I legami che ne scaturiscono producono forme di assimilazione differenti, basate essenzialmente sul rifiuto della condizione di migrante come categoria definitoria:
2.3 L’esperienza italiana negli studi sui figli di migrant
La politica degli stop successiva alla crisi petrolifera del 1974 aveva prodotto, come visto precedentemente, una chiusura delle frontiere dell’Europa settentrionale, causando un’inversione di rotta dei flussi migratori verso il sud del continente. La mancanza di una tradizione politica in materia di immigrazione, la vicinanza ai paesi di emigrazione e la modernizzazione crescente offrivano ai migranti la possibilità di inserirsi nei settori meno appetibili per gli autoctoni, come quello in agricoltura o nei servizi di cura, andando a rimpolpare le fila del lavoro nero che comunque permette di rimanere invisibili agli occhi di una burocrazia non abituata a gestire in maniera lungimirante il fenomeno. L’accesso agli strumenti di integrazione è difatti limitato ai pochi fortunati capaci di decifrare gli assurdi codicilli normativi delle leggi che si succedono nel tempo con l’intento manifesto di trincerare le frontiere.
Si tratta di un’immigrazione nuova rispetto alle precedenti ondate, con flussi estremamente complessi ed eterogenei sia in termini di componenti etniche che di ripartizione di genere. Occupazione precaria, immigrazione al femminile autonoma e numerosità delle provenienze diventano i tratti caratteristici di un processo di insediamento dei migranti basato su meccanismi di integrazione subalterna [Ambrosini 2001], che accomunano Italia, Grecia, Portogallo e Spagna permettendo di parlare di un
modello mediterraneo24 [Pugliese 2002]. Un modello che, oltre ad avere ripercussioni sull’integrazione economica degli stranieri, si traduce in una definizione dei rapporti sociali arbitraria, lasciata alla libera interpretazione delle singole realtà locali.
In particolar modo, in Italia, le migrazioni incominciano ad essere considerate solo recentemente, più precisamente dagli inizi degli anni ’90, quando la questione immigrazione diventa uno dei temi principali della propaganda politica e dell’agenda sociale sulla scia dei primi arrivi di clandestini [Valtolina e Marazzi 2006]. Spaventata e impreparata dinanzi alla portata di questi eventi, l’Italia si trova a confrontarsi con il fenomeno dell’immigrazione in un’ottica negazionista ed emergenziale: se in un primo momento gli sbarchi nelle regioni del Sud e le prime facce “scure” sulle riviere o nei mercati cittadini vengono tollerati sulla base di una presunta sudditanza dell’arrivato, non esente da una vena di pietismo diffuso, la presa di coscienza di un’effettiva presenza sul territorio determina l’acquisizione di un’ottica allarmistica, esasperata volontariamente dalle iperboli giornalistiche e dagli utilitarismi elettorali di alcuni schieramenti politici.
Questa interpretazione genera una criminalizzazione dell’immigrato [Melossi 2002], che si sposta velocemente dagli aspetti giuridici a quelli puramente sociali della convivenza interetnica: la dimensione dei diritti e dei doveri viene negata sulla base di un presunto conflitto sociale, posto in essere dalla società autoctona e determinante per la riproduzione delle appartenenze e dei meccanismi di potere. L’attribuzione di specifiche
24 I paesi qui citati, che vengono considerati come espressione del modello di immigrazione mediterraneo, si caratterizzano per alcuni aspetti evidenziati da Pugliese [2002]:
- in primo luogo si tratta di paesi nei quali, a partire dagli anni 70 l’immigrazione ha sostituito progressivamente l’emigrazione, sebbene quest’ultima non scompaia del tutto;
- in secondo luogo, i primi flussi di immigrazione per lavoro trovano la loro collocazione, almeno in origine e in parte, nel settore agricolo, e questo rappresenta una novità rispetto ai flussi migratori transoceanici o verso il Nord Europa.
- in terzo luogo, questi paesi sono accomunati da un’assenza di legislazione che si traduce inevitabilmente nella diffusione di situazioni di irregolarità.
- un ulteriore elemento che contraddistingue la collocazione lavorativa della manodopera immigrata è l’occupazione nel settore terziario e, in particolar modo, nel lavoro di cura e nei servizi alla persona, determinante nel definire la composizione di genere della presenza migratoria, fatta per percentuali significative da donne, spesso emigrate da sole.
