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STORIE E VOCI DELL’INTEGRAZIONE: UNA LETTURA MULTIDIMENSIONALE DELLE PRATICHE DEI GIOVAN

8. Il senso delle origini: famiglie, comunità, lingua e religione

8.4 Lingua di casa e lingua sociale

Se escludiamo l’evidenza di alcuni tratti somatici, la lingua è forse il marchio più evidente dell’estraneità delle seconde generazioni. Esse non sono, infatti, considerabili a tutti gli effetti straniere se non sulla base di un colore di pelle differente o di un parlato, un accento altro. La lingua è quindi un «marcatore etnico», uno dei segni visibili di appartenenza o di discendenza da un certo gruppo etnico, che in quanto tale è capace di produrre delle effettive limitazioni sulle seconde generazioni nel loro processo di integrazione/assimilazione alla società italiana [Valtolina e Marazzi 2006].

La dimensione linguistica si esplica come determinante su tutti i piani dell’inserimento delle nuove generazioni: a livello micro, condizionando le possibilità del giovane di apprendere in tempi rapidi la lingua italiana, in base alle sue capacità di minimizzare l’uso della lingua madre; a livello meso, ponendosi come elemento di valutazione concreta del suo inserimento scolastico e della probabilità di entrare a far parte di cerchie amicali autoctone; a livello macro, definendo il suo grado di accettabilità sociale. Sia che nasca in Italia, sia che vi arrivi durante l’infanzia o l’adolescenza, il figlio di stranieri vivrà sempre il conflitto tra lue due lingue, quella degli affetti, trasmessa dai genitori e dalle reti parentali, e quella sociale, imposta dal nuovo contesto e veicolante per qualunque tipo di azione al suo interno. Non solo le istituzioni scolastiche, ma anche la società civile e i gruppi di coetanei autoctoni, e non, valuteranno la sua adesione al modello comunitario d’arrivo in relazione al grado di competenza linguistica.

Nelle interviste svolte, le dichiarazioni dei ragazzi si sono concentrate su una modalità ben definita, che vede una mescolanza continua delle due lingue di riferimento a seconda degli spazi. In casa molti giovani parlano la lingua dei genitori, mentre a scuola tendono ad usare l’italiano in conformità alle richieste degli insegnanti, che cercano di scoraggiare per ovvie ragioni il ricorso alla lingua madre, specie in presenza di altri connazionali nello stesso gruppo classe. Se a casa la lingua madre è, infatti, un aggregatore, in quanto contribuisce a mantenere vivo il ricordo delle origini comuni tra genitori e figli, negli ambienti istituzionali può trasformarsi in un pericoloso collante tra gli studenti, per sfidare l’autorità o per evitare di essere capiti dagli altri, come avevo avuto modo di notare durante il periodo di osservazione etnografica nelle scuole e come emerge dai brani di intervista:

“Io parlo marocchino con i miei amici marocchini o quando mi arrabbio con i prof… loro non vuole parlo in marocchino… posso dire su di loro e non capisce… “ (B., ragazzo di 17 anni, genitori marocchini, da 2 anni in Italia).

“Io parlo semp in napulitan… non m n fott propr di professor…” (F., ragazzo di 18 anni, genitori napoletani, da 12 anni a Modena).

Si configura una bipartizione tra pubblico e privato molto netta: l’italiano è la lingua dell’ufficialità, l’idioma da usare con gli italiani e con tutti coloro che non possono comprendere la propria lingua madre, mentre la lingua dei genitori rappresenta un mezzo di comunicazione con familiari, parenti e connazionali. La doppia competenza linguistica assolve così alla funzione di comunicare affettivamente o socialmente con gli altri attori sociali, mediando continuamente tra i due orizzonti culturali a cui i giovani sentono di appartenere.

“Io parlo italiano solo a scuola… poi sempre filippino con gli amici, a casa” (J., ragazzo di 16 anni, genitori filippini, da 5 anni in Italia).

Io a casa parlo tunisino, tranne che con mio fratello che parlo in italiano… mia madre non capisce l’italiano, mio padre un poco… io parlo sempre tunisino perché ho anche le amiche tunisine, solo a scuola no (M., ragazza di 16 anni, genitori tunisini, nata in Italia).

