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I legami che ne scaturiscono producono forme di assimilazione differenti, basate essenzialmente sul rifiuto della condizione di migrante come categoria definitoria:

3. Storia dell’immigrazione nel modenese

3.1 Fasi e alternanze etniche

Il racconto dell’immigrazione nel territorio modenese si sviluppa su una direttrice capace di rappresentare in scala ridotta la storia nazionale del movimento migratorio, lungo l’arco temporale che va dal 1876 ai giorni nostri. Da terra di emigranti, la provincia di Modena si trasforma in terra di approdo per migliaia di migranti, che qui giungono da ogni angolo del mondo e prima ancora dalle regioni della “bassitalia” [Lanternari e

34 Con la locuzione modello emiliano si fa riferimento all’espressione usata per la prima volta da Sebastiano Brusco nel 1982 per indicare un modello produttivo e sociale, fondato sulla specializzazione dei distretti industriali, ossia di un sistema industriale decentrato, legato alle peculiarità dei contesti locali e basato su un modello organizzativo di relazioni all’interno di specifiche aree territoriali con una distribuzione orizzontale dei processi lavorativi, e sulla forza di un welfare di grande rilevanza, sviluppatosi all’interno di uno specifico contesto socio-politico. La riflessione intorno al concetto di modello emiliano spostò negli anni l’attenzione sull’importanza di un tessuto sociale impregnato di valori socialisti che avrebbe determinato l’efficacia di una logica produttiva senza eguali. Per una lettura più approfondita del fenomeno si rimanda a Bianchi P., Gualtieri G., (1991), L’Emilia-Romagna e i distretti industriali: evoluzione di un modello, in Leonardi R., Nanetti R.Y. (1991) (a cura di), Le regioni e l’integrazione europea: il caso Emilia-Romagna, Franco Angeli, Milano; Trigilia C., 1987, La regolazione localistica: economia e politica nelle aree di piccola impresa, in Ascoli U., Catanzaro R., (1989) (a cura di), La società italiana degli anni Ottanta, Laterza, Bari.

Dignatici 1990]. All’interno di questo arco temporale è possibile individuare una serie di fasi, caratterizzate da nessi storico- politici ed economici, che possono chiarire il quadro attuale delle presenze straniere e dare spiegazione di alcune delle dinamiche sociali che sottostanno all’insediamento stabile delle famiglie migranti e delle seconde generazioni.

3.1.1 Dalla febbre migratoria alla seconda guerra mondiale

La grande crisi agraria europea della seconda metà dell’800, unita alle frequenti alluvioni, ai dissesti naturali e alle conseguenti carestie, scosse a tal punto le campagne e le popolazioni rurali da costringere ingenti masse di italiani, e nello specifico di modenesi, ad emigrare. Se fino al 1887 si prediligono mete europee o del bacino del Mediterraneo (in particolare verso la Francia35), dal 1888 al 1897 le destinazioni mutano radicalmente, con i

modenesi imbarcati sulle rotte sconosciute che conducevano al sogno americano, in particolare verso Brasile e Argentina36, entrambi paesi di recente costituzione e con forti

carenze demografiche. Il 1888 rappresenta per il territorio emiliano un anno simbolico: Modena diventa la provincia dell’Emilia con maggior numero di emigranti, con una forte mobilità dalla montagna e dalla “bassa” modenese (territori a sud e a nord dell’attuale provincia).

Il decennio americano si conclude con il 1898, anno in cui si ricomincia a prediligere ed accentuare il movimento continentale. Nel frattempo, la situazione locale non accenna a migliorare: l’agricoltura modenese si era arricchita in quegli anni, ma l’iniqua ripartizione delle risorse aveva generato nicchie borghesi benestanti e masse contadine angustiate da miseria e disoccupazione. Era un mondo fatto di indigenza, povertà, ignoranza, in cui iniziavano a spuntare però i primi germi di un socialismo radicale, attraverso la formazione di leghe e cooperative in particolare nei comuni della bassa pianura modenese (nel 1910 il numero delle cooperative presenti a Modena ammontava a centotredici), e mediante la nascita del partito: “nasce in tutta Europa, nasce in tutta Italia. Ma nel modenese, c'erano i contadini che lo costruivano. E questo è un fatto assolutamente unico” [Sassoon 1997].