- infine, proprio la peculiarità della collocazione lavorativa, nell’agricoltura e nei servizi e in altri settori e mansioni di basso profilo o ad alto tasso di informalità, determina una convivenza costante di disoccupazione e occupazione di manodopera immigrata.
attitudini devianti su base etnica permette infatti di negare l’umanità dei migranti, legittimando così pratiche di esclusione dalla partecipazione sociale laddove si presuppone che il mancato rispetto delle regole, anche quando solamente supposto, giustifichi la messa al bando dai privilegi garantiti al resto della società civile. Ma come in ogni situazione emergenziale, il porsi in una sola prospettiva finisce per annullare quegli aspetti sociali, che realmente rappresentano il punto di svolta nella gestione delle tensioni e nella determinazione dei rapporti futuri.
Accade così per le seconde generazioni che si affacciano con ritardo in questo scenario, sia per la estemporaneità degli arrivi, sia per la miopia istituzionale e sociale che nega il passaggio da un’immigrazione temporanea ad una di popolamento, con aumenti dei picchi di stanzialità e moltiplicazione delle presenze in tutto il territorio nazionale. Di conseguenza anche gli studi di interesse sociologico tardano ad occuparsi del fenomeno in maniera costante. La maggior parte delle ricerche si sviluppano a partire dalla fine degli anni ’90 e si concentrano principalmente sulla dimensione familiare e sull’inserimento scolastico, dove i minori stranieri erano maggiormente visibili e dove le tensioni iniziavano ad apparire evidenti, specie in relazione alle difficoltà linguistiche e alla programmazione della didattica in funzione di queste. La riflessione si è andata poi ampliando ai contesti esterni della vita dei figli dei migranti, con una crescente attenzione alla gestione del tempo libero, alla costruzione identitaria, alle reti amicali, alla questione, più recente, della cittadinanza [Giovannini 2001; Cologna e Breveglieri 2003; Bosisio et al 2005; Portes 2005; Queirolo Palmas 2005; Callari Galli 2009; Ravecca 2009; Tieghi e Ognisanti 2009; Caneva 2011].
Famiglia
Il ruolo della famiglia nell’analisi delle seconde generazioni italiane acqsita da sbito una centralità rilevante: essa vive in prima linea le difficoltà di un processo di acculturazione, costretta a ridefinirsi costantemente nello sforzo di mediare tra mantenimento dei valori originari e stimoli culturali esterni. Non a caso la letteratura corrente parla di precarietà della vita familiare, in cui isolamento sociale e perdita di controllo educativo rappresentano le conseguenze di una serie di fattori che pongono in una situazione di superiorità i figli. Turni di lavoro spesso eccessivamente lunghi, assenza di vicinato o comunità di sostegno, difficoltà linguistiche generano “un rovesciamento dei ruoli, attraverso il quale i figli assumono precocemente responsabilità adulte nel confronto con la società ospitante, fino a diventare, per certi aspetti, i genitori dei loro genitori [Ambrosini 2004]. Spesso la tensione si manifesta nella trasmissione dei modelli culturali, attraverso cui i genitori cercano di imporsi come autorità parentale, in particolar modo nei riguardi delle figlie femmine, su cui le pressioni conformistiche sono normalmente più forti.
Una delle preoccupazioni maggiori emergenti dalle ricerche sulle rappresentazioni delle famiglie immigrate [Giovannini 2001; Cologna e Breveglieri 2003] è data proprio dal timore di non riuscire ad insegnare ciò che è stato loro insegnato: come sostiene Besozzi “l’educazione ricevuta sotto forma di regole condivise fa da modello alle loro aspettative di padri e madri, ma sembra non avere più forza e senso per i propri figli” [2003]. Molti genitori attribuiscono questa discrasia al modello scarsamente “disciplinare” dell’educazione italiana e mostrano seri timori per i comportamenti imitativi ribelli assunti dai figli [Giacalone 2002; Morgagni 2001]. Alcuni finiscono, per questa incapacità di educare nel nuovo ambiente, per rinforzare logiche pedagogiche probabilmente in disuso nei paesi di provenienza. Anche la crescente attenzione per i figli dei ricongiungimenti si inserisce in questo filone di discrasie educative: arrivati spesso dopo una lunga fase di socializzazione, scolastica e non, all’estero si ritrovano a dover rivedere completamente le proprie certezze, riadattandosi sia ad un ambiente culturale nuovo, sia a
dei genitori nuovi, che magari non hanno mai conosciuto o che vivono con compagni/e non accettati25 [Ambrosini e Molina 2004; Ambrosini e Abbatecola 2010]. Spesso questi
ragazzi cercano il sostegno e l’appoggio in gruppi amicali o elaborano il disagio attraverso azioni illegali [Queirolo Palmas 2002] pur rimanendo per i loro genitori solo dei ragazzi indisciplinati, dei ragazzi con cui non riescono a confrontarsi e la cui educazione relegano alle altre agenzie di socializzazione, come la scuola o la “strada”.Va anche tenuto conto che il passaggio dei figli all’adolescenza, sconosciuto in alcune culture dove c’è un salto naturale dall’età dell’infanzia a quella adulta, è uno dei momenti di maggiore problematicità poiché agli elementi di frattura tra diverse appartenenze culturali si aggiungono quelli attribuiti all’età. Inoltre per molte famiglie immigrate, crescere non indica necessariamente svincolarsi dai legami familiari, né autonomizzarsi implica compiere scelte slegate dalla dimensione comunitaria. Sono le situazioni di dissonanza
generazionale [Zhou 1997] quelle in cui si manifestano disagi maggiori, specie se
avvengono in famiglie dotate di condizioni sociali di partenza svantaggiose e, di conseguenza, di minori strumenti di risoluzione dei conflitti. Gli ambiti di maggior problematicità vengono individuati nel matrimonio (con soggetti appartenenti ad altre culture o soprattutto ad altre religioni), nella religione (come scelta autonoma), nei progetti di rientro nel paese di origine e nel lavoro [Caggiati 1995].
