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I livelli di pieve individuabili nella documentazione volterrana sono tre, tutti e tre a chierici. Il primo riguarda l’altare dei Santi Quirico e Giovanni a Sillano, allivellata nel 945 per 12 denari all’anno. Molto più corposo fu il contratto stipulato con Camarino e la sua famiglia (in tutto quattro fratelli), antenati dei «lambardi de Nira». La pieve di Tresche (Santi Lorenzo e Giovanni) fu concessa a questa famiglia con tutti i suoi redditi, «excepta terra in circuito plebis», compreso il circondario della decimazione. Camarino, figlio del visdomino

esserci mensilmente un placito del vescovo o del suo avvocato per raccogliere censi, fare contratti (analogo risultato si ottiene osservando le date della documentazione) e altro. Si capisce perché si potesse dire di inviare gli uomini alla corte episcopale una, due, tre volte all’anno». (A. Ghignoli, “Libellario nomine: rileggendo i documenti pisani dei secoli VIII-X”, in Bullettino dell’Istituto

Storico Italiano per il Medio Evo, CXI (2009), pp. 1 – 57, nota 164 p. 56). Per la preponderanza dei

versamenti il 15 d’agosto, festa dedicata alla Vergine, cfr. quanto affermato da Dameron: «the authority of the bishop was indistinguishable from that of the saint; it required obedience and assent» (Episcopal power, cit., p. 62).

Everardo attestato in attività dal 947 al 960, fu canonico, e poi anch’egli visdomino nell’ultimo quarto del X secolo. Questo particolare tipo di funzione, che sarebbe stata trasmessa nella famiglia ancora per alcuni anni, portò estrema fortuna ai componenti della casata, tanto da permettere loro di incastellare l’abitato di Nera20. Il terzo contratto fu

stipulato col prete Teuzzo, figlio del chierico Veneri; la chiesa che vi si menziona è quella di San Michele in Foro, allivellata con la pertinenza di un pezzo di terra. In tutti e tre i negozi dianzi ricordati vigeva l’obbligo per il concessionario di assicurare la liturgia21.

I presuli ebbero peraltro a disposizione anche le possessioni di Sant’Ottaviano, in quanto, benché avesse raggiunto l’autonomia patrimoniale nel 918, anche dopo questa data si trovano beni della Canonica – che era «de sui iure Episcopatui» – gestiti, amministrati e

20 Data la scarsità documentaria, non sono in grado di precisare se la concessione della pieve di Nera

possa essere concepita come un «feudo d’ufficio», anche se l’espressione, usata da Sassi in relazione al territorio di Trebbiano in Lunigiana, appannaggio dei visdomini dei vescovi di Luni (cfr. “Vicedomini e gastaldi del vescovo di Luni”, in Giornale storico e letterario della Liguria, III (1927), pp. 155 – 160), pare decisamente troppo forte per la fattispecie volterrana. Penso sia più verosimile considerare la concessione della pieve di Nera alla famiglia di Camarino come la sanzione di una solidarietà politica.

21 L’assunto è l’affermazione del potere dei presuli sulla rete ecclesiale del territorio, che permise di

definire la chiese battesimali «per loro stessa essenza “vescovili”». Cfr. Violante, “Le strutture organizzative”, cit., pp. 1078 e segg. Per la pieve di Sillano cfr. PIEVI, 49.0. Il doc. della Nera è in RV, 979, n. 60; sul dorso, riporta lo Schneider, si legge «hoc scriptum refutaverunt longobardi de Nira». Cfr. pure A. Puglia, “Aspetti politici e sociali della signoria vescovile a Volterra tra X e XII secolo”, in Medioevo in Valdera, a c. di Antonio Alberti, Quaderni Rete Museale Valdera, 3, Bongi, San Miniato, pp. 87 – 114, p. 103. La località è incastellata in RV, 991, n. 81: «intus castello de Nera territurio voloterrensis». Per Camarino cfr. Inghirami, I più antichi documenti, cit., p. XXX, e lo schema in Ceccarelli, “I rapporti tra vescovo e città”, cit., pp. 163-165. L’ultimo doc. in Inghirami, I

più antichi documenti, 987, n. 21 (AVV, n. 21). Ma solo il secondo di essi possiamo considerare

come Grosslibell, una di quelle «concessioni dell’intero patrimonio fondiarie e/o di tutti i vari proventi (decime, offerte, oblazioni) di pertinenza di una chiesa pievana […] a persone che da altre fonti risultano come appartenenti a un ceto sociale elevato e molto spesso dotate anche di ricche proprietà». Cfr. Amleto Spicciani, “Concessioni livellarie e infeudazione di pievi a laici (secoli IX – XI)”, in Nobiltà e chiese, cit., pp. 183 – 197 (la cit. è da p. 183). I legami dei presuli coi singoli membri del collegio canonicale sono stati al centro dell’indagine di M. L. Ceccarelli, la quale ha messo in evidenza che moltissime pievi della diocesi erano allivellate a canonici, e che spesso intorno a esse si coagulavano e si perpetuavano vere e proprie dinastie di chierici e diaconi (cfr. “I rapporti tra vescovo e città”, cit., Appendice). «These leases created and solidified political and clientelar alliances between the bishop and the most important arch-priests in the region. Leases of tithes and property by the bishops to the chapter also consolidated close ties between the two» (Dameron,

allivellati direttamente dal presule22. Nel 980, Pietro III concesse un importante livello al figlio del diacono Veneri, Flurizzo (identificato dal matronimico), che già dal 968 era detentore di alcuni beni capitolari: il presule consegnò al figlio di Veneri ben 6 cascine, di cui tre pertinenti alla chiesa cittadina di San Vitale, e 4 terreni, di cui tre ubicati dentro la città di Volterra, e di cui almeno uno dominicato. Un altro figlio di Veneri, Teuzzo prete, fu beneficiario della già rammentata chiesa di San Michele in Foro23.

