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Vescovado e cenobio dei Ss Giusto e Clemente.

In una situazione di relativa scarsezza documentaria quale è quella dell’XI secolo, passare al vaglio le donazioni elargite dal Vescovado alla badia dei Ss. Giusto e Clemente fondata da Gunfredo consente allo storico di avere una certa idea sulla qualità, la quantità e la disclocazione dei nuclei patrimoniali dell’Episcopio. Si apprende per esempio che la gestione dei beni vescovili era in parte condotta – non si sa in chie misura – attraverso patti vassallatico-beneficiari probabilmente non scritti (come si vedrà a suo luogo).

Il vescovo Guido concesse nel 1039 un primo insieme di beni al monastero, dopo aver attribuito a Gunfredo il merito di aver nobilitato in maniera decisiva l’area sepolcrale dei santi titolari della fondazione monastica («quamvis enim precipuorum veneratione confessorum locus fuisset eximius usque tamen ad nostri predecessoris felicis memorie Gunfredi tempora incultus iacuit et inordinatus permansit. Prelibatus igitur antistes monasterium ibi fieri decrevit adhibitis in eodem loco fratribus et venerabili abbate constituto qui usque ad nostra tempora Domino donante perdurat vite necessaria in quantum valuit studiose ministrare curavit»). L’opera che Gunfredo aveva cominciato Guido volle proseguire («quecumque Gunfredus felicis memorie episcopus eidem prelibato monasterio concessit ego Guido episcopus confirmo»): di Gunfredo si celebrava il nobile retaggio, a cui il successore si richiamava per riceverne idealmente il testimone. L’arenga del documento, che si esprime con toni abbastanza simili a quelli impiegati da Jacopo di Fiesole (e. g.: «ad reparandos ecclesiarum mihi commissarum honores»), è seguita dal dispositivo con cui Guido elargiva al cenobio «medietatem de una ecclesia cui vocabulum est S. Michaelis Arcangeli que est posita a Corbano simul cum terris et vineis que fuit Astolfi filio Iohannis […] alia integra ecclesia in Geminiano cui vocabulum est Sancti Fridiani simul cum curte et terris et vineis ad istam curtem pertinentibus donicatis qui fuit Astulphi filii Ioannis et Gorizi, et Zacio et Alberti germani filii Benni […]». A questo aggiunse proventi acquisiti successivamente («post aliquantum vero temporis») nel territorio della pieve di Scola,

41 «Così, mentre i Gheradeschi preferirono concentrare i propri interessi nelle aree dove si

raccoglievano i loro possessi, in città il vescovo riprese e sviluppò il suo ruolo» (Ceccarelli, “Le strutture del potere”, cit., p. 21).

ovvero la metà della curtis e di tutto quello che «Albertus noster castellanus in Casule iussus est habere et possidere». Infine il prelato concesse, oltre alle decime Certalla, Riparbella, Vallelunga e Floridi, «beneficiium quod idem Albertus iussus est habere in plebe de Casula»42.

Da tenere in conto è innanzitutto la profonda valenza ideologica del gesto: così come il Regno si faceva difensore della fede attraverso la tutela e la dotazione delle fondazioni monastiche, allo stesso modo intendeva agire il Vescovado di Volterra. Ma il documento testimonia soprattutto le nuove acquisizioni che la Curia era riuscita a mettere a segno alcuni anni prima del 1039. Nel 1032 Gunfredo aveva fatto siglare a Cunerado Ranculo del fu Rodolfo una repromissionis pagina con cui quest’ultimo, previo il pagamento da parte della Diocesi di 10 soldi d’argento, s’impegnava a non «contendere nec retollere nec minuare nec recollegere» i redditi e le decime della pieve dei Santi Giovanni e Felicita di Scole. Inoltre, entro pochi giorni Cunerado avrebbe dovuto mostrare il livello di pieve al presule; se fosse riuscito a recuperarlo e a esibirlo con l’efficacia garantita dall’ostensio chartae, il concessionario avrebbe dovuto agire «ad serviendum [Gunfredo] illa portione de predicta decimatione»; in caso contrario, avrebbe dovuto refutare la pieve alla Curia (il che probabilmente avvenne). Il verbo servire evoca infine quella termionologia che sovente ritorna nei patti di Grosslibell e di natura vassallatico-beneficiaria («componente essenziale di questi feudi sono i diritti di decima spesso connessi col patronato della chiesa»), e forse proprio patti di tal guisa vigevano fra il Vescovado e il castellano episcopale a Casole, Alberto: dalle parole usate dal vescovo sembrerebbe quasi che il feudo tenuto da Alberto costituisse l’elemento reale legato all’esercizio della carica di castellano di Casole43.

