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Molteplici famiglie, molteplici culture

STORIE E VOCI DELL’INTEGRAZIONE: UNA LETTURA MULTIDIMENSIONALE DELLE PRATICHE DEI GIOVAN

8. Il senso delle origini: famiglie, comunità, lingua e religione

8.1 Molteplici famiglie, molteplici culture

Le famiglie straniere sono in primo luogo famiglie migranti. Pensare di definirle senza partire da questo presupposto è quindi assolutamente fuorviante.

I progetti migratori e le modalità di sopravvivenza connesse al “trauma migratorio” rimodellano, infatti, ruoli, atteggiamenti e aspettative dei componenti del nucleo familiare. Si tratta di cambiamenti che producono effetti sui minori, in alcuni casi incentivando la realizzazione personale, l’inserimento sociale e il successo scolastico ad esempio, ma che in altri casi possono rappresentare dei vincoli per l’azione individuale difficili da sradicare, innescando meccanismi potenzialmente discordanti con l’ideale assimilatorio della società ospitante. Meccanismi ancor più imprevedibili se si considera che si realizzano nell’arco della giovinezza [Tognetti Bordogna 2004]. Durante l’adolescenza, il rapporto dialettico tra genitori e figli si complica inevitabilmente: le funzioni di cura, di trasmissione di valori e norme, di controllo e di sostegno all’autonomia vengono stravolte da un’età, che porta in sé i germi di un cambiamento.

La famiglia migrante vive le tensioni connesse alla crescita in maniera potenziata: le migrazioni plasmano i legami, aggiungendo ulteriori mutazioni ai già precari assetti familiari nel periodo adolescenziale, ma soprattutto ridefiniscono le logiche interne all’assetto domestico e i rapporti tra generi e generazioni [Ravecca 2009]. Con l’insediarsi in un territorio straniero, la vita familiare dei migranti subisce delle trasformazioni che producono nuove forme di vita quotidiana, in “un’interazione dinamica tra dimensioni strutturali, aspetti culturali e scelte soggettive”, in cui prende forma “un’elaborazione culturale creativa” [Ambrosini 2005].

È indubbio tuttavia che, tra incomprensioni e incertezze, le famiglie rappresentino un punto centrale per la strutturazione della relazionalità del giovane con il mondo esterno e degli adulti, e che la prospettiva di integrazione sociale, “reale”, del figlio di stranieri muti in base proprio alle caratteristiche che i nuclei familiari assumono nel contesto di immigrazione.

Le famiglie migranti sono teatri culturali multiformi, in cui origini e stili educativi si mescolano, creando singole strutture relazionali a forte complessità. Le combinazioni di motivazioni, tempi di arrivo e breadwinner determinano in questo modo dei laboratorio

famiglia [Balsamo 2003], con connotazioni e forme complesse, che sfidano le definizioni

usuali della famiglia nelle scienze sociali e si contraddistinguono per una profonda mutabilità dei propri componenti nel corso del tempo.

Studiarle è quindi un’impresa alquanto impegnativa, specie quando si rischia di adottare delle logiche interpretative, viziate dalla tendenza a concentrarsi, in accordo con la letteratura sul tema, più sulle problematiche che sulle dinamiche interne [Portes e Rumbaut 2001; Ambrosini 2004; Suarez- Orozco et al 2008]. In questa parte cercherò pertanto di tenere in considerazione prima di tutto gli aspetti strettamente connessi al processo migratorio iniziale, per poi provare ad identificare delle tipologie familiari, sulla base delle relazioni tra i componenti e del dialogo intergenerazionale, provando ad isolare degli aspetti a mio avviso centrali.

8.1.1 Percorsi migratori

In primo luogo, è importante tener conto di quale fattore sottenda alla volontà di creare una catena migratoria, ossia di distinguere tra quelle partenze orientate dal bisogno di costruire una nuova vita altrove, magari su consiglio di amici o parenti, e quei viaggi per lavoro che celano invece il bisogno di rompere un legame familiare o di reinventarsi completamente in un nuovo paese. In secondo luogo, è determinante il ruolo di chi si assume la responsabilità di partire per primo/a, innescando l’iter migratorio, e del periodo necessario per questo processo di riunificazione familiare, che può concludersi in poco tempo o, al contrario, prolungarsi di molto, creando delle distanze non sempre ricomponibili tra i suoi membri.

