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Nella zona di confine con la diocesi pisana, nel 1112, un certo Ranieri del fu Aldobrando e la moglie Letizia del fu Bono donarono alla Mensa volterrana «medietatem castelli de Pava in quo ples est edificata et constructa. Desuper cum carbonareis et fossis ita ut circumdatum est vel erit et ibi sunt coniuncte due alie petie terre», beni che confinavano fra gli altri con possedimenti vescovili. L’atto fu vergato «intus castellum Ceule territorio lucense»42. Erano gli ormai noti e consolidati patti-di-mutuo-soccorso castrense, stipulati fra il vescovo e i consorzi dell’aristocrazia locale, che sempre più spesso scorgiamo in aree nevralgiche del territorio, lì dove c’era frizione con le altre Chiese episcopali.

Nella zona al confine fra le diocesi di Lucca e di Firenze la Curia Volterrana si insediò nel 1113 con l’acquisizione di beni presso Montaione: Ildebrando del fu Pogo offrì alla Mensa vescovile tutto quello che possedeva in Pozzolo, nella corte e nel castello, a eccezione di una casa all’interno dello stesso castello e altri beni presso Solepassari e Montaione. L’atto fu vergato presso la pieve di San Regolo, e vi presero parte, in qualità di testimoni, Guido del fu Letulo, Guiberto del fu Alberto e Normannello di Ildebrando43.

Un anno dopo, nel febbraio 1113, Ansaldo del fu Ansaldo, la moglie (figlia di Gerardo), Uberto figlio di Uberto e la moglie Origemma (figlia di Gerardo), Gionata figlio di Aldobrando e la moglie Matilda (figlia di Ugo), Sismondo figlio di Aldobrando e Ghisla del fu Lieto, annuenti i figli Cacciaguerra e Imilda del fu Ugo, col consenso del mundoaldo Gionata, consegnarono al pievano di Morba, agente in vece del vescovo, «una petia terre intus castrum de Monteneo de ambobus capitibus duodecim pedes […] et duo casalini in burgo eiusdem castello» e alcuni terreni loro pertinenti, compresi coloro che li lavoravano, «cum omnia qui ipsi habent et tenent ex parte supradictorum seniorum vel dominorum;

42 AVV, n. 104. Ranieri era forse figlio di Ildebrando e Adalasia e fratello di Romeo, e dunque conte

di Pava. Manca tuttavia l’accenno al titolo comitale. «Ceule» è Cevoli, in diocesi di Lucca (S. Miniato), luogo in cui i vescovi di S. Martino nutrivano cospicui interessi. Negli stessi anni (1109) il presule Rangerio rientrò in possesso, da parte del conte gherardesco Ugo del fu Tedice, di numerosi beni lungo la costa toscana, alcuni dei quali – come Cecina e Bibbona – in diocesi di Volterra. Cfr. Archivio diocesano di Lucca, Diplomatico arcivescovile, †K3.

43 Cfr. AVV, n. 106. Si veda in proposito Franco Ciappi, “Sulle origini del castello di Montaione”,

in Miscellanea storica della Valdelsa, CXII (2006), nn. 2 – 3, pp. 121 – 152. Per S. Regolo cfr. PIEVI, 29.0.

exceptamus et anteponamus quicquid per proprietatem habent et tenent». La datatio topica riporta «actum locus intus castrum de Castillione et territurium voloterense». Castiglion Bernardi era fra le località donate da Pietro IV alla Canonica, ed era stato infeudato dalla Mensa di Santa Maria a Uberto del fu Bello, attivo nell’estrazione di acqua salata e possessore di almeno una fornace. Ancora, infine, si vede agire un pievano in qualità di mediatore per conto del vescovo in un negozio di compravendita castrense44.

Il 7 maggio del 1114, con un rogito atto a Casole, la Diocesi permutò alcuni beni con Bentio fu Gerardo e la moglie Prasma d’Aldibrando: questi ultimi diedero alcuni possedimenti in Monte Albato, presso la fossa e il muro, ricevendo dal presule un terreno fuori dal fossato45.

Da estimatori fecero Bonaccorso di Tederico, Lamberto fu Giovanni e Guittone di Rolando, e testimoniarono l’arciprete Rustico (a riprova della coesione della Chiesa cittadina), Gualfredo di Rolando, Bernardo di Lamberto, Alberto di Guido e Ugo di Pietro.