Il dialogo con la politica liberale giolittiana aveva portato, intanto, rilevanti miglioramenti per la condizione dei lavoratori, che poterono iniziare a rivendicare i propri diritti grazie al supporto dei nascenti sindacati e delle citate cooperative, in un clima di crescente tensione tra la classe agraria e il movimento operaio, sfiancato dalla critica situazione economica e sociale del tempo37. In questi anni i tassi migratori si mantengono

su valori piuttosto elevati: nel 1906 si registra un picco di emigrazioni transoceaniche; nel 1911, nei comuni di montagna si parla di una vera e propria filiera migratoria, con una propensione verso l’estero superiore al 20% [Canovi e Sigman 2005].

Lo scoppio della prima guerra mondiale, coincidente con la fine dell’emigrazione di massa, congela la situazione politica, ormai tesissima, ma non la spinta propulsiva a migrare, sebbene incomincino a registrarsi anche i primi rimpatri, specie dall’America del

35 La presenza dei modenesi in Francia corrisponde a dinamiche di lunga durata: come sostiene Le Goff, i contatti tra Modena e la Francia risalivano al medioevo e nei secoli precedenti all’emigrazione di massa le genti di montagna erano avvezze a varcare il confine alpino per cercare lavoro [Le Goff 1967].

36 Sono gli anni dell’economia del caffè in Brasile. La manodopera nelle fazende del Nord si compone di schiavi neri, ma l’abolizione della schiavitù nel 1888 impone la ricerca di nuovi lavoratori, a cui gli italiani sopperiscono efficacemente. Per l’Argentina si assiste invece ad un processo di europeizzazione forzata delle zone interne, messa in atto attraverso la collaborazione del governo italiano con quello argentino, che porterà ad una vera e propria opera di colonizzazione agraria da parte di cittadini italiani, specialmente piemontesi e liguri [Canovi e Sigman 2005].

37 Si registra in questo periodo, precisamente nel giugno del 1914, uno scontro molto acceso tra nazionalisti e socialisti nella città di Modena. Si tratta del primo caso di tensione sociale così estrema in una città tradizionalmente pacifica [Canovi e Sigman 2005].

Sud e dagli Stati Uniti. Con la fine del conflitto bellico le mai sopite tensioni di classe si riacutizzano: da una parte, la borghesia si organizza nell’Associazione agraria per tentare di salvaguardare i propri privilegi, dall’altra, il Partito socialista italiano e la Camera del Lavoro riescono ad imporsi come le più decisive organizzazione sindacali. Sono gli anni del cd. Biennio Rosso (1919- 1920), anni in cui i lavoratori conseguono punti a proprio favore, attraverso la ridefinizione dei patti agrari e dell’orario di lavoro.

La borghesia agraria reagisce però in maniera negativa al tumulto del movimento operaio, complice anche la vittoria del Psi alle elezioni amministrative del 1920, finanziando in maniera cospicua il fascismo, che sino ad allora non era riuscito ad infiltrarsi nel tessuto socio- urbano provinciale, contribuendo così alla fine di un’epoca di fermento socialista quasi rivoluzionario e all’inizio di una fase buia della vita politica emiliana, attraversata dalla clandestinità della matrice ideologica comunista.