42 Il documento è edito in GIACHI, Appendice, XVIII. Secondo la Ceccarelli (“Cronotassi”, cit., pp.

39 – 40) Guido fu in carica dal 1044 al 1061. Corbano era sulle pendici del colle volterrano (cfr. PIEVI, 55.28), così come anche San Frediano (cfr. PIEVI, 55.34); la pieve di Scola, il cui abitato era a 5 miglia da Casole d’Elsa (cfr. REPETTI, IV, pp. 238 – 239), era dedicata a san Giovanni (cfr. PIEVI, 48.0). Certalla, Riparbella, Vallelunga e Floridi sono localizzabili sulle pendici volterrane: me ne dà ragione Mori per Certalla (dove esisteva un altare dedicato a san Quirico: PIEVI, 55.29) e per Riparbella (altare dei Santi Jacopo e Filippo: PIEVI, 55.44). Vallelunga è invece un toponimo ancora esistente presso la valle del fiume Era (RV, a p. 421, registra: «im obern Eratal»), alle pendici appunto della città; mentre mi è impossibile dire qualche cosa su Floridi, forse Fiorli presso le pendici volterrane.

43 La trascrizione della repromissionis pagina in Inghirami, I più antichi documenti, cit., n. 45 (AVV,

Il già solido legame fra l’Episcopio e la badia si rinforzò ulteriormente, allorquando (1053) il presule concesse in locazione all’ente monastico un appezzamento prospicente alla città («sortem in loco a Querce»), per il quale l’abate avrebbe dovuto corrispondere ogni 5 giugno, festa di San Giusto, un censo di 28 denari. Se da un lato è vero che attraverso atti di questo tenore gli enti ecclesiastici sanzionavano legami e stringevano alleanze, dall’altro è altrettanto innegabile che la firmatio del vescovo Guido assume una funzione di ribadimento della subordinazione del cenobio alla Sede vescovile44.

Col cenobio questo presule concluse infine una permuta nel 106145. Il vescovo e i canonici,

spinti da un comune intendimento («bona voluntate inter domno Wido eiscopus sedis S. Marie ecclesie volaterrense una insimul et canonicis ipsius episcopatus»), donarono all’abbazia «integro monte et poio illo, qui vocatur Montenibio, qui est prope monasterio», ricevendo in cambio alcuni appezzamenti lì vicino. Poiché nelle sottoscrizioni i vertici di Episcopio, badia e Canonica si trovano l’uno accanto all’altro, è da ritenere che Ss. Giusto e Clemente costituisse un nuovo polo che i presuli avevano a disposizione per legare a sé – e manutenere i legami con – tutti gli elementi ragguardevoli dell’ecclesia volterrana.

L’impressione è confermata dall’elargizione che Pietro IV compì nel 1099, accondiscendente anche in questo caso l’intero clero diocesano («presentia presbiterorum, diaconorum, seu inferioris ordinis clericorum»): si trattava di «decimatione de curte de castello de Castellione qui iam fuit Uberti quoddam Belli per beneficium ex parte Sancte Marie ecclesie voloterrense» e di altri appezzamenti fondiari46.