Nel mentre che la politica espansionistica di Pisa andava avanti46 – tanto avanti che, nel 1116, i Lucchesi si appellarono alla Santa Sede per salvaguardare le prerogative della propria Chiesa vescovile – nella zona nord-occidentale della diocesi Ruggero intervenne nel marzo del 1115 con un corposo negozio concluso con la schiatta dei conti di Pava (purtroppo il supporto pergamenaceo è lacero in più punti): «[…] [de] Fabrica atque Raginerius filius quondam Sicfridi atque Abertus qui […] filius bone memorie Ildibrandi atque Igierrardo filius quondam […] quondam Serazani atque Gofulo filius bone memorie Guidi, Guos[…]ini comes filius bone memorie Binnie» cedettero, per fidecommesso, alla Curia volterrana «cases in castrum et burgum de Montecucari: unam ca[sam prope] burgum, tres casas in Mentezano, una in castrum et due in […] de castrum Arignano». L’atto, vergato «intus suprascripto castrum de Monte Cucari», attesta che, davanti all’avanzata di Pisa, le famiglie

44 La consegna al pievano di Morba in AVV, n. 105. Morba è località in Valdicecina vicino a

Montecerboli, con pieve intitolata a san Giovanni. Cfr. PIEVI, 34.0, e REPETTI, I, pp. 223 – 224, che la registra come Bagni a Morba: erano infatti presenti in zona sorgenti di aqua salsa. Per Monteneo cfr. Ginatempo, “Il popolamento”, cit., nota 124 p. 55. Castiglione è evidentemente Castiglion Bernardi.

45 Cfr. AVV, n. 107 (RV, n. 147). Monte Albato è per me sconosciuto, a meno di non identificarlo,

come fa RV, con Montalbano presso Elci (cfr. PIEVI, 49.8).

46 Si veda Ceccarelli Lemut, “Ad honorem Pisane civitatis. La politica territoriale del vescovo e del

aristocratiche – e così anche i Da Montecuccari – cercavano presso il Gisalbertini alleanza e protezione47.

Ancora in Valdicecina, presso Pomarance, Guido del fu Gerardo e il fratello Giovanni donarono alla cattedrale di Volterra (1115) tutto quello che possedevano «per cartulam» sul poggio di Montecastelli; testimoniarono alla cessione Sabulo decano, Alberto gastaldo (si rammenti che l’atto è vergato a Casole), Ranieri del fu Pontioro e Tebaldo del fu Martino48.

Mentre, nel 1118, Ranieri del fu Postibio e la moglie Sofia del fu conte Tedice, col consenso dei figli Azzo e Arduino, vendettero a Guido pievano di Querceto, il castello con tutte le proprietà, comprese quelle nella villa di Tollena, per 10 lire. Al negozio, compiuto nel castrum di Acquaviva, testimoniarono Ranieri del fu Pietro, Fuscio, Pietro chiamato Gualrada e Riccardo fu Ubaldo49.

Infine, in Valdelsa, il 28 maggio del 1129, il capostipite di una famiglia dei lambardi di Gambassi, Enrico figlio di Villano, insieme alla moglie Binea figlia di Tederico, all’onore del vescovo e dell’arciprete Rustico, donarono alla Chiesa volterrana i propri beni nel castello di Gambassi per il prezzo simbolico di 60 soldi50. Secondo la Duccini, Enrico di Villano era un personaggio che aveva gravitato nell’orbita dei conti Cadolingi, che aveva per loro retto alcuni fortilizi sul versante orientale del Volterrano: siamo perciò in presenza, da parte degli ex vassalli cadolingi, di un importante riposizionamento di interessi dopo la dipartita del conte Ugo; mentre, da parte della Diocesi volterrana, di un ennesimo tentativo di occupare il vuoto che la schiatta comitale aveva lasciato51.

5.4.

La ricerca della legittimità.

47 L’atto è in AVV, n. 110. Fabbrica è l’odierna frazione di Peccioli; Mentezano potrebbe essere

Menzano presso Casole (cfr. REPETTI, III, pp. 191 – 192), ma l’identificazione non mi convince; Arignano è sicuramente Rignano nel piviere di Castelfalfi (cfr. PIEVI, 7.10); per Montecuccari cfr. REPETTI, III, p. 377. Uno dei fidecommessi del conte – Gottulo del fu Guido – era presente, appena un mese prima, a una donazione dell’aristocratico alla badia di Morrona (cfr. AVV, n. 110; Cavallini, II, n. 26).