L’emigrazione modenese riparte a cavallo del 1920, con valori simili a quelli del ventennio precedente e con una predilezione per gli Stati europei, complice anche l’imposizione da parte degli Stati Uniti delle quote migratorie in un’ottica protezionista, che colpiscono significativamente soprattutto gli emigranti provenienti dai paesi mediterranei e dalla Polonia [ibidem], e la crisi economica brasiliana. La Francia si conferma negli anni ’20 come il paese di maggior attrazione per gli emigranti modenesi: accanto all’emigrazione per lavoro (in particolare nelle miniere) che, come accennato in precedenza, si configurava in un’ottica continuativa, emerge una coincidenza storico- politica che farà parlare di emigrazione politica di massa. Oltralpe, i militanti comunisti sfuggiti alle persecuzioni fasciste hanno la possibilità di ricreare un comunismo italiano de-territorializzato [Candeloro 2002 cit. in Canovi e Sigman 2005].

Gli anni del dominio fascista e del secondo conflitto bellico registrano un appiattimento dei valori dei tassi migratori verso l’estero, sia per una logica anti- migratoria del regime, sia per un rovescio delle rotte degli espatri che si indirizzano verso le colonie italiane, sfruttando i canali di collocamento del regime e le politiche di occupazione militare dei territori assimilati ai confini dell’Impero [Meroni 2009]. Coloro che riescono ad emigrare verso mete estere appaiono condizionati da un deciso rifiuto nei confronti della dittatura fascista: si tratta perlopiù di socialisti convinti che recuperano le rotte delle precedenti migrazioni (vedi il caso francese) o che si inseriscono nei meccanismi delle filiere migratorie basate su relazioni familiari (ricongiungimenti) o interpersonali.

3.1.2 Il dopoguerra e il boom economico: cambio di rotta

La situazione economica drammatica, la stanchezza per l’occupazione straniera e la conflittualità politica contribuirono alla ripresa dell’emigrazione modenese nel secondo dopoguerra, soprattutto dalle aree rurali e montanare che avevano fatto registrare i più alti tassi migratori sino alla prima guerra mondiale, con picchi molto alti tra il ’47 e il ‘48. Le migrazioni verso l’esterno sono accompagnate da una crescente migrazione interna dalle aree più depresse verso la zona pedemontana e la pianura: si tratta di migrazioni legate ai cicli naturali dell’agricoltura e alla stagionalità di alcune mansioni, come ad esempio all’edilizia [Muzzioli 1993]. Le rotte tornano ad essere continentali, anche grazie ad accordi istituzionali con i paesi di accoglienza che reclutano direttamente manodopera italiana (come ad esempio il Belgio), mentre paesi tradizionalmente favorevoli all’immigrazione dall’Italia adottano strategie limitative per l’accesso, sulla scia dei rancori suscitati dal ricordo recente delle barbarie fasciste (la Francia assume un atteggiamento apertamente ostile nei confronti degli italiani, anche per via di un difficile riconoscimento degli atti di resistenza all’occupante tedesco che espone il paese ad accuse pubbliche ad opera della stampa) [Bonoli e Mangeri 1999].

Accanto al malcelato astio francese per gli operai italiani, si assiste tuttavia a una fase di rottura rispetto al passato dell’emigrazione modenese, connessa alla mobilitazione collettiva

che investe il paese e la provincia. Le lotte operaie e contadine, rimaste sopite e tacite durante la dominazione fascista, tornano prepotentemente alla ribalta innescando una propulsione al cambiamento che argina la propensione migratoria in vista di un risanamento economico, sociale e culturale del paese, di tipo definitivo. Nell’immediato dopoguerra, i sindacati e i partiti di sinistra avevano, difatti, denunciato l’emigrazione come il risultato di un’incapacità strutturale di rispondere in maniera attiva alla necessaria risoluzione delle problematiche scaturite dalla guerra, pur considerandola il “male minore” in attesa di tempi migliori. Dal ’48, questa idea tramonta rapidamente, traducendosi in una critica serrata del fenomeno migratorio, considerato ormai solamente un palliativo dei governi per sedare gli animi della popolazione [Candeloro 2002].