Quel che è certo è che poche famiglie immigrate arrivano già formate nelle società riceventi. Nei casi più frequenti, la migrazione familiare è un processo a più stadi, con un momento iniziale di separazione, conseguente alla partenza del primo- migrante con maggiori probabilità di ottenere un lavoro, un tempo più o meno lungo di rapporti a distanza ed, infine, il ricongiungimento con la ricomposizione del nucleo originario attraverso il trasferimento dei familiari nella società ricevente [Ambrosini 2007]: è la dinamica delle tre famiglie dell’immigrato [Esparragoza 2003]. Il primo-migrante è colui/e che determina le prospettive di inserimento della famiglia, dovendo attivarsi sia nel mercato del lavoro che in quello abitativo, predisponendo il terreno per il ricongiungimento. Esso/a diventa il portatore di una speranza di emancipazione, colui o colei su cui la famiglia allargata conta per veder migliorate le proprie prospettive, spesso anche investendo economicamente per la sua partenza [Balsamo 2003]. Ma è anche colui/e che lascia la famiglia, che contribuisce a ridefinire le relazioni al suo interno e che mette una distanza spaziale ed affettiva tra sé e i figli .

Il ruolo di apripista è così di centrale importanza per tentare di chiarire le dinamiche educative e le conseguenze sul comportamento dei minori, che solitamente si ritrovano al centro di cambiamenti repentini su cui non hanno nessun potere.

Le famiglie dei ragazzi e delle ragazze intervistate sono quasi sempre famiglie ricongiunte, in cui a migrare per primo è stato solitamente il padre, seguito poi dalla coniuge e dai figli. È una modalità di migrazione molto diffusa tra le varie etnie con cui sono entrata in contatto, in accordo con uno stile migrante che fino agli anni ’90 aveva una precisa connotazione di genere92 [Colombo e Sciortino 2004].

92 Le migrazioni degli anni 70-’80 erano contraddistinte da una forte connotazione di genere, dalla giovane età e dall’assenza di legami familiari dei migranti. A migrare nella prima fase furono uomini soli, provenienti principalmente dalle aree del Maghreb, dalla Cina e dalla Jugoslavia. In quegli anni, l’immigrazione femminile

Tuttavia,osservando nel dettaglio le dichiarazioni rese dagli intervistati, ho notato la prevalenza di questa dinamica di trasferimento a fasi alterne principalmente tra le famiglie provenienti da sistemi patriarcali, in cui vige il modello del male breadwinner, organizzato intorno ad una netta divisione del lavoro tra uomo (impegnato esclusivamente nel lavoro retribuito extra familiare) e donna (impegnata esclusivamente nel lavoro familiare non retribuito). In queste famiglie, le madri assumono ruoli lavorativi extra-domestici solo una volta giunte in Italia, per contribuire al bilancio familiare, ma specie tra le famiglie tunisine, indiane, turche e pakistane è diffusa l’immagine di una madre casalinga, che rimane tale in entrambi i contesti:

“Noi in famiglia siamo in 8, quattro sorella e un fratello, e due nipotini...io sono il quinto e sono nato in Turchia. Mio padre è qua da 12 anni, poi tutta la famiglia… io da piccolo sono venuto qua, quattro anni. Mia madre sta a casa, mio padre lavora in una fabbrica dove fanno i pezzi delle macchine” (A., ragazzo di 17 anni, genitori turchi, da 13 anni in Italia).

“Siamo in quattro a casa… prima è venuto papà in Italia, perché in Albania non aveva il lavoro… faceva come operaio in un’azienda del legno, ma è stato licenziato..è venuto qua lui prima, perché c’aveva degli amici che lavoravano qua a Modena. Poi siamo arrivate io e mia madre… mio fratello è nato a Modena. Mia madre fa l’operaia e mio padre il camionista” (S., ragazza di 16 anni, genitori albanesi, da 11 anni in Italia).

“La mia famiglia siamo io, mia madre, mio padre, mia sorella e mio fratello. Io sono il più grande della famiglia… mio padre è venuto prima lui e poi io con mia madre… i miei fratelli sono nati dopo quando stavamo qua... mio padre fa il meccanico e mia madre pulisce nelle fabbriche… quando eravamo in Marocco lavorava solo mio padre ” (M., ragazzo di 17 anni, genitori marocchini, da 11 anni in Italia).

“Io sono figlia unica. Mia madre fa la casalinga e mio padre lavora in una fabbrica a Sassuolo della ceramica. Noi siamo venuti qua quando io avevo 4 anni, ma mio padre è venuto prima lui per trovare il lavoro e poi ci ha fatto venire a noi” (F., ragazza di 15 anni, genitori tunisini, da 11 anni in Italia).