48 Cfr. AVV, n. 111 (Cavallini, II, n. 24).

49 Cfr. RV, n. 154. Per Querceto cfr. REPETTI, IV, pp. 696 – 698; per Tollena cfr. REPETTI, V, p.

533; mentre per Acquaviva, in Valdicecina, cfr. REPETTI, I, p. 43.

50 Cfr. AVV, n. 117; ed. in Duccini, Il castello, cit., pp. 258 – 259, con datazione inesatta. 51 Cfr. Duccini, Il castello, cit., p. 119.

Con l’estinzione dei Cadolingi si aprì la contesa fra l’Episcopio pisano e quello volterrano per i beni comitali52; le tensioni andarono avanti fino al 1129, quando «Rogerius Dei gratia vulterrensis episcopus ac pisanorum archiepiscopus» tenne un placito presso Morrona53. Dopo che il priore Guido ebbe mostrato i documenti attestanti le proprietà del cenobio di S. Maria, Ruggero, preso atto delle carte, dopo averle esaminate, cedette ai monaci tutti i beni «quas ipse habebat et possidebat de acquisiana curte in vulterrano episcopatus, utpote in Rialto et in Riparossa et in aliis locis»54. Infine due anni dopo, nel novembre del 1130, la stessa Curia pisana acquisì un’altra quota della corte di Acqui per il tramite del conte Guido, che, con una cartula offertionis, consegnò la quarta parte di quello che gli era pervenuto dalla vedova di Ugo dei Cadolingi, Cecilia55. È significativo il fatto che la refuta del ’28

fosse avvenuta nell’ambito di un placito, nel quale il vescovo era accompagnato da notai e causidici che lo aiutavano nella cognizione dell’affare giuridico: Ruggero assumeva su di sé il compito di esercitare la potestas iudicandi, il compito di accertare la verità nell’ambito di una pubblica assemblea e di agire nelle vesti di un pubblico ufficiale investito del banno.

La prima spiegazione che si può dare è che, come nota Wickham, a Pisa e Lucca era rimasta viva la tradizione del placito pubblico; e Ruggero, dal 1123, era appunto presule anche pisano. La seconda spiegazione – che a me pare decisiva – è invece l’utilizzo del placitum come un vero e proprio strumento di legittimazione, di auctoritas; nell’arena dei poteri locali, si poteva scegliere se abbandonare le forme tradizionali della giustizia – come fece il vescovo di Arezzo, pur avendo ricevuto il Comitato aretino alla metà dell’XI secolo – oppure di rivitalizzarle (come per converso fecero i Marchiones): «it was of course logical that one of the most obvious recourses of anyone wanting to legitimate their local political power in the years after c.1100 would be the imitation of the assembly of the placitum generale»56. Sul piano dell’etero-percezione, quindi, Ruggero si metteva sulla scia di Matilde e del suo

52 In particolare quelli presso Morrona (cfr., per una ricostruzione puntuale delle vicende, Pescaglini

Monti, “La plebs”, cit.).

53 Il documento è edito in CAAPi, n. 72, che data al 1228, mentre la nuova datazione dell’atto in AVV

lo vedrebbe redatto nel 1129; ho scelto di non seguire quest’ultima ipotesi giacché il documento riporta l’anno 1229 e l’indizione sesta, che ricorreva nel 1228 (dunque computo pisano).

54 «Rivalto» è Rivalto, nella valle del Cascina e in diocesi di Volterra (cfr. REPETTI, IV, pp. 779 –

780). Le altre località menzionate sono tutte finitime a Morrona.

55 In CAAPi, cit., n. 77, pp. 150 – 151.

56 Cfr. Wickham, “Justice in the Kingdom”, cit.: p. 211 per la tradizione del placito in Tuscia, e p.

modus operandi che, nella memoria collettiva, doveva essere ancora fresco, specie fra coloro che avevano atteso regolarmente alle sue assemblee. In perfetta assonanza si pone la remissione del fodrum alla badia cittadina: con Ruggero non solo questo diritto di ascendenza pubblica è attestato per la prima volta, ma è oltremodo significativo che il presule scelga di disporne a proprio piacimento, donandolo al cenobio di cui era d’ufficio patrono. È dunque possibile affermare che la Curia volterrana si percepiva ormai come l’autorità che, in forza dei suoi privilegi e diplomi, era chiamata a fare le veci del potere pubblico (gestire i tributi e amministrare la giustizia), in ulteriore avvicinamento verso una dominazione a carattere territoriale57.