44 Il livello con i Ss. Giusto e Clemente in RV, n. 124. Dopo la morte del marchese Bonifacio e il

ricco diploma elargito da Enrico III nel 1052 alla Chiesa volterrana, l’equilibrio dei poteri si era oltretutto spostato ulteriormente in favore del vescovo (cfr. Falce, Bonifacio, cit., I, p. 144; e Davidsohn, Storia, cit., I, pp. 287 – 288). Esempio di legami sanciti fra enti monastici è un livello del 1040 fra San Pietro di Monteverdi e Giovanni vescovo di Lucca: l’abate Azzo allivellò a Giovanni una serie di altari e terreni per un censo meramente simbolico di 36 denari l’anno, in un negozio che probabilmente scaturiva dal cambio di vertice alla Corte imperiale: nel gennaio del 1040, infatti, dopo la morte di Corrado II, i grandi della Tuscia si erano recati ad Augusta, in Germania, per rendere omaggio al nuovo sovrano Enrico. L’atto relativo a Monteverdi è edito in Barsocchini-Bertini,

Memorie, cit., V, n. 90, pp. 129 – 130. Cfr anche Giuliani, “Il monastero”, cit., p. 23, la quale però

riconduce il negozio alla possibilità per l’abate di «poter ricavare denaro liquido».

45 RV, n. 127. Ed. in Rena-Camici, Della serie, cit., II, pp. 102 – 104, n. 13.

46 È necessario puntualizzare che anche in analoghi lasciti pii agli enti cittadini figuravano

possedimenti appannaggio dei laici, senza che ciò denunciasse una volontà di salvaguardare, mettendolo in mani sicure, il patrimonio ecclesiastico. Anzi, la concessione in livello (o in beneficio)

Le decime del castello di Castiglion Bernardi vengono qui – esplicitamente – dichiarate come infeudate (forse insieme al castello stesso) dal Vescovado a Uberto del fu Bello47, il quale deteneva i redditi dell’altare castrense certamente a margine di un altro Grosslibel come quello già menzionato del 1086. In quest’ultima circostanza lo stesso presule aveva allivellato a Ugo del fu Guido gli altari dei Ss. Pietro e Giovanni a Paratino (presso Bibbona), dei Ss. Quirico e Giovanni a Caselle e di S. Maria sullo Sterza (presso Querceto), comprendendo anche le entrature di alcune ville e dei rispettivi pivieri, ma eccettuando

della decimazione di una cappella o di una pieve costituiva uno dei raccordi più praticati fra Curia ed elementi localmente eminenti. Ed. in Puglia, “Forme e dinamiche”, cit., pp. 32 – 34. La trattazione a pp. 24 e segg.: «il fatto che nel documento, come oggetto di donazione, siano menzionati dei beni che precedentemente erano stati dei beneficia di laici, getta luce su un tratto peculiare dell’azione pastorale di Pietro: concentrare in un ente ecclesiastico di primo piano e legato al potere vescovile i beni che il vescovato stesso aveva ceduto a laici, durante il presulato dei predecessori».. Che l’abbazia avesse sviluppato un sistema di gerarchie feudali o para-feudali si vede da altri due documenti (cfr. Cavallini, I, nn. 110 e 111): nel 1096 alcuni fratelli firmarono prima una

repromissionis paginacon cui s’impegnarono, dietro il pagamento di 20 soldi, a non contendere il

possesso di alcuni terreni del monastero; dopo, in un breve recordationis, l’abate ricevette il loro giuramento di fedeltà: essi gli promisero di aiutarlo – tranne che, si badi, contro il sovrano, il marchese o il vescovo – a difendere gli stessi terreni di prima, e ne ricevettero altri in beneficio. Siccome la cifra di alcune decine di soldi ricorre spesso negli atti in cui qualcuno firmava a favore dell’abate una repromissionis pagina, non mi sento di escludere che brevia di infeudazione fossero la prassi a margine di questa pratica documentaria. L’edizione della pagina repromissionis e del

breve recordationis, interpretati da Puglia come «un vero e proprio rapporto feudale messo in atto