La situazione italiana offre oggi spunti molto interessanti per lo studio delle famiglie immigrate, sia per l’eterogeneità delle situazioni, sia per la pluralità delle appartenenze, che inevitabilmente condizionano le relazioni genitoriali e gli atteggiamenti nei confronti dell’inserimento dei figli nella vita pubblica e sociale italiana. Da una parte ci sono famiglie con rigidi codici culturali, come quelle pakistane o turche e cinesi, che privilegiano contatti con connazionali e che cercano di preservare l’identità attraverso la trasmissione intergenerazionale, dall’altra ci sono giovani donne sole, spesso provenienti dai paesi dell’Est o dal Sud America, impegnate in lavori di cura o nel settore dei servizi, che spesso chiedono il ricongiungimento ai figli dopo alcuni anni, creando così una frattura comunicativa e affettiva che può tradursi in un rovesciamento o discordanza dei ruoli [Ambrosini 2004]. Nel mezzo miriadi di espressioni di gestione dei rapporti familiari creano un mosaico composito di esperienze, che hanno sicuramente attratto le analisi sociologiche di settore. Provando a tracciare un quadro completo delle ricerche sulla dimensione familiare nel processo migratorio, è possibile isolare quattro filoni di studio:
Cultura educativa e ruolo della madre: uno degli aspetti emersi con forza nei primi
anni di radicamento delle famiglie immigrate in Italia atteneva alle modalità educative, alla cura del bambino e alla relazione che la madre migrante stabiliva. Tra le famiglie africane, è ad esempio diffuso, un atteggiamento decisamente meno figlio centrico nei confronti della prole, che invece è assolutamente normale e anzi incontestabile nei popoli occidentali. La centralità del bambino emerge sin dalle prime fasi successive al concepimento, che vengono seguite monitorate costantemente da equipe di professionisti e corpo sociale, per tradursi poi in un’attenzione quasi morbosa nei confronti del nascituro, dei suoi bisogni e di conseguenza delle madri, che devono rispettare tutta una serie di raccomandazioni pediatriche e non per veder riconosciuto il proprio ruolo. Basta questo semplice esempio per capire quanto possa essere difficile scardinare le convinzioni di una comunità in merito alla cura dei figli e alla loro crescita fisica e mentale. Molte ricerche hanno così cercato di capire le difficoltà della maternità a distanza, le paure delle future mamme private di reti familiari e femminili di sostegno, le
25 Emblematico il caso delle donne rumene, o filippine, a cui è negato il divorzio per via della fede cattolica, che scelgono di migrare da sole per scappare da matrimoni fatti di violenza e abusi e che cercano poi di ottenere l’affido dei figli, quando magari hanno trovato nei paesi di arrivo altri conviventi [Ambrosini e Abbatecola 2010].
discrasie tra i modelli educativi nelle prime fasi di vita del bambino, le forme di cura adottate [Balsamo 2003; Simoni e Zucca 2007; Ambrosini e Abbatecola 2010; Vinciguerra 2012]. Non a caso, negli ultimi anni sono stati implementati su tutto il territorio specifici interventi rivolti alla genitorialità migrante: percorsi formativi, materiale informativo plurilingue, programmi di educazione sanitaria, consultori e consulenze specifiche a titolo gratuito, che hanno avvicinato le donne alle istituzioni locali, favorendo di fatto un avvicinamento alla realtà locale positivo e reciproco.