Nella provincia di Modena, l’opposizione sindacale e di sinistra si accompagna ad una forte logica comunitaria di stampo solidaristico, che riesce a sostenere i lavoratori in periodi di disoccupazione e a ridimensionare i numeri di partenze verso l’estero, e ad uno sviluppo dei poli urbani della provincia in concomitanza della nascita delle grandi zone industriali in formazione, che iniziano ad attrarre i lavoratori dai tradizionali luoghi di emigrazione, dando vita ad un processo di inurbamento nel centro del modenese, intorno al capoluogo, a Sassuolo e a Carpi. Sono i primi veri migranti, “le muntanér” (i montanari nel dialetto modenese), lavoratori richiamati dal fabbisogno crescente nelle neonate fabbriche che però tornano al paese durante il fine settimana. È un’immigrazione temporanea, che turba i modenesi di città, ma che viene tollerata sulla base di un’omogeneità culturale di fondo e di una distinzione netta degli spazi urbani dagli spazi lavorativi [Bonoli e Mangeri 1999].

Nella seconda metà degli anni ’50, lo sviluppo industriale dell’Emilia appare sempre più solido e in continua espansione: l’accumulazione di ingenti capitali, derivanti dal comparto agricolo, la presenza di una forza lavoro giovane, la necessità di una ristrutturazione urbanistica e la spinta propulsiva dei consumi interni convergono nel processo di industrializzazione, che da lì a poco scuoterà l’intera economia nazionale dando vita al celebre miracolo economico, figlio della società capitalista e della riconversione post- bellica.

Il boom economico degli anni ’60 incoraggia positivamente l’industria delle ceramiche, legata inevitabilmente al mondo dell’edilizia che in quegli anni vive una fase di massima espansione. La terra perde qualunque forza attrattiva in confronto al richiamo della civiltà industriale e così zone rurali destinate alla coltivazione si trasformano in aree industriali e complessi abitativi, mentre nelle zone precollinari spuntano cave di argilla [Lanternari e Dignatici 1990]. Nascono i primi distretti industriali: a Sassuolo col comparto ceramico, a Carpi con la produzione tessile, a Mirandola con il biomedicale.

Si tratta di una trasformazione del territorio che porta con sé le radici di un profondo ed irreversibile mutamento socio- culturale della realtà italiana: è un modello economico imperniato su uno sviluppo distorto del Paese e di cui si vedono subito i primi effetti. L’industrializzazione, che investe il Nord e nello specifico l’Emilia Romagna, non attecchisce nel Meridione, costringendo milioni di abitanti delle zone più depresse del Paese a scegliere la via dell’emigrazione interregionale e obbligando il nuovo ricco Nord a confrontarsi con genti, dialetti, costumi a volte incomprensibili e, sempre più spesso, mal sopportati [Bevilacqua 2005].

La provincia di Modena reagisce in maniera differente all’arrivo dei nuovi immigrati sardi, calabresi, napoletani, pugliesi: se nei piccoli paesini, l’atteggiamento degli autoctoni si configura come prevalentemente benevolo e aperto nei confronti di coloro che le fabbriche stesse avevano chiamato, nei centri urbani come Modena, dove l’industrializzazione aveva iniziato da tempo a consolidarsi e dove le presenze si concentrano nel centro storico, gli arrivi dei meridionali generano una profonda distanza psico-culturale, derivante dall’ethos e dai valori di cui queste genti erano portatrici.

Iniziano i primi malcontenti: i migranti meridionali, arrivati soli per cercare lavoro, si stabilizzano, richiamano la famiglia, parenti, amici, conoscenti con la promessa di una terra in cui trovare lavoro e denaro (si tratta di vere e proprie catene migratorie, le stesse che oggi funzionano per i migranti stranieri, con un ruolo importante delle parrocchie che fungevano

da intermediarie, divulgando tra i fedeli le offerte di lavoro del Nord). La loro presenza non è più celata agli occhi della ricca borghesia modenese, che li accusa di consumare troppo, di vivere in condizioni degradate38, di avere usanze barbare. Nemmeno gli operai autoctoni, i

proletari comunisti dell’Emilia rossa, accettano i nuovi arrivati: rubano il lavoro, ottengono tutte le case popolari disponibili, allora considerate un bene prezioso, mancano di solidarietà di classe e si prestano al lavoro nero.

