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Per quanto mi è stato possibile appurare, fino all’anno Mille si conservano una cinquantina atti di livello, fra Canonica e Diocesi; all’interno di questo numero, i livelli vescovili ammontano a circa una trentina. «Die Einkünfte des Bistums, wie jedes grösseren Eigentümers, bestanden hier hauptsächlich aus den Abgaben der teilweise unfrein Libellars», ha scritto Fedor Schneider. Lo studioso tedesco nota cursoriamente che: a) «die Entstehung des Bischofsbesitzes ist nirgends bekannt», e che probabilmente risaliva all’epoca longobarda, allorché Liutprando aveva accordato «the legitimation of gifts to the Church»; b) che «die Pachten sind ohne Ausnahme in kleinen Geldbeträgen festgesetzt, in Durchschnitt zahlt das Pachtgut, die sors oder res massaritia, 12 Denare»; c) che «Zahltag ist allgemein der 15. August, Mariae Himmelfahrt»11.

I nuclei fondiari del Vescovado erano concentrati intorno ad alcune chiese, fungenti da centri domocultuli d’amministrazione, o «capoluoghi curtensi», per citare Pierre Toubert, in cui i concessionari dovevano andare una o due volte all’anno ad iustitiam faciendum. Cinzio Violante nota che «la dispersione delle terre pertinenti alla “curtis” era tale, che molte di esse giacevano parecchio lontano dal centro curtense padronale e più vicino invece al proprio

10 La prima cit. in Pierre Toubert, “Il sistema curtense: la produzione e lo scambio interno in Italia

nei secoli VIII, IX e X”, in Economia naturale, economia monetaria, a c. di R. Romano e Ugo Tucci, “Annali della Storia d'ltalia”, VI, Einaudi, Torino, 1983, p. 71. La seconda in Laurent Feller, “Calculs et rationalités dans la seigneurie médiévale: les conversions de redevances entre XI et XV e siècles”, in Bulletin du centre d’études médiévales d’Auxerre, BUCEMA, 2010 (al link www.cem.revues.org/11645), p. 2.

11 Cfr. “Bistum und Geldwirtschaft”, cit., pp. 88 – 89, da cui le cit. in tedesco. Quella in inlese è tratta

da Wickham, Early medieval Italy: central power and local society, 400 – 1000, Macmillan, London, 1981, p. 43

centro di organizzazione ecclesiastica»12. Si tratta come si vede del medesimo problema (il rapporto fra cura d’anime e gangli curtensi), affrontato dal versante opposto.

Anche se non si può stabilire con certezza se l’organizzazione curtense ricalcasse quella ecclesiastica, o se fosse l’inverso, è certo che da nuclei amministrativi funzionavano sia cappelle (nel caso, per esempio, di Sant’Eusebio, sede in seguito di una fondazione canonicale) che pievi (San Giusto). Possiamo per questo addurre ragioni pratiche, legate alla «pesantezza dei vincoli di ordine tecnico ed economico imposti dalla modalità e dei costi di trasporto»13, che imponevano agli attori economici di ricercare il luogo più vicino e

funzionale alla raccolta dei censi, avvantaggiandosi della pervasività della rete della cura animarum; dopodiché si può ipotizzare che i singoli edifici di culto, dopo il 713 (penso a Sant’Ottaviano e San Giusto, legate ai santi cittadini), siano diventati collettori di massicce donazioni di terreno, riorganizzato sulla ratio curtense14. Ma soprattutto non si può non tenere conto della territorialità dei poteri che il vescovo, o chi per lui, esercitava sulla popolazione gravitante intorno alla curtis, e che tornava naturale estendere nello spazio a quanti erano compresi nella circoscrizione dell’edificio ecclesiastico viciniore al centro curtense. Infine, tralasciando il problema specifico del rapporto curtis – ecclesia, non è illogico pensare che i manors nella parte nordorientale della diocesi (ad esempio

12 Cfr. Toubert, “Il sistema”, cit., p. 71. Cfr. Inghirami, I più antichi documenti, cit., anno 904, doc.

n. 2: «censo ad curte et ecclesia Sancti Eusebi».

