David Herlihy ha affrontato la gestione della proprietà ecclesiastica in studi differenti, legati però da un comune filo rosso che proverò a richiamare brevemente2. Lo studioso
1 Cfr. “La signoria del Vescovo di Luni”, in “Alle origini della Lunigiana moderna”, Memorie della Accademia Lunigianese di Scienze, Lettere ed Arti Giovanni Capellini, LX-LXI (1990), pp. 29 – 59. 2 “The Agrarian Revolution in Southern France and Italy 801-1150”, in Speculum, XXXIII (1958),
pp. 23 – 41; “The history of the rural seigneury in Italy, 751-1200”, in Agricultural History, II (1959), vol. 33, pp. 58 – 71; “Church Property on the European Continent, 701-1200”, in Speculum, XXXVI
americano parla di una crescente secolarizzazione delle proprietà vescovili, che «had grown at an extraordinary rate in the late eighth and ninth centuries»; tuttavia, a cavallo del X secolo, si verificò una «outright loss of land on the part of Church», una vera e propria «secularizing wave» con la quale gran parte del patrimonio fondiario degli enti ecclesiastici cadde in mani aliene3. Ma non tanto – o non solo – a causa delle violenze, quanto per la propensione chiamata disinvestment, la «growing tendency on the part of the great lords to sell, or to lease under favorable terms in return for a money payment, large portions of their manors. They were in fact moving to liquefy and spend the capital represented by their manors»4. L’effetto della parcellizzazione dei grandi manors carolingi avrebbe provocato,
secondo Herlihy, l’impennata di permute e vendite dell’XI secolo, di modo che parte della ripresa economica successiva sarebbe derivata dal tentativo di tamponare l’inefficienza fondiaria. Ma attraverso quali canali si consumò la dismissione delle possessioni delle Diocesi? Per Lucca, risponde Herlihy, attraverso carte ad censum persolvendum che, a differenza di quelle ad fictum, prevedevano canoni monetari. «La loro frequenza cresce col procedere del secolo IX e nel secolo X sono, senz’altro, la forma più comune di affittanza». Il proprietario, allivellando il terreno dietro un censo che costituiva «solo una piccola e probabilmente insignificante parte della vera rendita della terra», di fatto ne cedeva ad altri la proprietà. Di qui, rileva Herlihy, nacque la veemenza dei canoni imperiali contro la pratica del livello, «un mezzo col quale i grandi signori terrieri (specialmente ecclesiastici) distribuivano e diminuivano le loro dotazioni fondiarie [e] la proprietà ecclesiastica era frequentemente usurpata». Se il livello arrecava «una virtuale perdita di proprietà per il concedente ed una riduzione del suo reddito, […] la locazione ad fruges oppure ad partem [i. e.: quella in natura] portava “miglioramento ed aumento delle entrate”»5.
Le considerazioni di Herlihy sono in linea con quelle esposte da Philip Jones: anche per lui l’indebolimento della Chiesa cittadina passò attraverso le contrattazioni di livello. «La posizione economica del vescovo – scrive Jones – non era molto forte: le sue proprietà risultavano disperse nelle mani dell’aristocrazia laica e le sue rendite da fitti erano fisse e di
(1961), pp. 81 – 105; “L’economia della città e del distretto di Lucca secondo le carte private nell’alto medioevo”, in Lucca e la Tuscia nell’alto medioevo, cit., pp. 363 – 388.
3 Le cit. in “Church property”, cit., pp. 88 e 93. 4 “Rural seigneury in Italy”, cit., p. 66.
modesta entità», in quanto «si esigevano solo canoni fissi, spesso puramente nominali […] Le concessioni si facevano quasi sempre al beneficiario e ai suoi eredi, ed erano, in pratica, perpetue, [dimodoché il livello] equivaleva in sostanza a una alienazione della terra»6. Il cerchio è stato chiuso da Duane Osheim, il quale mette in chiaro come le clausole che imponevano la residenza sul terreno allivellato da parte del concessionario «were dropped»7. Coloro che lavoravano la terra, rileva Osheim, prendevano in affitto una casa e la terra annessa; chi prendeva più case, invece, non era un coltivatore diretto. Ai membri dei ceti più elevati erano allivellate anche chiese dotate di fonte battesimale, per le quali si richiedeva, oltre al censo, anche l’officiatura8. «In this way, control of local churches, their lands, dues
and tithes passed into the hands of laymen», in un contesto nel quale «the bishopric lost control of much of its land and many of its pievi».
Mentre la prima ragione individuata è di carattere familiare (attraverso i negotia si cercava di favorire l’ascesa e la successiva fortuna della propria prosapia), la seconda è di natura coercitiva: i presuli erano materialmente o, in maniera figurata, dalle circostanze costretti ad agire in questo modo, al punto che, è stato affermato, «the episcopal administration was passive, reacting to the changes and conditions created by others»9. Eppure, essendo quello curtense un sistema «flessibile», permaneva l’opzione di una politica mirante a «sviluppare la piccola azienda contadina a spese del settore di conduzione diretta». Il cliché del vescovo- preda dei laici più esperti di cose mondane mi sembra in conclusione non più idoneo a rappresentare una realtà in cui «les seigneurs sont des agents économiques susceptibles de prendre des décisions informées, conscients en tout cas de leurs revenus et l’évolution de
6 “Le terre del capitolo della cattedrale di Lucca (900-1200)”, in Economia e società nell’Italia medievale, Einaudi, Torino, 1980, pp. 275 – 294 (orig. in The Economic History Review, VII (1954),
pp. 18 – 32), pp. 277 e segg.
7 Cfr. An Italian lordship. The bishopric of Lucca in the Late Middle Ages, University of California
Press, Berkeley, Los Angeles, London, 1977, p. 11. Su tutte le problematiche relative alla terra si veda comunque il sempre indispensabile Elio Conti, La formazione della struttura agraria moderna
nel contado fiorentino, I: “Le campagne nell’età precomunale”, “Studi storici”, 51 – 55, ISIME,
Roma, 1965, pp. 7 – 79.
8 Cfr. C. Violante, “Le strutture organizzative della cura d’anime nelle campagne dell’Italia
centrosettentrionale (secoli V-X)”, in Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica delle
campagne nell'Alto Medioevo: espansione e resistenze (Atti del convegno, Spoleto, 10 - 16 aprile
1980), Settimane di Studio del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo. 28/2, CISAM, Spoleto, 1982, pp. 963 – 1158.
ceux-ci»10. In seconda battuta, se anche l’uscita dall’orizzonte del grande manor significò l’alienazione di alcune terre, il fenomeno era nelle cose, necessità indispensabile per quel gioco politico e sociale che assicurava il mantenimento dell’auctoritas episcopale. E non impediva che, dismettendo porzioni di territorio non più funzionali, l’attenzione dell’Episcopio si concentrasse e su zone più nevralgiche e su strumenti più congeniali dei livelli alle nuove esigenze politiche e sociali.