Molte delle accuse rivolte trovano fondamento nella realtà: i migranti meridionali colonizzano quartieri urbani interi, ricostruendo comunità paesane in cui mantenere vive le tradizioni e la cultura d’origine e al di fuori delle fabbriche riproducono le stesse dinamiche di genere, con le donne dedite al lavoro domestico e di cura della prole confinate in casa e gli uomini impegnati nella vita sociale del paese. La partecipazione è però fittizia: gli spazi di compenetrazione culturale tra gli autoctoni e i “marocchini”39 restano minimi, legati

perlopiù al contatto diretto nelle fabbriche. Al di fuori, ogni gruppo cerca una propria collocazione spaziale, personalizzando luoghi di ritrovo in simboli di appartenenza comunitaria, come nel caso di bar, piazze o parchi, che gli immigrati scelgono come propri. La demarcazione territoriale delle differenze appare ancor più evidente all’interno dell’intera compagine meridionale: se tra i compaesani la fratellanza è viva, i pregiudizi campanilistici determinano una chiusura dei singoli gruppi di migranti sulla base dell’appartenenza locale, generando nicchie identitarie, che non sfociano tuttavia in chiusure reattive nei confronti della società, ma che permettono di individuare zone di “competenza etnica” all’interno dell’assetto urbano.

Nascono in quegli anni alcuni di quei large housing estates [Zajzcyk et al. 2005], agglomerati di case popolari e quartieri-dormitorio, che rappresentano l’unica risposta alle necessità abitative delle famiglie meridionali: a Sassuolo il quartiere Braida accoglie le migliaia di operai della ceramica umbri, lucani e sardi; a Modena la zona delle ex- fonderie e il Villaggio Artigiano, creato appositamente per offrire una residenza ai lavoratori, vengono popolati dalle famiglie meridionali, specialmente da quelle napoletane e pugliesi; a Mirandola, Formigine, Carpi aumentano gli affittuari del Sud. Il costo dei servizi e delle abitazioni risente di questa congiuntura, esacerbando gli animi della popolazione locale e gettando sull’orlo del collasso i maggiori centri urbani [Lanternari e Dignatici 1990].

3.1.3 Gli anni ’70 e il tracollo del modello emiliano

La felice congiuntura economica dei primi anni ’60 lascia ben presto il posto ad un clima di tensioni sociali, esasperato da una fase di recessione che non tarda ad affacciarsi: già nel 1964, Modena entra in recessione. I sindacati promuovono scioperi e manifestazioni contro il carovita, canalizzando le rimostranze di operai, contadini, artigiani e commercianti. Aumentano i licenziamenti e in molte fabbriche si assiste alla riduzione del monte ore lavorativo, per cercare di arginare i costi di produzione [Canovi e Sigman 2005]. Nel solo settore edilizio circa il 70% degli addetti rimane disoccupato40.

Entrano in crisi alcune aziende che avevano fatto la fortuna del territorio, come la Carrozzeria Orlandi e la Maserati della famiglia Orsi, che viene venduta alla concorrenza francese Citroën. In quegli anni, la cooperazione assume un ruolo fondamentale, radicando