“A casa indiana, con amici indiani solo indiano. Con mia sorella parlo italiano perché i genitori non capiscono… a scuola italiano sempre” (R., ragazzo di 16 anni, genitori indiani, da 4 anni in Italia).

Provando ad analizzare più da vicino questa logica linguistica, si rilevano però delle criticità, che offrono una visione più nitida delle influenze esercitate dalla famiglia e dalla rete comunitaria, laddove la scelta del lessico risponde anche a precisi intenti delle parti coinvolte.

Soprattutto la tendenza a propendere per la lingua madre può dipendere da una precisa volontà familiare, essere il risultato di deficit linguistici dei genitori, derivare da una socializzazione più italiana che etnica o essere un modo per isolare gli altri, e viceversa rinforzare il legame etnico del gruppo, rappresentando una precisa volontà identitaria. Dall’altra parte anche un ricorso totale alla lingua italiana non è da considerarsi sempre tranquillamente, laddove è facile che si verifichi come modalità anti- discriminatoria, per evitare ad esempio il giudizio degli autoctoni.

Nello specifico, queste situazioni possono verificarsi in modi differenti, a seconda dell’etnia di appartenenza e dell’influenza del modello educativo familiare.

La famiglia può, infatti, motivare i figli a parlare la loro stessa lingua per attivare un incredibile dispositivo di riproduzione culturale, mantenendo vivo in loro il senso di appartenenza al loro paese di origine.

“Con i miei sempre marocchino… con gli amici parlo in marocchino , italiano solo qua con i prof a scuola e con chi capisce. I miei parlano bene l’italiano però vogliono che parliamo marocchino così non ci dimentichiamo, perché siamo marocchini” (S., ragazzo di 16 anni, genitori marocchini, da 11 anni in Italia).

Conosco il bosniaco, lo conosco, lo uso con papà perché a lui piace parlare la sa lingua e che ci ricordiamo che siamo di altre origini… lui vorrebbe che si parlasse più la sua lingua perché gli manca e perché così noi impariamo a voler bene al nostro altro paese”( E., ragazza di 20 anni, genitori bosniaci, da 13 anni in Italia).

Questo fenomeno è tipico delle famiglie straniere in generale, ma in alcune si contraddistingue per l’intensità della motivazione: la maggior parte dei genitori cerca infatti di far sviluppare entrambe le competenze linguistiche anche in casa, mentre altri tendono a richiedere esplicitamente ai figli di “ricordarsi di essere” non italiani, specie nelle famiglie di origine turca e marocchina.

“Parlo italiano sempre anche in casa, mia madre mi dice le cose in marocchino e mi dice oh non ti chiami mica Antonio parla marocchino… quando mi incazzo urlo in marocchino… con gli amici parlo marocchino perché è più divertente” (A., ragazzo di 18 anni, genitori marocchini, nato in Italia).

“Di solito parlo in turco,mio padre mi dice ma perché non parli in turco, sei turco e io dico ma sono in Italia… non so parlare poi bene in turco e allora parlo un po’ in turco e di più italiano. Con gli amici parlo italiano” (A., ragazzo di 17 anni, genitori turchi, nato in Italia).

In alcune famiglie, la propensione per la lingua madre è invece una diretta conseguenza dell’incapacità comunicativa dei genitori, solitamente delle madri che, non riuscendo a parlare l’italiano, finiscono per rinforzare la separazione netta tra ambiente domestico e ambiente esterno. Avviene soprattutto nelle famiglie di provenienza asiatica, come quella indiana, pakistana e filippina, e in quelle tunisine o turche, dove è più frequente che ci siano donne casalinghe, con una ridotta partecipazione alla vita sociale, per via dell’assenza del lavoro e di reti autoctone di conoscenti:

“A casa parlo marocchino, fuori parlo italiano con amici italiani e quelli marocchino parlo in marocchino… mia madre parla solo marocchino e basta” (Y., ragazzo di 15 anni, genitori marocchini).

“Parlo sempre turco, con chi non capisce parlo italiano. A casa solo turco, mia madre non lo sa l’italiano….” (O., ragazzo di 16 anni, genitori turchi, da 12 anni in Italia)

“ Mia madre non sa l’italiano, noi con lei parliamo sempre arabo perché non lo capisce proprio l’italiano… mio padre un pochino ma lui non c’è mai e alla fine parliamo sempre arabo in casa. Fuori parlo italiano con le amiche” (N., ragazza di 17 anni, genitori tunisini, da 13 anni in Italia).