Definizione dei ruoli: la migrazione produce esiti inaspettati sulle singole
individualità, che spesso non vengono considerati o comunque vengono sottovalutati, specie sino a quando i bambini sono molto piccoli. Con l’accesso alla scuola, con l’ampliarsi delle conoscenze e delle relazioni con i pari autoctoni, con la suddivisione sempre meno flessibile dei tempi di lavoro e dei tempi di studio, le logiche familiari perdono quella interdipendenza che caratterizza il rapporto genitori-figli. Come accennato in precedenza, il semplice fatto di essere spesso intermediari dei genitori per sopperire alle difficoltà linguistiche di questi ultimi o di essere responsabilizzati precocemente per offrire ai genitori una mano nella gestione della vita domestica e lavorativa, finisce per influenzare i rapporti di potere che determinano la riuscita educativa in un nucleo familiare. La trasformazione dei ruoli è una delle conseguenze delle migrazioni familiari più studiata proprio perché capace di indebolire la forza educativa parentale, aprendo spiragli di autonomia che possono determinare negativamente l’integrazione nei contesti di ricezione. Un giovane eccessivamente responsabilizzato, che non riconosce l’autorità genitoriale o che la mette in discussione,ha più possibilità di incorrere in percorsi devianti o in pratiche rischiose, ma anche un genitore che vede eroso il suo potere ha un potenziale negativo, laddove è probabile che tenda a rinforzare le barriere con l’esterno, reificando l’identità culturale, e in alcuni religiosa, che rimangono le uniche forme di soddisfacimento del sentimento di appartenenza alla propria comunità [Portera 2003; Andolfi 2004; Marazzi 2005; Boccagni 2009]
Relazioni tra famiglia e istituzioni scolastiche e civili: le famiglie migranti tendono
spesso a delegare le funzioni educative alla scuola, in primo luogo perché per molti di loro la scuola rappresenta l’isitutzione preposta all’educazione prima ancora che all’istruzione dei figli, ed in secondo luogo, perché essa colma l’incapacità linguistica e culturale che inevitabilmente essa sconta in qualità di migrante.
Le relazioni tra mondo familiare e mondo scolastico assumono così una centralità decisiva nell’ambito degli studi sulla genitorialità migrante, essendo un banco di prova delle rispettive posizioni e dei cedimenti che le parti sociali in causa sono chiamate ad attuare per garantire che il processo integrativo delle nuove generazioni si compia come una sorta di partenariato educativo. I genitori migranti vedono inoltre la scuola come uno strumento di acculturazione, capace di sviluppare le potenzialità del bambino e di favorire il suo successo sociale futuro. Contemporaneamente cerca però di mantenere un controllo sull’educazione dei figli che sia rispettoso dei valori e delle norme culturali di cui essi sono portatori. La convivenza e la collaborazione tra le parti sociali in causa diventa così a volte problematica: gli insegnanti lamentano di un’assenza dei genitori migranti dalla vita scolastica dei figli, ad esempio durante i colloqui annuali. Le famiglie trovano invece indecifrabili le richieste della scuola e sentono lontani gli insegnanti dai bambini [Marazzi 2005].
Questa interazione costante ha indirizzato così molti studiosi a concentrarsi sulle dinamiche partecipative dei genitori alla vita scolastica e sugli strumenti adottati dagli insegnanti per favorire la comunicazione con le famiglie immigrate, permettendo la prolificazione di ricerche e studi sull’argomento, che sono state
così messe a servizio delle istituzioni scolastiche per cercare di correggere eventuali errori educativi e per permettere una crescita sociale dei bambini di pari passo con quella dei genitori.
