più frequente e interdisciplinare, incoraggiando l’acquisizione di autorità scientifica da un lato. È vero però che proprio questo ricorso sempre più evidente e questa tendenza al riconoscimento scientifico sta demolendo lo spirito originario di una pratica, che viene tra l’altro sempre più entificata come strumento di validazione della realtà, rischiando concretamente di tradursi in pura alternativa alla ricerca quantitativa, dettata più dalla difficoltà metodologicadi quest’ultima che non da una convinta adesione ai principi guida della pratica etnografica.