Diverso è il caso delle famiglie rumene, ucraine o di origini sudamericane, in cui le migrazioni assumono una veste tutta al femminile. Madri sole che cercano, nella fuga verso una terra straniera, un riscatto o una possibilità di vita nuova, molte volte in seguito a matrimoni fallimentari o separazioni non consensuali. Sono donne che si inseriscono in quel complesso internazionale di riallocazione dei compiti di accudimento, che Ehrenreich e Hochschild hanno definito «catena globale della cura» [2004].

Buona parte dei ragazzi e delle ragazze provenienti da questi luoghi, parlano di esperienze di separazione dalle mamme, partite verso l’Italia per diventare assistenti familiari dei nostri anziani o per lavorare a servizio di altre donne italiane in un gioco di sostituzione dei ruoli femminili che riproduce la disparità di genere, semplicemente spostandola sulle migranti [Sassen 2004; Vianello 2009]. In alcuni casi, questa femminilizzazione dei flussi risponde alla necessità, cui abbiamo accennato poco prima, di assumersi il carico completo della gestione della prole, prendendo le redini della famiglia e

appariva inesistente, nonostante fosse molto diffusa nel mercato del lavoro domestico [Favaro e Tognetti Bordogna 1991] grazie alla mediazione di congreghe missionarie cattoliche, che si rivelarono delle ottime agenzie di collocamento per le donne straniere (principalmente capoverdiane, eritree, etiopi e somale), reclutate come collaboratrici nelle famiglie italiane [Pugliese e Macioti 1991)].

Dagli anni ’90 in avanti, la migrazione femminile prende invece piede in maniera evidente, dando vita a quella che viene comunemente definita una femminilizzazione dei flussi e si assiste ad un riequilibrio dei generi per etnia, correlato soprattutto al ricongiungimento familiare [Scidà e Pollini 2002].

ponendosi a tutti gli effetti a capo di essa, ma anche di mettere fine a relazioni deteriorate. Non sono rari, in effetti, i casi di donne est-europee o sudamericane che, migrando sole, si ritrovano poi a separarsi dai mariti poco tempo dopo, o di quelle che partono proprio per mettere fine ad un matrimonio non più desiderato, usando la distanza come mezzo di rottura definitiva:

“Io vivo con la mia mamma a Modena, figlia solo io, non ce l’ho fratelli… sono separati di quando lei è venuta Italia di 2008” (L., ragazza di 15 anni, genitori moldavi, da 6 mesi in Italia).

“ Io vivo con mia madre e mia figlia di 3 anni… mia madre fa quel lavoro che aiuti gi anziani ma in clinica…io sono stata senza mia mamma per 8 anni… sono rimasta con i miei nonni… poi loro non ce la facevano più a tenermi, perché erano diventati troppo vecchi, io volevo uscire, fare le cose di una ragazza ma loro non volevano… e allora mia madre mi ha fatto venire qua. Solo che servivano i documenti di tutti e due i genitori… mia madre ce l’ aveva, ma mio padre non voleva farmi venire in Italia… loro si erano separati quando io ero piccola, non lo so perché lui non mi voleva mettere le firme per farmi partire, non l’ho visto molto nella mia vita… alla fine sono arrivata clandestina” (D., ragazza di 18 anni, genitori albanesi, da 4 anni in Italia).

Boh, sono separati. Mio padre abita negli Stati Uniti, mia madre viveva col suo compagno quando sono venuta in Italia ma poi si sono lasciati con questo… io vivo con lei, mio fratello vive con il mio patrigno… mia madre lavora con una signora anziana, va a casa sua e viene a casa solo per dormire praticamente…è venuta qua perché mio padre di noi se ne fregava e servivano i soldi per vivere… allora lei mi ha lasciato là con mia zia e mia nonna ed è venuta qua insieme a un’altra parente” (D., ragazza di 17 anni, genitori cubani da 6 anni in Italia).

“Mio padre vive in Ucraina,sono separati e io vivo con mia madre… prima stavo con mio padre, poi si sono lasciati e sono venuto qua da mia madre… si sono separati 5 anni fa e qualche mese dopo mia madre mi ha fatto venire a stare con lei. Lei lavora a fare le pulizie in una casa, aiuta anche con i figli della signora e una nonna che sta là con loro” (T., ragazzo di 17 anni, genitori ucraini, da 4 anni in Italia).