Famiglie transnazionali: il concetto di famiglie transnazionali nasce con la
femminilizzazione dei flussi, ossia con il crescente fenomeno delle partenze di donne adulte che lasciano dietro di sé i figli, affidati alle cure di madri, sorelle, figlie maggiori, più raramente dei mariti, a volte di altre donne salariate, in una specie di catena internazionale di riallocazione dei compiti di accudimento [Ehrenreich e Hochschild 2004]. La percezione dell’anomalia di questa logica migratoria si basa sull’idea di famiglia centrata sul caregiver biologico di sesso femminile e sulla sua totale messa in discussione. La precarietà educativa e la sofferenza della maternità si traducono così in pratiche di mantenimento e coltivazione degli affetti, che creano una rete di legami “transnazionali”, capaci di superare le barriere di tempo e spazio. Le prime ricerche italiane sull’argomento, in cui sono state prese in considerazione le ripercussioni della partenza delle madriper le famiglie rimaste nei paesi d’origine,parlano di modalità diverse di allontanamento e di cura a distanza, modalità variabili di gestione del care shortage, e di una pluralità di strategie di gestione delle relazioni [Banfi e Boccagni 2007]. Sulla base degli studi svolti, possiamo, infatti, distinguere tre tipi di famiglie transnazionali [Ambrosini 2008]: quelle circolanti, caratterizzate da mobilità geografica dal paese di origine verso l’Italia e viceversa, con rientri abbastanza frequenti da parte delle madri, visite e vacanze dei figli in Italia, ma una scarsa propensione al ricongiungimento; quelle intergenerazionali, in cui le lavoratrici-madri sono in realtà spesso già nonne, hanno comunque un’età più matura e figli grandi, contano di rimanere in Italia soltanto qualche anno, cercando di massimizzare i benefici economici del loro lavoro; e quelle puerocentriche, più aderenti all’immagine che ne dà la letteratura sull’argomento: madri con figli ancora giovani, divise da essi da grandi distanze, impegnate nell’accudimento a distanza, orientate al ricongiungimento o all’investimento negli studi in patria [Ambrosini 2008; Bonizzoni 2009; Spanò 2011].
Scuola e bilinguismo
La svalorizzazione delle figure genitoriali, identificate come portatrici di orientamenti culturali lontani, come figure “perdenti” nelle scelte lavorative, come “vecchi” nel loro essere affannosamente indietro nella corsa verso la “modernizzazione”, aumenta la distanza dei figli portandoli a cercare altrove dei punti di riferimento. Le scuole rappresentano luoghi centrali per la crescita e la strutturazione identitaria già per i giovani in generale. Per i ragazzi stranieri essi diventano spesso però l’alter ego della situazione familiare, il limbo della nuova appartenenza e il luogo della propria individualità.
Una scuola però attualmente impreparata ad affrontare le sfide di una società multiculturale, sebbene sia stata la prima a confrontarsi con le difficoltà della tolleranza e dell’integrazione. Essa mostra infatti i reali disagi dei ragazzi stranieri, divisi tra abbandoni, ritardi e scelte di percorsi di serie B: il recente rapporto del Ministero dell’Istruzione sugli alunni stranieri [2011] evidenzia un calo vertiginoso dei tassi di scolarità dai 13 anni in poi, con forti ritardi nella carriera scolastica nelle scuole secondarie di secondo grado e un numero di ripetenti maggiore di quelli italiani in tutti i gradi dell’istruzione obbligatoria, oltre che percentuali molto alte di iscrizione a istituti di tipo professionale e tecnico. L’arrivo in tarda età, la scarsa conoscenza della lingua italiana solitamente ignorata a casa, la collocazione in classi con compagni più piccoli per recuperare le competenze non detenute, l’alta concentrazione di altri compagni stranieri
in alcune scuole, gli errori di valutazione degli insegnanti che interpretano l’incespicare linguistico come carenza intellettuale, determinano sovente scelte future improntate all’immissione diretta nel mondo del lavoro piuttosto che a un proseguimento nella carriera universitaria [Queirolo Palmas 2005].
Tuttavia, proprio l’istruzione e le performance scolastiche rappresenterebbero uno dei fattori predittivi di integrazione sociale. Moltissimi sono gli autori che occupandosi di seconde generazioni hanno dimostrato come la riuscita scolastica, il bilinguismo, rappresentino punti di svolta nella mobilità sociale degli stranieri [Tieghi e Ognisanti 2009] e siano strettamente connessi all’istruzione dei genitori, al capitale sociale messo a disposizione e alla capacità di gestire le diverse identità culturali in maniera positiva. Accanto ad essi non mancano però coloro che sottolineano come proprio la lunghezza della permanenza e l’assimilazione ai modelli giovanili contestuali, appresi solitamente nel circuito educativo, determino invece, oltre che l’abbandono precoce e il rifiuto dell’istruzione, l’assunzione di comportamenti a rischio [Rumbaut 1997].
Altro argomento fortemente dibattuto è quello del bilinguismo e della sua valenza positiva o negativa per l’apprendimento della lingua italiana. Negli Stati Uniti, dove la lingua inglese rappresenta un simbolo di appartenenza e di condivisione sociale, gli studi sul bilinguismo sono numerosissimi. Le posizioni sono ovviamente discordanti. Da una parte ci sono i fautori del bilinguismo, che sostengono che proprio la capacità di