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L’operare di Ruggero non fu squisitamente periurbano: sappiamo da una bolla vescovile successiva che il presule indirizzò una lettera al pievano di Radicondoli con la quale gli concedeva la quarta parte delle decime di pertinenza della Curia19. Poiché Radicondoli è nella parte sudorientale della Diocesi, con lo sguardo rivolto verso Siena, si potrebbe forse collocare l’interesse di Ruggero per questo territorio nel momento in cui egli si trovò a dover fronteggiare i Senesi, e ad allacciare nuovi rapporti con le aristocrazie della zona, primi fra tutte i Pannocchieschi20.

et anime sue remedio donat et relaxat». Prendo la trascrizione dall’Index membranarum archivii

abbatiae SS. Iusti et Clementis compilato da don Gherardini e conservato presso la biblioteca

Guarnacci (inv. 9335), al regesto n. 89. Sottoscrissero per la precisione il vescovo Ruggero, l’arciprete Rustico, Pagano prete e primicerio, Pietro prete, Glandolfo prete, Ranieri diacono, Alberto suddiacono, Guido accolito, Enrico cantore e Benzo «patronus causarum». Presenziano invece Gerardo fu Belliccia, Azzo fu Teuza, Ugo fu Brunello, Gotto fu Alberto, Ranieri di Domenico, Giovanni fu Guido.

16 «Oblationes omnes eiusdem ecclesie preter ceram et oleum a bone memorie Benedicto videlicet

Ermanno et Rogerio, Vulterranis episcopis, canonice vobis concessas». Cfr. Pflugk-Harttung, Acta

Pontificum Romanorum, III, n. 54.

17 Ed. in GIACHI, Appendice, XXI; cfr. RV, n. 148. Si potrebbe pensare che la località sia già, a

quest’altezza, il coagulo dei seguaci della Diocesi, a cui i vescovi concedevano parte della Mensa vescovile.

18 Cfr. Cavallini, II, n.35.

19 Ed. in Vittorio Lusini, “Una bolla”, cit., p. 263. 20 Cfr. Davidsohn, Storia, cit., I, pp. 600 – 601.

Il 5 maggio 1115 l’archivio di San Ponziano di Lucca ci riporta la conferma col bacolo dell'elezione di Leonardo da Lucca come abate di San Cassiano di Carigi: il neoeletto, secondo la Regola di san Benedetto, avrebbe dovuto prestare obbedienza e riverenza al presule21. Ma se Carigi si trovò saldamente sotto la supervisione della Curia, non altrettanto avvenne per la badia dell’Isola: con l’abate di Staggia, Ruggero si scontrò avocando alla Sede volterrana «ordinationem e consecrationem» del cenobio. Come sostiene Cammarosano, c’è da ritenere che il presule «non si limitasse a pretendere il diritto all’ordinazione sacra dell’abate eletto, ma volesse subentrare alla famiglia dei patroni in tutto il suo potere di insediamento e investitura, occupando il vuoto istituzionale che si era aperto con l’estinzione della discendenza maschile del fondatori»22. Anche se l’offensiva di

Ruggero fallì, a causa del sostegno della Santa Sede alla libertà del cenobio rispetto all’autorità episcopale, abbiamo un'idea delle volontà e capacità nuove che la Curia stava mettendo in campo: controllare i monasteri significava non solo disporre dei loro beni e delle loro relazioni con gli elementi notabiliores del territorio, ma anche gestire elementi fondamentali nella costruzione delle signorie a base locale.

5.2.

Tendenze centrifughe a S. Gimignano.

La Santa Sede aveva sostanzialmente impedito a Ruggero di mettere le mani su San Salvatore di Staggia, ma essa non gli lesinò il proprio aiuto nei confronti delle spinte autonomiste di San Gimignano. Essendo la richiesta d’aiuto al pontefice la prima azione documentata del Gisalbertini, il prelato si trovò ad avere a che fare con una realtà già compromessa al suo arrivo, che gli stava probabilmente sfuggendo di mano. Anche se il dominio vescovile sulla città-borghigiana era salvaguardato da due fortificazioni, una sul già noto monte di Torre e l’altra presso Montestaffoli, le due lettere di Pasquale II ci dicono che la presa sulla zona era sempre più precaria: la prima, non datata ed edita dal Mansi, era diretta apertamente ai milites del borgo affinché costoro tributassero «fidelitatem humilitate debita» al vescovo Ruggero, e permanessero «in ecclesiae obedientia et servitio, sicut ratio exigit»23.

21 Cfr. Archivio di Stato di Lucca, Diplomatico, San Ponziano, ad annum. 22 Cammarosano, Abbadia, cit., p. 81.

23 Nel mezzo fra Torre e Staffoli si ergeva l’abitato, cinto – a cavallo tra XI e XII secolo – da una

cinta muraria di oltre 1100 metri di perimetro: ciò faceva «di San Gimignano un centro castellano di dimensioni, all’epoca, medio-grandi». Stopani, San Gimignano, cit., p. 34. Montestaffoli, in

Da ciò scaturisce l’impressione che i fideles del Vescovado costituissero la sua curia vasallorum, fatta da coloro che, secondo l’uso lombardo, nonostante le cautele imposte dallo scarso impiego del sostantivo in Toscana a quest’altezza cronologica, si potrebbero definire i capitanei del prelato24.