Come si evince dalle testimonianze, sembra configurarsi un comportamento di genere connotato etnicamente, tanto da risultare completamente assente nelle altre famiglie migranti. In un solo caso ho trovato una ragazza di origine africane, la cui madre si era servita della migrazione per allontanarsi da un rapporto di coppia non più tollerato:

Mia madre ha lasciato mio padre perché non era un buon marito. Solo che essendo che in Marocco non ti puoi lasciare senza che uno è d’accordo, allora lei è venuta in Italia. Poi mio padre vero è tornato ma io ero piccola e non mi ricordo… mia madre ha detto che si sono messi di nuovo insieme, ma che poi lui continuava a fare le cose brutte e si sono lasciati di nuovo… e poi mia madre si è messa con un altro che è il mio patrigno adesso… stiamo con lui” (S., ragazza di 17 anni, genitori marocchini, da 10 anni in Italia).

Nelle famiglie di origine meridionale e in quelle asiatiche, il tempo della migrazione dei genitori, invece, coincide: i figli vengono lasciati indietro, affidati ai nonni o a parenti, per poi essere ricongiunti alla famiglia solo dopo che i due coniugi hanno creato insieme dei presupposti di stabilità per loro. Casi simili si rintracciano anche nelle famiglie dell’Est Europa, ma sono delle eccezioni. Ovviamente, nel caso delle famiglie meridionali, il processo migratorio appare più semplificato, laddove la relativa distanza tra paese di partenza e paese di arrivo, nel nostro caso la provincia modenese, è abbastanza irrisoria da permettere frequenti spostamenti tra una zona e l’altra e una riorganizzazione degli assetti familiari che quasi mai supera l’arco di un anno:

“Mia madre e mio padre sono venuti insieme. Io e mio fratello siamo rimasti con i miei nonni materni, sono come dei genitori per me loro due… infatti adesso che siamo qua mi mancano… noi siamo rimasti giù mentre loro intanto cercavano la casa, il lavoro, perché c’era già mio zio qua che li aiutava. Dopo che ho finito la scuola siamo saliti pure noi, tipo 10 mesi dopo” (G., ragazzo di 16 anni, genitori napoletani, da 8 anni a Modena).

“I miei sono venuti da Afragola qua quando io avevo 6 anni… io sono rimasto con mia nonna giù perché andavo a scuola e non mi volevano togliere a metà anno… non mi ricordo bene quando sono venuto di preciso ma siamo stati divisi poco” (A., ragazzo di 17 anni, genitori napoletani, da 8 anni a Modena).

“I miei mi hanno lasciato con i nonni nelle Filippine… sono venuti prima loro a vedere se trovavano lavoro, se andava bene. Dopo un po’ che erano qua, hanno fatto venire mio fratello… io sono arrivata l’anno dopo” (Y., ragazza di 16 anni, genitori cinesi, da 8 anni in Italia).

“Io vivo con i miei genitori, mio fratello e mia sorella piccola… i miei sono venuti qua da soli, poi hanno portato me e mio fratello. Ci teneva mia zia perché i miei nonni sono morti prima che loro venivano qua. Io ero piccola non mi ricordo, me l’hanno detto loro… mia sorella è nata qua…” (N., ragazza di 17 anni, genitori indiani, da 15 anni in Italia).

8.1.2 Famiglie in migrazione

A questi aspetti relativi ai percorsi di ripristino dei legami parentali, correlati direttamente alla fase migratoria iniziale, si sommano quelli derivanti dalla tipologia familiare, intesa come composizione del nucleo strutturale: ci sono famiglie classiche, famiglie monogenitoriali, famiglie allargate, ed ognuna di esse ha la capacità di pesare sul vissuto del giovane “migrante suo malgrado”, influenzando il livello delle sue relazioni con la realtà circostante e il suo sviluppo psicoemotivo.

Nella ricerca qui presentata, questa mutevolezza delle forme familiari93 emerge con

forza: le famiglie biparentali, in cui il percorso della migrazione ha trovato completamento e i genitori dei ragazzi vivono insieme, occupandosi congiuntamente della gestione “domestica” dei figli, sono quelle descritte con più frequenza dai giovani intervistati. È un tipo di famiglia trasversale a tutte le provenienze, che accomuna una buona parte dei giovani di origine straniera e dei figli di meridionali. La maggior parte dei ragazzi migranti ha fratelli e sorelle, mentre sono pochi i figli unici, concentrati al contrario soprattutto nelle famiglie autoctone dei ragazzi intervistati come gruppo di controllo.