Se al quadro sommariamente dipinto si aggiunge che la carica di visdomino del Vescovado fu per alcuni anni (almeno fino al 1014) appannaggio dei componenti della famiglia di Camarino, canonico del Capitolo della cattedrale, si ha l’impressione di un’indubbia intesa fra Episcopio e Canonica sia per quanto riguardava il patrimonio, sia per i legami di solidarietà personale24. Tale sintonia fra i due enti cittadini fu sancita dalla donazione che Pietro III elargì a Sant’Ottaviano nel 975, nella quale, per rimedio della propria anima, e «considerans necessitudinem hanc nimia paupertatem kanonicorum», il prelato donò «integro casalino et fundamento illo qua iam fuit casa et curte domnicata seu ecclesia hubi vocitatur a Sancto Georgio, que est prope fluvio Cecina et prope moiaregi»25.

22 Cfr. p. es. RV, 959, n. 35. Sulla Canonica cfr. Ceccarelli, “I rapporti tra vescovo e città”, cit., p.

145. Il primo atto considerato dall’autrice è del prete Leopardo, custode di Sant’Ottaviano, che venne sottoscritto dal vescovo e da Camarino.

23 I documenti in RV, nn.: 63, 44 e 73. Gli estremi dell’episcopato di Pietro III sono 966 – 991 (cfr.

Ceccarelli, “Cronotassi, cit., pp. 32 – 33).

24 Per l’albero genealogico dei discendenti di Everardo visdomino (completo fino al 1014) cfr.

Inghirami, I più antichi documenti, cit., p. XXX.

25 Il doc. in Inghirami, I più antichi documenti, n. 16, con datazione errata (AVV, n. 27). Lo studio

più recente sulle moie è di Stefano Filaroni, “«De aqua salsa moiarum». Origine ed evoluzione della manifattura del sale volterrano nel medioevo (secoli XI-XIV)”, in Bollettino Storico Pisano, LXIX (2010), pp. 3 – 128. Cfr. anche Angelo Marrucci, “Minerali utili: salgemma e argento”, in Ottone I

e l’Europa. Volterra da Ottone I all’età comunale. Catalogo della mostra, 2 settembre – 4 novembre

2001, Volterra, Palazzo Minucci Solaini, a c. di A. Augenti, Nuova Immagine, Siena, 2002, pp. 66 – 73, pp. 66 – 67. La curtis oggetto della liberalità vescovile era evidentemente di origine fiscale (cfr. F. Schneider, L’ordinamento pubblico, cit., pp. 272 – 273: «sulla Cecina inferiore le Saline erano per lo meno in parte originariamente dello stato, come dimostra il nome moia regis usato nel 974. La

curtis de Cecina apparteneva al Marchese Ugo. La contessa Matilde ha documentato nel 1107 alla

Cecina. La vicina Bibbona già in epoca pre-franca apparteneva con il suo distretto, la sala ducis

Allonis, ai duchi di Lucca; intorno all’840 era un publicum, e più tardi assieme a Cecina è in possesso

dei Gheradeschi […] È molto probabile che si tratti di beni originariamente statali o d’ufficio»). Enrico II concesse al monastero di San Salvatore a Sesto, sul lago di Bientina, «salinas domnicatas in Cecina» (MGH, “Heinrici II et Arduini diplomata”, a c. di Harry Bresslau, Hermann Bloch e Robert Holtzmann, n. 425, pp. 539 – 541).

L’atto, passato al vaglio da Andrea Puglia, è stato definito come «un grande catalogo della scrittura del clero volterrano e degli ambienti laici in relazione con esso». Lo studioso sottolinea «l’altissimo grado formale della scrittura, che tende non tanto ad imitare la cancelleria regia, quanto a rielaborare le sue forme grafiche»26. La donazione di fatto veicolava il messaggio che il prelato si faceva in prima persona garante della prosperità della Canonica, mettendone i 22 membrì, che troviamo menzionati nelle subscriptiones, in una condizione di dipendenza materiale. Non si esce fuori del seminato affermando che Pietro III era dotato di una personalità pragmatica, che gli consentiva di perseguire efficienza ed efficacia la legittimazione della propria auctoritas cittadina.

I rapporti con il collegio capitolare costituivano certo un fattore della legittimazione: dalla donazione si evince che Pietro intendeva passare in rassegna le strutture ecclesiastiche cittadine sottoposte all’autorità vescovile, analogamente a quanto succedeva nelle «ceremonial occasions» in cui il potere di ascendenza pubblica rinsaldava i legami fra i propri elementi di vertice27. C’è però di più. Lo scriptor infatti non è un laico, bensì un canonico, che agisce mosso dalla iussio vescovile: quest’ultima, insieme all’impiego «di una scrittura distintiva come la minuscola diplomatica», rimanderebbe, secondo Puglia, a una riproduzione locale dei diplomi regi, attuata direttamente dalla cancelleria episcopale, che si configurerebbe come un’operazione non di ricalco, ma di assimilazione e reimpiego funzionale28.