La doppia competenza non è inoltre sempre scontata: non sempre i giovani stranieri riescono a coltivare entrambe le lingue, così da poter comunicare agevolmente in ogni contesto. Una socializzazione più italiana, legata al tipo di relazioni instaurate nell’arco dell’infanzia e dell’adolescenza sia in termini individuali che familiari, produce un adattamento quasi mono - linguistico: specie per coloro che scelgono gruppi amicali autoctoni o misti e per coloro che sono nati in Italia, o ancora che non hanno reti etniche intorno alla famiglia, la lingua madre appare quasi sconosciuta. Questi ragazzi confessano di non saperla parlare, di riuscire a capirne solo il senso senza la capacità di articolare delle argomentazioni, tanto da sentirsi derisi a volte dai loro connazionali a riguardo:

“Io parlo male in ghanese, perché anche quando sono arrabbiata e voglio parlare con i miei loro si mettono a ridere… le battute riesco a dire però non lo parlo perché ho una pronuncia strana” (L., ragazza di 18 anni, genitori ghanesi, nata in Italia)

Parlo a casa cinese però non tanto perché a capire capisco tutto ma non è che lo so parlare proprio bene. Io son nato qua e da sempre parlo italiano… se provo a parlare si capisce che non lo so bene. Poi non è che ci sono tanti cinesi che posso parlare la lingua, non li conosco qua di cinesi” (C., ragazzo di 16 anni, genitori cinesi, nato in Italia).

“Io non so parlare ghanese, capisco quello che dicono… tipo anche i ghanesi in stazione parlano ghanese e io non riesco a parlare… i miei ci hanno provato a insegnarmi ma non è che ce la fai a imparare se senti solo qualche volta quando sei piccola… a scuola tutti parlavano italiano e io ho imparato bene quello” (S., ragazza di 19 anni, genitori ghanesi, nata in Italia).

“Lingua mista anche a casa, faccio una frase e mi vengono metà e metà, ma di più in italiano. In arabo so dire poche cose... Io con mio fratello solo italiano perché lui è in Italia, quando parla non si capisce proprio niente e io non voglio che si trova male. Io uso sempre l’italiano… l’arabo è una seconda lingua per me, io non so rispondere in arabo, anche perché non riesco a parlare la mia lingua se sono in mezzo ad altra gente che non mi capisce” (B., ragazza di 16 anni, genitori marocchini, da 12 anni in Italia).

“Io parlo filippino pochissimo, i miei mi parlano in filippino ma rispondo in italiano. Anche con gli amici faccio non ci riesco proprio. Quando vado a casa in Filippine ci metto tanto” (V., ragazza di 16 anni, genitori filippini, nata in Italia).

Come abbiamo visto, la lingua rappresenta un elemento cruciale per cogliere dinamiche familiari e sociali non sempre comprensibili ad una prima occhiata. Più che di scelta si può parlare di uso strumentale della lingua, ossia di un ricorso a codici linguistici differenti in relazione al tipo di contesti, che dipende però strettamente dal grado di apprendimento di entrambe.

Ma c’è un aspetto molto interessante emerso dalla rilettura delle interviste, che riguarda la declinazione linguistica nelle seconde generazioni in risposta al grado di accettazione del contesto ricevente. La società ospitante può, infatti, facilmente rifiutare il ricorso alla lingua madre nei giovani, spingendo per un abbandono forzato e acritico della lingua madre, considerata un legame potenzialmente dissonante per l’inserimento conforme del giovane [Ravecca 2009].

Possono così prodursi due forme di resistenza linguistica, tra loro antitetiche. Da una parte, una resistenza alle proprie origini, per cui si sceglie di ricorrere solo all’italiano per

non incappare nel giudizio negativo degli italiani, manifesta nella componente asiatica degli intervistati:

“Se c’è la gente che parla pakistano, tipo se parlano tutti pakistano io mi sposto, mi da fastidio, poi la gente guarda male, io mi dà fastidio proprio… io sono in Italia e mi devono capire, perché è giusto” (S., ragazzo di 16 anni, genitori pakistani, da 7 anni in Italia).