Nel 1104 la località fu oggetto di un secondo ammonimento papale25. Possiamo dividere la missiva in due sequenze principali: nella prima, la Santa Sede ordinava che San Gimignano, «cum monte Stafili, iuxta posito, et cum universo territorio», non potesse essere alienato «a possessione et proprietate voliterrensis ecclesie», il che richiama il carattere territoriale della coniuratio nell’accezione che ne dà Tabacco: espressione di interessi comuni nell’ambito di un territorio condiviso26. Si può altresì ritenere che gli oppidani perseguissero avvalendosi

delle piazzeforti e facendosi ragione con le stesse opere di difesa approntate dalla Diocesi27. Purtroppo, non solo non è possibile stabilire se la coniuratio fosse ancora a un livello latente, ma non si sa neppure se effettivamente esistesse28. E però un ulteriore indizio che i vassalli del vescovo si fossero riuniti in una societas lo fornisce la seconda parte della lettera, nella quale il pontefice prescriveva il divieto di «in feudum persone alicui dare, locare, vendere,

particolare, «si elevava alla sommità della collina sul cui versante orientale sorgevano sia San Gimignano che il castello del vescovo» (ibidem). La lettera papale in Giovanni Domenico Mansi,

Sacrorum Conciliorum Nova Amplissima Collectio, Firenze-Venezia, 1758-1798, p. 1097.

24 Su questo cfr, S. Collavini, “I capitanei in Toscana (secoli XI-XII). Sfortune e fortune di un

termine”, in La vassallità maggiore del Regno Italico. I capitanei nei secoli XI-XII. Atti del Convegno, Verona 4-6 novembre 1999, Viella, Roma, pp. 301 – 324.

25 Il doc. è in AVV, n. 91, ed è ed. da Julius von Pflugk-Harttung, Acta Pontificum Romanorum Inedita: Urkunden der Päpste (748-1198), Tübingen-Stuttgart, 1881-1886, II, n. 216.

26 “La storia politica”, cit., p. 146.

27 «Se per un verso [il castello] può funzionare come strumento signorile di dominio, per altro verso

può trasformarsi in un elemento di forza della popolazione che vi si appoggia. Ciò avviene sia che si tratti di una fortezza puramente signorile, entro il cui riparo e presso le cui difese la vicinia ed il borgo crescono demograficamente e si irrobustiscono sul piano organizzativo, sia che si tratti di una cerchia muraria destinata fin dall’origine a proteggere una collettività rurale, in quanto sorta per convergente iniziativa della collettività e di un signore fondiario» (Tabacco, “La storia politica”, cit., p. 164).

28 Per la definizione cfr. Giuliano Milani, I comuni italiani, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 24 – 26.

Milani desume il concetto di «istituzione latente» dall’antropologia: l’aggettivo indica una fase in cui, a causa delle defezioni a cui spingono le prime difficoltà dei nuovi assetti politici, «l’istituzione può scomparire per riformarsi, eventualmente, nel momento in cui si trovi un nuovo accordo tra i membri che sono rimasti e quelli che se ne sono andati» (p. 24).

commutatione vel pignoratione contradere» la zona, o di alienarla a qualsiasi altra potestas, chiesastica o secolare; «semper – si chiosa alla fine – in proprio ecclesie iure permaneat».

Se si postulano «interessi comuni» alla base della coniuratio militum, interessi germinati, cresciuti e maturati nell’humus del patrimonio vescovile, è giocoforza vero che, se quest’ultimo fosse passato in mani aliene, quegli stessi interessi sarebbero saltati29. O

quantomeno deperiti. Eccoché la conditio sine qua non, cara tanto ai vassalli quanto a Ruggero, era che San Gimignano rimanesse appannaggio della Mensa volterrana. Si consideri inoltre la limitazione potentissima che i milites avevano imposto a Ruggero: di fatto, il prelato non avrebbe potuto più disporre iure proprietario – come invece il diploma del 929 sanzionava – del territorio, non avrebbe più potuto venderlo o darlo in beneficio. Se lì per lì questo sembrò un successo di Ruggero, di fatto la Chiesa volterrana doveva tenere per sé poggi e borgo per l’interesse dei suoi clientes.

5.3.

Le aristocrazie del territorio.

Nella politica del Gisalbertini i castelli ebbero un peso determinante. Egli fu il primo presule che non solo colse a pieno l’importanza militare e politica dei fortilizi, ma che anzi ne fece il perno della propria azione sul territorio. Con il governo di Ruggero, la Diocesi venne in possesso di una vera e propria miriade di castra, che servirono sì da argini all’espansione di vicini ingombranti (come Pisa), ma anche da laboratori d’interazione fra Curia e aristocrazie locali, in concomitanza con la fine dell’uso dello strumento giuridico del livello, di cui Ruggero si servì una sola volta: l’11 marzo del 1126, il prelato allivellò ad Alberto fu Antonello, Bonatto fu Martino e Giovanni fu Teuzo terre dentro la villa di Santa Fiora, al canone di 6 denari da versare per Santo Stefano alla pieve di Castello30.