con gli strumenti documentari “classici”» è disponibile in Idem, “Tre documenti”, cit., pp. 42 – 43 (la cit. è a p. 40). Analogamente, nel 1099(ed. in Gennai, I più antichi documenti, cit., n. 51) Uberto e Manso del fu Corrado giurarono, dietro la corresponsione appunto di 20 soldi, di non ostacolare il cenobio «de decimatione de curte de castello de Castellione qui iam detinentes fuit Uberto quondam Belli ex parte Sancte Marie eclesia voloterrense» (Uberto e la moglie Schinbana, «filia quondam Tebaldi», «pro Dei timore et remedium anime nostre et de genitoris», offrirono al monastero «integram nostram portionem de sex petiis de terra» (documento datato al marzo 1105, da me consultato nel fondo Badia presso la biblioteca Guarnacci). Anche la sorella di Uberto, Malocta, offrì ai Santi Giusto e Clemente alcuni beni (stesso fondo, settembre 1105). Verosimilmente, attraverso le donazioni le pratiche gestionali della Diocesi erano passate anche agli altri enti, che adesso si valevano delle relazioni vassallatico-beneficiarie per amministrare i propri possedimenti.

47 Castiglione è Castiglion Bernardi, su cui cfr. REPETTI, V, p. 706. La donazione di Uberto in

Carocci, I più antichi documenti, cit., n. 38. Per Sambria cfr. PIEVI, 55.46. Egli anno prima Uberto fosse entrato in relazione col monastero cittadino attraverso una grossa donazione: egli, «pro Dei timore et remedium anime mee et remedium anime de genitore et de genitricis mea», aveva donato «integra una fornace cum fundamento et edificio et instrumento de ipsa fornace de meam portionem de una petia de terra cum mogia et puteo super se abentes qui est posita in loco ubi dicitur Mogia de Valli que Patringnoni est vocatur». L’atto fu vergato dal notaio Ildebrando «intus castello de Sambria territurio voloterrense», ovvero presso Zambra. Erano dunque proprio i signorotti clientes della Curia a investire nel sale, con veri e propri impianti estrattivi (fornaci, pozzi e strumenti vari) i quali – si può ritenere – richiedevano forti investimenti per essere messi in piedi, e dai quali ci si aspettava guadagni ancora maggiori.

espressamente i mortuaria e alcuni generi di offerte come le primizie. Non è a prer mio insensato identificare il beneficiario della concessione con l’omonimo attore del negozio del 15 maggio del 1097 stipulato all’interno dello stesso fortilizio di Castiglion Bernardi, dove Ugo e la moglie Bellica promisero al prete Gerardo del fu Rustico, al fratello Lamberto e a Guido, Teuzzo e Ugo, figli del fu Pietro, di non molestarli nel possesso di un terreno presso «Savanano»48.

4.4.3. I Rustichi.

È in ispecial modo nalizzando dando uno sguardo alle vicende della domus dei Rustichi attraverso le carte conservate presso il Diplomatico dell’Archivio della Guarnacci che è possibile rendersi conto del ruolo di vera e propria calamita esercitato dalla badia cittadina nei confronti degli elementi eminenti del Volterrano. Un Ranieri del fu Rustico nel 1075 comprò «octava portione de integra de curte et de castello […] in loco et finibus ubi dicitur Ghello quod dicitur a Laiatico una cum ipsa ecclesia beati Sancti Andree et Sancti Petri» con 1/8 di tutti i beni antistanti al castello49. Nel 1086 Ranieri vendette a Pietro del fu Bagarotto

alcuni terreni per il valore di 8 soldi, ricevendo il denaro pattuito dalle mani di Bondie del fu Veneri. Quest’ultimo agì da intermediario anche quando pagò a un prete – ancora per conto di Pietro del fu Bagarotto – 20 soldi di argento perché non molestasse alcuni possedimenti situati a Sorbano, ceduti con una precedente vendita50. Fra i testimoni figura Atizzo della fu Passarella, molte volte in relazione col cenobio cittadino e sposato con una certa Berta, insieme alla quale fece quietanza di non molestare Bondie nel possesso di beni a «Riondori».