13 Limitazioni che «spiegano in buona parte le vicissitudini subite dai patrimoni, le loro amputazioni,

le loro divisiones, […] Anche nei periodi nei quali non c’era affatto una situazione di crisi, essi hanno influito in maniera decisiva sulla struttura delle grandi proprietà e sulla destinazione delle loro eccedenze». Toubert, “Il sistema curtense”, cit., p. 65.

14 Sant’Eusebio (cfr. Duccini, Il castello di Gambassi, cit., pp. 36 e segg.) è nel piviere di Santa Maria

a Cellole. Di Sant’Eusebio si conservano 6 livelli. In Inghirami, I più antichi documenti, cit.: 904, n. 2 (AVV, n. 6); 907, n. 3 (AVV, n. 8); 908, n. 4 (AVV, n. 9); 923, n. 5 (AVV, n. 12); in RV: 957, n. 34; 959, n. 35. San Giusto era la pieve preesistente alla badia sul monte Nibbio. Nell’atto di fondazione all’ente monastico fu concesso il fonte battesimale e la decima pertinente (cfr. Maria Elena Ducci, “La giurisdizione spirituale della Badia dei SS. Giusto e Clemente a Volterra dalla fondazione al XIII secolo”, in Rassegna Volterrana, LXXV (1998), pp. 145 – 158). Di San Giusto abbiamo cinque livelli. In RV: 951, n. 31; 976, n. 57 (ed. Furiesi, “Le pergamene più antiche dell'archivio di Badia: note di toponomastica volterrana”, in Rassegna Volterrana, LXXIII-LXXIV (1996-97), pp. 21 – 52, doc. n. 4); 981, n. 65 (ed. Furiesi, “Le pergamene”, cit., doc. n. 6); 1001, n. 92 (ed. Furiesi, “Le pergamene”, cit., doc. n. 8); 1007, n. 102 (ed. Furiesi, “Le pergamene”, cit., doc. n. 9). Di Sant’Ottaviano ci rimangono quattro livelli. In RV: 882, n. 9; 907, n. 14; 959, n. 35; 986, n. 69 (quest’ultimo fatto dall’arcidiacono della Canonica, Anselmo). In più, nel 980 (n. 63; ed. Furiesi, “Le pergamene”, cit., doc. n. 5), si parla di alcuni mansi facenti capo a Sant’Ottaviano.

Sant’Eusebio) fossero derivati da appezzamenti fiscali, in una zona, come quella valdelsana, che ne era particolarmente ricca. Gli altri livelli riguardano uno la chiesa dei Santi Giovanni e Felicita a Villamagna, due San Magno di Montalcinello, uno San Jacopo in Valdelsa, e uno San Giovanni, a ridosso di San Gimignano15.

In praticamente tutti i contratti d’affitto vige come detto l’obbligo della iustitia – la verifica dell’adempimento degli obblighi contrattuali da parte del concessionario – da presentare al vescovo o al suo incaricato, «auctore» o «ministeriale». Sono numerosi i casi in cui al livellario viene imposto di risiedere nel fondo, insieme magari alla melioratio dell’unità fondiaria e alla messa in piedi di una casa: nel 929 si chiese la costruzione di una capanna o di una casa, entro l’anno, in un fondo con «casalino» già tenuto a conduzione da due fratelli massari; analogamente l’obbligo dell’edificatio fu sancito nell’882, e sarebbe ritornato nel 949. Molto spesso si fa cenno alla terra domincata della curtis, ma, ancora più spesso, a essere ceduta a livello è la res massaricia16.