“Io solo a casa con i miei, perché gli viene più facile esprimersi. Fuori parlo in italiano, anche in classe, non mi piace tanto usare l’indiano con persone italiane perché poi le persone pensano male di te, pensano che gli parli dietro non capiscono e allora è meglio che parlo in italiano” ” (I., ragazzo di 16 anni, genitori indiani, da 7 anni in Italia).

“Io in mezzo agli italiani non uso il filippino perché non voglio che pensano che li offendo o dico cose brutte… io parlo filippino con i miei fratelli e i miei genitori… non è un problema parlare italiano perché sono in Italia, la lingua che parlano qua è italiano…e devo parlare in italiano” ” (S, ragazzo di 16 anni, genitori filippini, da 5 anni in Italia).

Dall’altra, una resistenza nelle proprie origini, che spinge i giovani a rifugiarsi nella lingua dei genitori per controbattere alla pretesa di uniformità linguistica, ma soprattutto alla discriminazione della propria nazionalità, perpetrata dalla società italiana. Si parla la propria lingua non perché non si conosca l’italiano, anzi. La scelta dell’idioma materno si concretizza piuttosto come una risposta al bisogno di identificazione con specifici significati a seconda del contesto. Quanto più forte è sentita la richiesta di omogeneità da parte della società, tanto più è probabile che si sviluppino comportamenti reattivi, con un ripiego identitario sul gruppo etnico di riferimento e con il rifiuto di adeguarsi all’idioma dominante. La categoria di appartenenza linguistica serve in questo modo come elemento di riconoscimento reciproco, comunicando la similitudine in un contesto di estraneità [Bosisio, Colombo, Leonini e Rebughini 2005]. Questo tipo di atteggiamento è frequente nei ragazzi e nelle compagnie albanesi, napoletane e marocchine, dove la lingua madre è imperante a dispetto dell’italiano, e dove è diffuso un senso di superiorità connesso all’appartenenza al paese di origine, considerato migliore e vincente:

“Io quando sto con gli albanesi parlo sempre in albanese, a casa albanese… mia madre dice parlate un po’ di italiano ma noi parliamo albanese… mio fratello non sa parlare italiano. A me sta sul cazzo che certi finocchi del cazzo parlano italiano, ma io dico finocchio del cazzo ma parla albanese.. c’è perché mi dà fastidio che devi parlare italiano per fare il figo, sei albanese parla albanese. Le parolacce sapevo subito in italiano”

“ Parlo marocchino sempre qua, solo a scuola perché ci sono gli amici italiani, ma alla fine sto con i marocchini e parliamo l’arabo…io mi sento sempre marocchino, non sono italiano… la mia lingua è marocchino, non mi interessa se dicono che in Italia devo parlare la mia lingua. Se uno è inglese dicono bravo sai l’inglese… a me nessuno mi dice bravo sai il marocchino… secondo me è perché sono razzisti qua, che gli danno fastidio gli stranieri e se sentono la voce del marocchino, o l’albanese allora non va bene” (M., ragazzo di 16 anni, genitori marocchini, da 12 anni in Italia).

“Io parlo albanese, a casa parlo albanese. A scuola parlo italiano se uno parla solo italiano… mio cugino in prima elementare parlava solo italiano perché sua madre parlava italiano, ma poi si dimentica la sua lingua” (E., ragazzo di 17 anni, genitori albanesi, da 5 anni in Italia).

“Se sei del Ghana dovresti parlare con tuo padre in ghanese.. c’è ma quelli che sono nati qua e vogliono fare gli italiani a me non piace… sei ghanese devi parlare ghanese” (M., ragazzo di 18 anni, genitori ghanesi, da 10 anni in Italia).

Le ragazze tendono ad usare la loro lingua allo stesso modo dei ragazzi, magari con le compagne connazionali in classe o all’esterno, specie quando le frequentazioni amicali sono di stampo monoetnico. A parte le ragazze albanesi, che adottano maggiormente l’italiano nel tempo extra-familiare, le appartenenti alle altre nazionalità considerate fanno uso della loro lingua madre molto spesso, soprattutto per confidarsi con le amiche, ma quasi mai tendono ad usare la lingua in avversione all’autorità o per isolare volontariamente gli altri ascoltatori. Il ricorso alla lingua madre è quindi evidente, ma non assume i caratteri di reattività evidenti nei ragazzi che sentono maggiormente il peso delle valutazioni del corpo sociale, rispondendo in maniera oppositiva alle forme di pregiudizio avvertite nei loro confronti.