48 Il Grosslibell è in Carte dell’Archivio di Stato di Pisa, II, cit., n. 33. Per Ugo del fu Guido cfr.

Natale Caturegli, Regesto della Chiesa di Pisa, “Regesta chartarum Italiae”, ISIME, Roma, 1938, n. 214. Per la pieve di Bibbona e Caselle cfr. PIEVI, 1.0 e 45.0. S. Maria sullo Sterza è in quest’ultima voce assimilata alla pieve di Querceto. «Savanano» è per me sconosciuto

49 Se da un lato il sospetto che si trattasse di un prestito su pegno fondiario viene se si considera che

l’acquirente dichiarò di aver ricevuto «spata una in prefinito», dall’altro c’è la stipula di un prestito in cui un (forse) altro membro della famiglia risulta creditore di tre lire («se però prima della festa di Tutti Santi saranno restituite lire 3 soldi 2 di moneta lucchese la proprietà ritorni ai sopradetti fratelli»). I documenti rispettivamente in Gennai, I più antichi documenti, cit., n. 24 (la compravendita); e in Cavallini, I, n. 61 (il prestito).

50 I documenti in Gennai, I più antichi documenti, cit., nn. 31 e 32. Sorbaiano è non lontano da

Montecatini Valdicecina, nel piviere di Sant’Eleuterio di Gabbreto (cfr. REPETTI, V, p. 430; PIEVI, 17.8 e 17.9).

Nel 1086 Ranieri del fu Rustico testimoniò al Grosslibell di Pietro IV in favore di Ugo del fu Guido, mentre i fratelli Ildebrando, Bonifacio e Alberto, dal castello di «Cavallare», donarono al monastero dei Ss. Giusto e Clemente, per il rimedio dell’anima dei genitori e del fratello defunto Berardo, un terreno a «Iunciano51. Un altro fratello, insieme al figlio Pietro, nel 1088 donò alla badia un fondo a Montise, luogo di numerosi possedimenti del Vescovado. L’anno successivo Ranieri – evidentemente il primogenito dei fratelli – diventò mundoaldo della cognata Guitta, vedova di Bonifacio, la quale fece dono alla Canonica di beni situati ad «Arancolla» (Roncolla). I fratelli Rustichi testimoniarono poi (1095) in una cartula offertionis in favore del cenobio periurbano, e nel 1099 Ranieri offrì alla badia un terreno «per suffragio proprio e dei genitori»52.

Nel 1120 Ranieri è attestato ancora come possidente fondiario nella donazione fatta in favore della Canonica dalla vedova del notaio Oddo. Si tratta di beni situati in luoghi finitimi alla città (come Porta a Selci), che confinavano peraltro con terreni di Gerardo di Sambria, personaggio collegato ai Lambardi di Staggia53. Dal quadro appena tratteggiato si evince che la badia dei Ss. Giusto e Clemente aveva creato le condizioni per attirare verso Volterra (e verso il patrono del cenobio) la devozione e le donazioni pro anima dei notabiliores del contado, fra cui i Rustichi.

4.5.

Uno sguardo d’insieme.

Quanto esperito dai vescovi volterrani durante l’XI secolo fu un ulteriore mattone aggiunto alla costruzione di un’egemonia locale e regionale. In primis, i presuli perseguirono una vigorosa politica di triangolazione con i lambardi del territorio, sia concedendo loro – come nel caso di Pietro IV – corposi livelli di pieve (e possedimenti in beneficio), sia instaurando

51 La quietanza in Cavallini, I, 1093, n. 98; il Grosslibell in CAAPi, cit., n. 33. Non so se Azzo figlio

di Rustico di buona memoria, che presenziò a quest’ultimo livello vescovile e a negozi compiuti nel 1095 (Cavallini, n. 101) e nel 1095 (Cavallini, n. 102), sia lo stesso figlio di Passarella. L’impegno a non molestare si trova in Cavallini, I, n. 97. Forse «Riondori» sta per Radicondoli (per cui cfr. REPETTI, IV, pp. 716 – 719), ma credo l’identificazione poco probabile. L’offerta pro anima è in Gennai, I più antichi documenti, cit., n. 36. Iunciano è forse Julliano nel piviere dei Santi Simone e Taddeo a Radicondoli (cfr. PIEVI, 46.3 e Augenti, “Un territorio”, p. 128), ma l’identificazione non mi persuade; Cavallare è località presso le pendici volterrane (cfr. PIEVI, 55.26).