38 Una testimonianza sulle condizioni di vita dei meridionali nei primi anni ’60 arriva da Alcide Vecchi, sindaco di Sassuolo in quegli anni, il quale in un’intervista dichiara “… ci siamo trovati, a metà degli anni ’60, che avevamo tutti i solai e gli scantinati pieni di famiglie: gli immigrati erano quelli che vivevano peggio il boom economico. […] C’era sempre il rischio di sentir parlare male dei meridionali, ma c’era anche la famosa lettera di Levrini, che viaggiava per tutto il meridione reclutando operai.” [Muzzioli, Spreafico e Guaraldi 2006: 276] 39 Sin dai primi arrivi di meridionali, a Modena e nei dintorni viene adottato l’appellativo di marocchino per identificare i nuovi arrivati. È un appellativo dalla chiara funzione dispregiativa, che accomuna sardi, napoletani, siciliani e che permette di marcare una differenza insuperabile tra un Noi, ricco, emiliano e civile, e un Loro, sporco, meridionale e incivile [Lanternari e Dignatici 1990].

il proprio impegno sul territorio e fornendo ai lavoratori uno strumento di rivendicazione forte, che si concretizza nell’avvio di importanti cooperative destinate a divenire negli anni un simbolo dell’impegno socio- imprenditoriale all’emiliana (ad esempio con la Coop Italia, oggi famosa con il marchio Coop).

Le contestazioni studentesche, la ripresa economica, le rivendicazioni sindacali e la piena occupazione al Nord fanno del ’69 un anno di speranza, ma è un miracolo destinato a durare poco. La crescita economica dei primi anni ‘70 è lenta, le pesanti tassi sui prodotti di importazione, l’inflazione determinata dalla crisi petrolifera del ’73, penalizzano un sistema economico cresciuto in fretta ma senza un controllo e una regolamentazione lungimirante. Sono gli anni della tensione, i cd “anni di piombo”, anni in cui la strategia della tensione semina morte, odio e un inasprimento dei conflitti sociali e politici [Arru e Ramella 2003]. A Modena, la rete cooperativa riesce tuttavia ad opporsi alle spinte distruttive dell’economia capitalista, creando lavoro e nuovi servizi, difendendo al contempo la produzione e la capacità d’acquisto dei consumatori: i risultati sono una crescita imprenditoriale nell’industria e nel terziario, con lo sviluppo della piccola e media azienda e con la crescita dell’artigianato industriale e di servizio [Canovi e Sigman 2005].

Mentre Modena reagisce alla crisi economica, grandi eventi caratterizzano il panorama mondiale degli anni Settanta. Nel 1973, in Cile, il golpe guidato dal generale Pinochet soffoca nel sangue l’esperimento socialista democratico di Salvatore Allende e migliaia di profughi si spargono per il mondo alla ricerca di accoglienza. Tra il 1974 e il 1975, in Europa muoiono vecchie dittature: in Grecia cade la dittatura “dei colonnelli”; in Portogallo la “rivoluzione dei garofani” abbatte il regime di Salazar, in Spagna muore il “caudillo” Francisco Franco. In Asia termina la guerra del Vietnam con la sconfitta degli Stati Uniti e la riunificazione del paese sotto le bandiere della Repubblica popolare [Guarracino 2004]. Queste profonde trasformazioni internazionali favoriscono l’arrivo dei primi migranti extracomunitari sul suolo emiliano, richiamati da un modello di sviluppo socialista e da un generoso sistema di welfare collaudato e aperto all’accoglienza. I primi ad arrivare sono gli esuli cileni, seguiti dagli studenti greci e dalle colf asiatiche (filippine, sri-lankesi): in questa fase, centrale è l’attività delle Acli e del volontariato cattolico, che si impegnano attivamente per gli stranieri in un clima di rispetto e solidarietà, tanto che la Diocesi si dota di un centro d’accoglienza in cui ospitare i bisognosi. La reazione dei modenesi è positiva, trattandosi di immigrati per motivi politici e non si crea nessun tipo di allarme sociale. Stranieri continuano ad essere considerati i meridionali, seppure la loro presenza venga considerata ormai endemica e incontrovertibile [Muzzioli, Spreafico e