I legami che ne scaturiscono producono forme di assimilazione differenti, basate essenzialmente sul rifiuto della condizione di migrante come categoria definitoria:
2.4 Le seconde generazioni oggi Una difficile definizione concettuale
I figli dei migranti rappresentano un nodo strategico nelle relazioni sociali di stampo interetnico di così grande portata che la stessa definizione appare ambigua e a tratti contraddittoria, tanto da generare un dibattito a parte, in campo non solo accademico. Come sostenuto da Demarie e Molina [2004] esiste infatti in primo luogo un problema relativo alla
pluralità del fenomeno, caratterizzato da una profonda eterogeneità di natura sia
contestuale che etnica; in secondo luogo, un problema inerente il lessico adottato, che raccoglie pregiudizi, stereotipi e ambiguità del processo definitorio del concetto stesso ed, infine, un problema relativo alla specificità dell’oggetto di indagine.
Varietà della forma
La definizione di seconde generazioni si inscrive all’interno del più ampio e altrettanto articolato dibattito sulle logiche migratorie degli ultimi anni nei singoli contesti nazionali. La sua natura plurale è pertanto il risultato della combinazione di caratteri storici, etnici e locali, che determinano sviluppi peculiari in seno a questo gruppo sociale, spesso omogeneizzato per ragioni di studio.
I figli degli stranieri sono difatti gli eredi di viaggiatori approdati in precisi periodi storici e ambiti politico-economici. Come i loro genitori, vivono in contesti di vecchia o recente immigrazione, sperimentando aperture e chiusure sociali nei confronti dell’alterità, che condizionano l’inserimento sociale e la convivenza civile tra le singole rappresentanze.
L’essere figlio di straniero è però solo una delle variabili da considerare. Prima che figli dell’immigrazione, le seconde generazioni sono figlie di una certa immagine stereotipizzata di migrante, il cui livello di accettazione e integrazione è modulato su quei significati culturali
che sono andati per così dire incrostandosi sulle differenti appartenenze
etniche.
Taluni gruppi sono più facilmente assimilati nel tessuto sociale se corrispondenti ad una specifica idea di rispetto delle regole, della morale e del vivere comune. Altri sono invece rigettati dal corpo comunitario, tanto da pagare i pregiudizi verso il gruppo d’origine come colpa individuale [Bosisio et al 2005].Inoltre la dimensione storica, politica ed economica di ogni singola realtà ospitante determina prospettive di integrazione delle minoranze contingenti, fondate sull’arbitrarietà dei sistemi sociali, sul livello di coesione sociale e sul grado di conflitto interno, che condizionano inevitabilmente l’atteggiamento nei confronti dei figli dei migranti e le conseguenti reazioni di questi.
Adeguatezza del lessico
Delimitare l’universo delle seconde generazioni appare complicato sin dalla sua stessa definizione lessicale. L’ambiguità derivante dal carattere secondario [seconde], socialmente imposto, e la contestualizzazione di una categoria uniformata per esigenze scientifiche [generazioni] contribuiscono significativamente ad alimentare le critiche da più parti, pur senza che vengano proposte valide alternative capaci di ovviare ad un problema che sta a monte. Nonostante sia un ossimoro, seconde generazioni è, infatti, ad oggi il riferimento concettuale più adoperato in senso alla comunità scientifica e alla società civile.
La locuzione, come chiariscono Barbagli e Schmoll [2011] nel loro recente volume dedicato alla situazione dei figli di stranieri, si deve non ad un ricercatore bensì al giornalista Hapgood che descrisse i mutamenti occorsi nello stile di vita dei figli degli ebrei russi approdati a New York evidenziando la loro posizione peculiare nella società, “un misto di speranza e di una eccitazione quasi senza precedenti, da un lato, e di dubbio, confusione, sfiducia di sé, dall’altro” [Hapgood 1902].
Negli ultimi anni, per cercare di superare la diatriba sull’etichetta adottata, moltissime sono state le definizioni e i criteri utilizzati per riferirsi ai figli di stranieri: criteri di arrivo,
come nel caso della classificazione di Rumbaut [1997], o di origine, essendo sufficiente semplicemente avere un genitore straniero, o espressioni come generation involontarie, generazione dopo, giovani a metà o, con toni apocalittici, bomba ad orologeria a scoppio ritardato [Bovenkerk 1973 cit. in Barbagli 2002]. La peculiarità del fenomeno rende così possibile il ricorso a svariate forme di demarcazione linguistica dell’oggetto, senza che nessuna riesca a prevalere in maniera definitiva sulle altre, mettendo tutti d’accordo. La stessa locuzione seconde generazioni, che ha finito per prevalere negli ultimi anni, è infatti aspramente avversata nell’ambiente accademico e sociale, poiché rimanda ad un’idea di secondarietà, sottolineando la dimensione problematica e ripetitiva dell’esperienza migratoria [Tognetti Bordogna 2007; Caneva 2011].
