• Non ci sono risultati.

Altri luoghi formali: centri giovanili e associazioni di volontariato

Questa costante tensione e agitazione tra gli studenti si riversava sugli insegnanti, creando situazioni in alcuni casi imbarazzanti: avevo assistito a crisi d

6.2 Altri luoghi formali: centri giovanili e associazioni di volontariato

Seppur con tempistiche ridotte a quelle del mondo scolastico, ero riuscita a realizzare una serie di osservazioni in contesti di ritrovo formale, sfruttando le indicazioni che mi erano state date nella fase di preparazione dai responsabili comunali. Avevo così isolato molteplici realtà locali che si occupavano del tempo libero dei giovani modenesi, offrendo loro spazi ricreativi ed attività di svago sotto l’occhio vigile di adulti preparati e competenti, e scelto di concentrarmi su due ambiti in particolare, entrambi situati nel quartiere Crocetta, zona caratterizzata da un’alta concentrazione di soggetti di origine straniera e di immigrati interni, provenienti principalmente dalla Campania.

Il primo era un centro giovanile chiamato Alchemia, dotato di sale per corsi di danza hip-hop, sale prove per gruppi emergenti, bar “analcolico” e discoteca pomeridiana attiva nel fine settimana. L’altro era invece un doposcuola, gestito da volontari ed educatori, completamente gratuito, offerto ai ragazzini in difficoltà scolastica o bisognosi di essere seguiti nello studio. In entrambi i contesti avevo chiesto ed ottenuto la possibilità di inserirmi in qualità di volontaria per seguire da vicino gli adolescenti di origine straniera, approfittando della possibilità di non rivelare gli intenti della ricerca ed il mio ruolo di osservatore.

6.2.1 Circolo Alchemia

Dopo un colloquio di presentazione con la responsabile del centro di aggregazione Alchemia, avevo iniziato la mia attività di volontaria nei pomeriggi con più attività programmate, che a detta degli educatori erano quelle più frequentate da ragazzi e ragazze straniere. Il centro organizzava, infatti, corsi di ballo, giornate di aiuto per la ricerca del lavoro, attività ricreative per ragazze, sale per la registrazione di canzoni a disposizione delle band emergenti, ma offriva anche uno spazio a disposizione dei ragazzi per chiacchierare, fare amicizia e giocare, grazie alla possibilità di prendere in prestito pattini, palloni o di fare campionati di biliardino, calcio e pallavolo, con tanto di squadre amatoriali.

Durante la mia attività, avevo modo di osservare i ragazzi da una prospettiva privilegiata e di ottenere informazioni sui loro stili di vita da parte degli educatori, approfittando dell’informalità del contesto e della flessibilità delle attività, che garantivano libertà e autonomia ai ragazzi.

Una delle attività di maggior successo era rappresentata dal corso di hip-hop, a cui partecipava assiduamente un gruppo di ragazzi nigeriani. Tra di loro vi erano quattro iscritti alla Cdr, un maggiorenne in cerca di lavoro e un ragazzino che arrivava in autobus da un paesino nelle vicinanze di Modena per ballare con i suoi amici. I ragazzi si impegnavano attivamente nel ballo, creando coreografie e insegnando anche agli altri

compagni passi e movenze, e spesso una volta terminati gli allenamenti rimanevano al centro a chiacchierare e a riposarsi, senza però cercare di conoscere gli altri ragazzi italiani presenti.

Insieme ai nigeriani, assidui frequentatori del centro erano i ragazzi di origini napoletane del quartiere, partecipi quasi ogni giorno sin dall’apertura, concentrati intorno al biliardino, alla tv del bar interno o nel campetto da calcio all’esterno.

Assenti risultavano invece le ragazze: salvo qualche sporadico gruppetto che arrivava al centro solo per cercare gli amici o controllare chi vi fosse, le ragazze stavano lontane dal centro, preferendo le panchine del parco. Avevo chiesto alle educatrici come mai ci fosse questa disparità di genere nella partecipazione alle attività e le risposte che avevo avuto spiegavano il fatto come il risultato di una diffidenza di fondo dei genitori, specie di quelli stranieri, nel mandare le ragazzine al centro per paura che ci fossero ragazzi poco raccomandabili o che non ci fossero abbastanza adulti capaci di controllarle. Come sosteneva un’educatrice, tra i genitori stranieri era diffuso il timore di far crescere le ragazze in contesti così liberi a loro avviso e spesso le stesse volontarie avevano dovuto fare opera di convincimento sui familiari per spingerli a fidarsi di loro e delle loro attività.

Dopo poche settimane di lavoro sul campo, mi ero però accorta di quanto la vita nel centro fosse effettivamente poco proficua per la mia ricerca: al centro arrivavano infatti precise tipologie di ragazzini che mal si adattavano ad una ricerca che mirava a far emergere le varie anime del mondo giovanile straniero. In primo luogo, si trattava di residenti nel quartiere o di ragazzi spinti dalla frequentazione di un corso, come nel caso dei ragazzi nigeriani per l’hip-hop. In secondo luogo, come accennato sopra, mancavano le ragazze e le poche che arrivavano erano spesso restie a parlare con gli educatori e con me, attirate dalla comitiva di ragazzini di turno o da impellenze ulteriori. In terzo luogo, la connotazione del centro era eccessivamente rigida: un bar analcolico, il divieto di fumo all’interno dell’area, l’adozione da parte degli educatori di atteggiamenti paternalistici nei confronti dei ragazzi e la vocazione di ispirazione religiosa del circolo influenzavano necessariamente l’utenza che era così filtrata alla base, escludendo i ragazzi più problematici e paradossalmente più necessitanti di un clima di controllo.