Sebbene la “normalità” familiare rappresenti una fetta concreta dei racconti di vita ottenuti nel corso dell’indagine, sono molteplici le famiglie che si discostano dall’ideale tradizionale di famiglia. Dietro l’apparente solidità di certe relazioni parentali si celano tensioni e conflittualità tra i coniugi, sposati dinanzi alla legge, ma separati di fatto nella vita quotidiana. Sono parecchi i racconti di realtà familiari attraversate da dissapori e ostilità, in cui la convivenza diventa un inferno quotidiano. Nei racconti dei ragazzi

93 Per classificare le varie realtà familiari, mi sono servita dello schema proposto da Favaro e Colombo [1993] e da Ricucci [2010], introducendo una rielaborazione delle definizioni sulla base delle logiche interne alle famiglie degli intervistati . Le tipologie individuate nell’analisi qualitativa delle interviste possono così essere sintetizzate:

famiglie biparentali: presenza effettiva di entrambi i coniugi nella crescita del giovane straniero;

famiglie spezzate: realtà familiari caratterizzate da separazioni, in ci è frequente che il giovane viva

con solo uno dei de genitori;

famiglie mancanti: nuclei familiari assenti per disfunzioni interne gravi o per morte prematura di uno

dei due o di entrambi i genitori;

costretti a vivere in famiglie di facciata affiora il senso di sconforto e smarrimento dinanzi alla disgregazione degli affetti e della solidità dei propri punti di riferimento:

“Mia vita familiare per ora è normale, prima che siamo arrivati in Italia eravamo tutti d’accordo, ma quando sono arrivati i miei fratelli ci sono stati casini, i miei si sono lasciati… viviamo nella stessa casa però ognuno dorme nella sua camera, comportamento dei genitori è brutto, noi da figli cerchiamo di mettere insieme ma mia madre non vuole, proprio disaccordo …non so come giudicare” (O., ragazzo di 18 anni, genitori nigeriani, da 10 anni in Italia).

“Vado molto d’accordo con mia madre, con mio padre invece non mi sono mai affezionata dato che è venuto a vivere in Italia quando ero piccola. Anche adesso non riusciamo a parlare, lui è molto severo, molto maschilista non si vive bene in casa… loro litigano o non parlano mai…” (F., ragazza di 17 anni, genitori peruviani, da 9 anni in Italia).

Proprio la numerosità di separazioni, ufficiali o ufficiose, è stata uno degli aspetti che mi ha più incuriosito nelle descrizioni delle famiglie dei ragazzi e delle ragazze intervistate: le famiglie spezzate sono diffusissime tra i giovani modenesi, mentre nelle famiglie straniere sono evidenti nei nuclei, solitamente monogenitoriali femminili, originari di alcune zone dell’Est Europa, dell’America latina e, in alcuni casi, del Ghana. Di rotture definitive tra i genitori parlano anche altri ragazze e ragazzi, anche di origine meridionale, ma sono casi sporadici, sicuramente meno evidenti di quelli ben più ricorrenti nelle famiglie autoctone e, per l’appunto, in etnie definite. Sono, invece, del tutto assenti nei nuclei provenienti dal continente asiatico, dove sembra esserci un attaccamento preminente all’idea dell’unitarietà familiare.

Come abbiamo visto, le separazioni dai coniugi sono frequenti tra le donne che scelgono di migrare da sole, ma si verificano anche quando, una volta concretizzatosi il ricongiungimento tanto agognato, le dinamiche di ruolo tra i partner sono così differenti, da quelle precedenti la migrazione, da non consentire una ricomposizione degli affetti in terra straniera [Ricucci 2010]. La partenza della donna comporta, infatti, un’emancipazione dal suo ruolo nella coppia, generando a sua volta sentimenti negativi nel marito, che si vede degradato a semplice gregario, quasi come un figlio piuttosto che come un coniuge [Balsamo 2003]. Accade anche che chi viene ricongiunto si senta spaesato dinanzi ad un cambiamento troppo radicale e che scelga di tornare indietro: la vita in un paese di cui non si conoscono, o si conoscono poco, lingua, tradizioni, modi di vivere, la necessità di entrare in relazione con la società di migrazione e le sue istituzioni, la complessità di ricompattarsi come individui e come attori familiari possono rappresentare delle criticità difficili da arginare, generando spesso conflitti di coppia, stati