Identificazione dell’oggetto
Le seconde generazioni sono un oggetto multiforme e temporaneo: rappresentano stili di vita, storie, abitudini altamente differenti tra loro, ma all’interno di un tempo bene definito. Questa profonda tendenza omologante della locuzione, unita alla fugacità della giovinezza, limita fortemente l’analisi critica del fenomeno, esponendo il ricercatore che si accinge a studiarlo ad una serie di rischi.
Considerare i soggetti come figli di qualcuno rimanendo incastrati nel paradigma secondo-generazionale [Ambrosini e Molina 2004], perderli di vista una volta diventati adulti e ottenuta la cittadinanza del paese ospitante, contribuire ad una stereotipizzazione del gruppo sociale concentrandosi su casi devianti o problematici, spiegare comportamenti giovanili sulla base di appartenenze etniche, promuovere ulteriori forme di pregiudizio su taluni gruppi mediante una classificazione involontaria ma necessaria dei comportamenti di stampo etnico, fornire strumenti di controllo di una fascia della popolazione mediante l’esplicitazione di meccanismi celati, sono solo alcuni degli azzardi scientifici in cui si rischia di incappare, accingendosi a studiare la prole di origine straniera.
Soluzioni provvisorie alle questioni di metodo
Pur nella sua limitatezza, l’espressione seconde generazioni sembra tuttavia, a mio parere, la migliore al momento disponibile e per questo motivo sarà utilizzata nella sua accezione più ampia, senza intenti etichettatori di sorta.
Per quanto riguardo la questione relativa alla portata lessicale della locuzione seconde generazioni, credo che ognuna delle definizioni adottata successivamente finisca per eliminare alcuni caratteri negativi, creandone inevitabilmente di nuovi. Se è vero che parlare di seconde generazioni aiuta a riprodurre all’infinito l’idea di migrante anche in assenza di una scelta volontaristica33 , è vero che in termini cronologici la secondarietà
esiste eccome. Rifiutare l’evidenza di una categoria che arriva dopo proprio perché ne esiste una precedente, sarebbe come negare la possibilità di identificare chiunque come “figlio di”, ipotizzando che nel riferimento ad un predecessore vi sia un intento stigmatizzante. Lo stesso vale per il termine generazioni: non credo esista ad oggi una parola capace di rimandare così immediatamente ad un universo sociale specifico. Non identifica un’età, una classe o un gruppo, ma fa riferimento ad un insieme vasto ed eterogeneo, accomunato dalla condivisione di un tempo, di uno spazio e di un’esperienza di vita, lasciando intatte le singolarità dei vissuti individuali. In proposito, «non il fatto» , scrive Mannheim, «di essere nati nello stesso tempo cronologico, di essere diventati giovani, adulti e vecchi nello stesso tempo costituisce la collocazione comune nello spazio
33 Una delle critiche più marcate alla definizione seconde generazioni deriva dal fatto che i ragazzi di origine straniera migrano al seguito di adulti che hanno scelto di intraprendere il viaggio. Eccetto nei casi dei minori non accompagnati, i figli degli stranieri sono infatti migranti loro malgrado [Tognetti Bordogna 2007].
sociale, bensì la possibilità a esso legata di partecipare agli stessi avvenimenti e contenuti di vita e, soprattutto, di essere esposti alle stesse modalità di stratificazione della coscienza» [1928] è la caratteristica delle generazioni, che nel caso dei ragazzi stranieri coincide con quella stessa possibilità per gli autoctoni, ma con un capitale sociale di base profondamente differente.
Multiformità e provvisorietà sono altresì caratteristiche sicuramente difficili da gestire, ma non per questo esclusivamente negative. Considerare uniformemente un insieme così eterogeneo di esperienze non può che essere limitante, escludendo naturalmente interpretazioni contestuali e riflessioni oggettive dotate di senso critico. La possibilità di ingabbiare l’originalità dei percorsi di vita individuali in un’etichetta scomoda [Ambrosini 2004] appare così fondata su validi presupposti logici. In generale, possiamo quindi dire che lo sviluppo storico degli arrivi, la composizione etnica dei flussi e la logica ricettiva dei contesti condizionino a tal punto gli esiti dei percorsi di inserimento delle seconde generazioni da rendere efficace solo un’interpretazione del fenomeno in un’ottica plurale, individuando “minoranze nelle minoranze” [De Marie e Molina 2004] ma presupponendo un intento definitorio meramente concettuale.