15 «Nella Val d’Elsa troviamo poi sia sulla riva volterrana che su quella fiorentina grossi possedimenti

statali», nota F. Schneider in L’ordinamento pubblico nella Toscana medievale. I fondamenti

dell’amministrazione regia in Toscana dalla fondazione del regno longobardo alla estinzione degli Svevi (568-1268), a c. di Fabrizio Borbolani di Montauto, Casse di Risparmio della Toscana,

Papafava, Firenze, 1975. Orig.: Die Reichsverwaltung in Toscana von der Gruendung des

Langobardenreiches bis zum Ausgang der Staufer (568-1268), Loescher, Roma, 1914. Anche Renato

Stopani (San Gimignano nei secoli X-XII: da "luogo detto" a città, Centro Studi Romei, Firenze, 2005) parla di «cospicui possedimenti statali esistenti in Valdelsa» (p. 30) derivanti dalla centralità che la zona aveva per le comunicazioni e i traffici dell’alto medioevo. Per San Jacopo, nel piviere di San Gimignano, cfr. PIEVI, 20.4. Il documento in Inghirami, I più antichi documenti, cit., 946, n. 9 (AVV, n. 20). Villamagna: RV, 972, n. 50 (cfr. Mori, “Le pievi”, cit. (d’ora in poi: PIEVI, col numero di griglia assegnato dall’autore), 54.0). Per San Magno cfr. PIEVI, 50.13; i documenti in: Inghirami,

I più antichi documenti, cit.: 997, n. 28 (AVV, n. 28); 1005, n. 34 (con data inesatta; AVV, n. 44).

Per San Giovanni: cfr. PIEVI, 20.4, nel piviere di San Gimignano; il documento in Inghirami, I più

antichi documenti, cit., 946, n. 9 (AVV, n. 20).

16 Cfr. RV, n. 9 (882): l’oggetto della concessione a livello sono proprio terre dominicate; AVV, n.

8 (907; ed.. Inghirami, I più antichi documenti, cit., n.: 3: «terra dominicata de ipsa curte»); AVV, n. 16 (943-4; ed. Inghirami, I più antichi documenti, cit., n.8: «curte mea dominicata»); AVV, n. 20 (946; ed. Inghirami, I più antichi documenti, cit., n. 9: «terra et vinea illa dominicata»); AVV, n. 21 (950; ed. con datazione anticipata in Inghirami, I più antichi documenti, cit., n. 10: «ad manus dominicata»); AVV, n. 28 (982; ed. in Inghirami, I più antichi documenti, cit., n. 19: microtoponimo «Aia Dominichi»); AVV, n. 29 (984; ed. con cronologia sfalzata in Inghirami, I più antichi

documenti, cit., n. 20: «excepto et antepono exinde oliveto quas ego qui supra Petrus episcopus ad

meum donnicatum teneo»). Di certo «la parola “donnicatum” continua a essere usata, ma è di incerto significato – e dove non conserva un valore puramente convenzionale, sta a indicare soltanto gli edifici o le terre non concesse a titolo di feudo o di libellus» (Jones, “Le terre del capitolo”, cit., p. 287).

Riguardo ai massai, appartenenti al gradino diastratico più basso, vincolati alla terra, indipendentemente dal suo gestore, e insieme alla terra ceduti, si può notare che essi portavano spesso nomi terminanti con la desinenza –ulus, che dagli specialisti è stata ricondotta alle classi servili. Sopra questo strato sociale stavano i coltivatori diretti, formalmente liberi, per i quali il contratto di livello era stato, come sostiene Andreolli, lo strumento della «graduale decadenza» verso l’asservimento. Andreolli nota al proposito che, se in un primo tempo i negozi livellari erano stipulati esclusivamente con non-coltivatori, in epoca carolingia tali pratiche contrattuali vennero estese anche ai coltivatori diretti, in una situazione che divenne anzi la norma, giacché il Diritto aveva seguito la decadenza economica e sociale di una massa di liberi fagocitata dalla grande proprietà, specialmente ecclesiastica. Si può così constatare l’«ambiguità concreta della condizione di numerosi affittuari del tempo, il cui status giuridico, in una età in rapida evoluzione, appariva difficilmente catalogabile»17. Ciò è per esempio vero nel livello concesso nel 974 dal vescovo Pietro, riguardante due cascine affittate per 18 denari: una di esse era stata lavorata da «Manno clericus» (quindi, ex ordine, uomo libero), e ora lo era dal figlio; altro esempio è la menzione di «Iohanni fabro massaio»18.