52 I documenti in Gennai, I più antichi documenti, cit., n. 37; Cavallini, I, nn. 89, 101, 126. Arancolla

è Roncolla in Valdera (cfr. REPETTI, IV, p. 816) per mancata discrezione della preposizione locativa dal toponimo.

condomini di castello in fortilizi collocati in punti strategici, come quando Erimanno, stando presso Sasso in Valdicecina, allivellò a Ghisolfo del fu Brenci la metà del castello di Gello a prezzo di un censo puramente ricognitivo.

Questo stesso presule fu molto attento anche all’aspetto devozionale della sua carica: a lui la Chiesa volterrana dovette l’aggancio con la Riforma e il dialogo con Giovanni Gualberto. Ma anche la competizione con le schiatte di ex ufficiali pubblici è spia di un’accresciuta influenza sulle clientele laiche e di nuove capacità di reazione militare: mentre di fronte agli Aldobrandeschi la Curia fu costretta sostanzialmentea cedere, seppure protetta dal principio della inviolabilità della res sacra, dopo il confronto con i Cadolingi il vescovo Guido riuscì ad acquisire un vantaggio strategico nella Valdelsa e nella parte orientale della diocesi.

La Curia volterrana seppe cogliere in pieno l’importanza delle fondazioni monastiche, facendosene essa stessa fondatrice, come nel caso della badia periurbana dei Santi Giusto e Clemente, avallando gli Eigenkloster signorili e impedendo che questi ultimi sorgessero troppo vicino alla civitas. Infine, al momento in cui il rapporto sempre più stretto dei Gherardeschi con Giovanni II da Besate provocò il disimpegno dei conti dal Volterrano, Enrico III intervenne concedendo ai presuli un importante privilegio che, seppure ancora lontano dai toni che sarebbero stati adoperati dagli Svevi, immetteva i vescovi di Volterra sul binario di un’effettiva supplenza regia.

5.

L’episcopato di Ruggero Gisalbertini: la svolta signorile.

L’episcopato di Ruggero può essere interpretato, per una serie di fattori in parte congiunturali e in parte strutturali, come un punto di svolta in senso signorile dei poteri del vescovo di Volterra. Il primo dato da tenere presente è la situazione generale della Tuscia nell’ultima fase dell’XI secolo: con l’indebolimento della Marca cominciò un inesorabile declino di quegli strumenti che avevano assicurato un governo – piò o meno efficace, ma sempre presente – sulle forze del territorio1. È questo un assunto che le brillanti puntualizzazioni di Chris Wickham hanno ormai consolidato: «solo la crisi della Marca rese la politica signorile ampiamente accessibile ai proprietari terrieri ed ecclesiastici»2. I primi a investire nel nuovo corso furono coloro che erano più abituati alla gestione della cosa pubblica: «fino al 1100, i conti – e anche i vescovi, che avevano pure una notevole esperienza in termini di governo – sono in assoluto le persone più associate ai riferimenti relativi ai diritti signorili nei documenti»3. Detto altrimenti, l’eclissi della Marca portò in Tuscia la

possibilità, per i soggetti che a vario titolo si stavano arrogando prerogative pubbliche, di venire allo scoperto senza il timore che chi di quelle prerogative era il legittimo titolare avesse da recriminare.

Potremmo dire che si trattava di un complesso articolato: da un lato stava la costruzione dei castelli, in pendant con la militarizzazione sempre più marcata delle aristocrazie locali, che fungevano non solo da base effettiva da cui esigere prestazioni e tributi una volta riservati al publicum, ma anche da efficaci strumenti attraverso i quali tessere alleanze (si ponga mente ai patti de placito et de besonnio). Dall’altro si trovava quel bagaglio immateriale, ma non per questo meno prezioso, fatto di tutti quegli usi e quelle pratiche che si legavano al ricordo ancora forte della presenza marchionale: penso per esempio al placito, l’assemblea pubblica