L’esperienza all’Alchemia si era rivelata così ben presto preziosa per la pratica di socializzazione con i ragazzi stranieri, ma poco utile dal punto di vista degli obiettivi della ricerca, tanto da indurmi ad abbandonare il campo dopo circa un mese di attività.

6.2.2 Gavci, Gruppo autonomo di volontariato civile in Italia

Nello stesso periodo di osservazione all’Alchemia, avevo iniziato la mia attività come volontaria al Gavci, un gruppo autogestito da volontari ed educatori, finalizzato al sostegno dei ragazzi e delle ragazze del quartiere Crocetta nello studio e nei compiti a casa. Era bastato un semplice incontro con i responsabili dei volontari per spiegare gli intenti del mio studio e le finalità del mio intervento, che si sarebbe tradotto in una collaborazione attiva da entrambe le parti: dalla mia parte offrendomi come insegnante per i ragazzini più grandi, dalla loro cercando di assegnarmi a ragazzi e ragazze di origine straniera. In questo modo avrei avuto la possibilità di creare delle relazioni confidenziali con alcuni di loro, evitando anche in questo caso di esplicitare la mia posizione di ricercatore.

In realtà, mi ero subito resa conto di quanto fosse difficile conciliare i tempi dello studio dei ragazzini con la possibilità di chiacchiere informali, oltre che con il controllo costante e vigile degli altri educatori più adulti che cercavano sempre di trovare qualcosa da fare ai ragazzi.

Insieme a me, a svolgere il compito di educatori volontari, c’erano anche alcuni ragazzi che stavano completando il percorso di servizio civile: si trattava di ragazzi italiani e di giovani stranieri, alcuni dei quali iscritti all’università come L., una giovane di 24 anni marocchina immatricolata alla Facoltà di Economia o S., una ragazza albanese iscritta a

Lingue. Specie la prima si era rivelata un informatore fondamentale, aiutandomi attivamente sia fornendomi indicazioni sul modo di guardare i ragazzi e le ragazze, sia offrendomi spiegazioni personali delle motivazioni di certi comportamenti.

Esperienze di successo di giovani migranti, inseriti nel tessuto modenese, e impegnati in attività di volontariato sociale, ma anche di insuccesso, come nel caso di B., un giovane di 23 anni nigeriano, che sarebbe diventato papà di lì a poco. B. era un ragazzo poco maturo, molto spigliato e vivace, ma senza prospettive per il futuro, che aveva abbandonato la scuola e che aveva scelto il servizio civile come unica possibilità dopo mesi di disoccupazione.

Le uniche vicende degne di nota avevano riguardato dei colloqui con alcune ragazze marocchine, che usavano L., la studentessa universitaria marocchina, come confidente, grazie anche alla sua abilità nel saperle ascoltare e consigliare. Durante la correzione dei compiti, era capitato più di una volta, che io e L. fossimo sedute allo stesso tavolo e che ci ritrovassimo a parlare con le ragazzine che ci avevano assegnato di ragazzi, feste, amicizie, sesso. In particolare, quando c’erano S. e T., entrambe marocchine di 13 anni iscritte al Barozzi, le ore di studio finivano inevitabilmente per trasformarsi in chiacchierate infinite. Entrambe molto sveglie le ragazze parlavano in continuazione di se stesse, della loro vita, dei loro genitori, offrendo a me spunti interessantissimi su cui concentrarmi. Queste ragazzine parlavano, infatti, molto liberamente di sesso, droghe ed alcol ed in un paio di occasioni avevano chiarito meglio quali fossero i reali comportamenti delle ragazze marocchine:

“Doposcuola con L., insieme alle due amichette S. e T., che già ieri avevano monopolizzato l’attenzione di L. chiedendole consigli su questioni sentimentali. Ho approfittato del clima confidenziale per fare qualche domanda anche io. S. ha raccontato di avere un fidanzato marocchino di 18 anni, che fa il Corni. Ci ha detto che la scorsa settimana non è tornata a casa sabato notte e che ha dormito in stazione dei treni con lui in sala d’attesa. I suoi genitori avrebbero già chiamato un paio di volte i carabinieri, ma lei dice che tanto non gli importa delle punizioni perché poi trova sempre il modo di vedere il suo tipo. Tra l’altro, proprio due giorni fa, L. le ha dato il permesso di allontanarsi dalla sede del doposcuola per raggiungere il fidanzatino al parco, facendosi giurare dalla ragazzina di tornare prima dell’arrivo di sua madre, che ovviamente viene a portarla e prendere al doposcuola per essere sicura che non vada altrove (non ho trovato la cosa molto corretta, ma L. dice che tra loro c’è un rapporto di fiducia e che se può cerca di darle una mano così magari lei evita cose peggiori, come quella di scappare di casa)” (gennaio 2011, diario di campo).

Nonostante queste preziose informazioni, l’attività di volontaria era iniziata a diventare troppo preponderante rispetto a quella di ricercatrice, anche perché una volta esaurite le conversazioni con S. e T., salvo qualche raro episodio, i pomeriggi stavano trasformandosi in ore di solo studio, in cui il dialogo si riduceva a questioni banali. Nello stesso periodo di conclusione dell’attività al circolo Alchemia, avevo così scelto di chiudere anche la mia esperienza al Gavci, scegliendo di ampliare il numero di istituti scolastici per l’osservazione sul campo e la conduzione delle relative interviste mirate.