Analogamente a quanto succedeva a Lucca, il canone medio era di 12 denari (o suoi multipli e sottomultipli), cifra che ritorna anche Firenze, dove Dameron nota che «annual dues (census) in the leases and libelli were money payments». Si può inoltre sottoscrivere quanto osservato da Antonella Ghignoli per Pisa: è vero che la maggior parte dei contratti imponeva il versamento dei censi ad agosto, per la festa di Santa Maria; ma si trovano sporadicamente attestate anche altre festività, come San Martino (11 novembre) e San Giusto (5 giugno)19.

17 Cfr. Andreolli, Uomini nel Medioevo. Studi sulla società lucchese dei secoli VIII-XI, Patron,

Bologna, 1983, pp. 53 e segg. E. g.: «Barulo massario» e «Benulo massario» (AVV, nn. 21 e 24; ed. in Inghirami, I più antichi documenti, cit., rispettivamente n. 10 (datato all’anno precedente) e n. 13). Nel secondo, il massaio insediato al momento dell’atto era figlio di un chierico, il quale aveva avuto a propria volta a conduzione la terra).

18 In RV, 996, n. 86.

19 Cfr. Episcopal power, cit., p. 63. Gli atti in RV, 948, n. 28; e 951, n. 31 (ed. in Furiesi, “Le

pergamene”, cit., doc. nn. 2 e 3). «Il censum è sempre in denaro ed è quindi probabile che la scelta del mese assegnato ai singoli livellari fosse determinata da una razionalizzazione delle entrate, cercando di garantire una loro affluenza regolare e continua. Le attestazioni dei livelli vescovili del secolo IX darebbero invece l’impressione di una cadenza bimestrale delle raccolte. I risultati sui documenti, più numerosi, del secolo X ci convincono a pensare valida anche per il IX la possibilità che i versamenti si potessero verificare presso l’Episcopio mensilmente: che, in altre parole, potesse

Questo fa pensare che anche a Volterra i presuli e i loro visdomini si adoprassero per avere a disposizione un flusso più o meno contante di denaro in periodi più o meno fissi dell’anno. Tirando le somme di quanto osservato, la gestione delle possessioni fondiarie del Vescovado volterrano non si discosta dalle tendenze comuni anche alle altre Chiese toscane.

3.2.

La Chiesa e la società all’ombra del Vescovado.

Durante il periodo in esame, la Curia si avvantaggò dell’essere punto di riferimento e di coordinamento di una vasta fascia di popolazione eminente, costituita da notai, giudici ed ecclesiastici. Costoro vedevano nelle relazioni con il vertice vescovile un binario verso l’affermazione sociale, mentre il sostegno garantito ai vescovi dava un ritorno in termini di manzioni e cariche d’alto rango, di carisma-di-carica promanante dal vertice episcopale e di cessioni (di altari e terreni) fatte in loro favore dalla Curia a mezzo di contratti livellari. Infine, nei rapporti fra Vescovado volterrano e società cittadina (e non) si colgono preziose analogie con altri casi toscani, in primis quello lucchese, caratterizzato dai cosiddetti patti de placito et de besonnio. Cominciava sostanzialmente a prendere corpo, come si vedrà a suo luogo, quel gruppo cosiddetto capitaneale, fatto di famiglie eminenti i cui membri erano dislocati in posti chiave della Chiesa cittadina e servivano i presuli in qualità di milites.