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Nel 954 Camarino, figlio di Gisalberto di buona memoria, stando in Luppiano, castello ancora esistente a sudest di Volterra, donò alla Canonica alcuni beni posti in Maiano29. Quella di Camarino (da non confondere con l’omonimo visdomino, figlio del visdomino

26 Puglia, “Chiesa e impero a Volterra”, cit. p. 46.

27 Cfr. C. Wickham, “Justice in the Kingdom of Italy in the eleventh century”, in La giustizia nell’alto medioevo, cit., pp. 179 – 250, p. 192.

28 Cfr. “Chiesa e impero a Volterra”, cit., p. 47: «l documento solenne del vescovo non intendeva

imitare tout court la forma del diploma regio, ma si proponeva di costituire una tradizione formale locale, attuata attraverso il ricorso e la reinterpretazione delle formule tipiche della documentazione concernente le transazioni patrimoniali, tipicamente redatte dai notai».

29 RV, n. 33. Maiano si trova dove è attestata la curtis vescovile di San Quirico. Per la localizzazione

di Maiano sulla strada che porta alla frazione di Mulino d’Era cfr. Furiesi, “Le pergamene”, cit., p. 23.

Everardo) era una famiglia legata al Vescovado, che operava in un ambito territoriale abbastanza esteso e che incastellò il proprio centro di potere. La donazione del 954 fu sottoscritta anche da Ildizzo del fu Immo, il cui padre fu presente nel 945 alla conferma da parte del vescovo Boso di un chierico nella pieve dei Santi Quirico e Giovanni. Il figlio omonimo (Ildebrando del fu Ildizzo) testimoniò nel 986 alla conferma di un livello da parte dell’arcidiacono e preposto di Sant’Ottaviano, Anselmo; e poi, nel 990, a un atto fra privati che riguardava castelli e beni situati ad Acquaviva e Gavignano in Valdelsa. L’altro nipote di Immo, Adalberto, permutò beni con Pietro III nel 991 (il prelato gli cedette un terreno a Ulignano, che confinava con possedimenti della Canonica); da estimatore di parte ecclesiastica alla permuta fece il fratello Ildebrando, e vi presenziò anche il visdomino di Santa Maria, suddetto Camarino. Nel 981, alla stipula di un affitto del Capitolo assistette anche Adelmo, terzo nipote di Immo.

Nel 1003 gli Ildizzi della IV generazione, sia il ramo di Ildebrando (figli Ildebrando, Gualberto, Teuzo e Adelmo) sia quello di Adalberto (figli Ildebrando e Adalberto), dunque i bisnipoti di Immo, donarono alla Diocesi alcune porzioni del castello di Montecerboli «pro Dei timore». Come appare evidente nelle intenzioni dichiarate dal documento («que omnis episcopus de suprascripto domo nos et nostros eredes et hac proeredes sive progenia illa que de nos exorta fuerit adiuvare debet per recta fidem»), la coscienza familiare della consorteria si era saldata al sostegno ai presuli volterrani30. La donazione, che riguardava «duobus petiis de terra iuris nostra illa quas habemus infra monte et poio seu castello qui vocitatus Monte Cervuli, qui est iusta fossatum que vocatur Possula», è atta «loco intus suprascripto castello de Monte Cervuli territurio Voloterrense» e ed è determinata nella parte terminale, la quale aggiunge che il vescovo dovrà aiutare gli Ildizzi a reggere la fortificazione facendosi egli «adiutor […] per rectam fidem ipso castello ad tenendum et firmandum» attraverso opere di consolidamento. Ci troviamo davanti a un palese patto de placito et de bisonnio, un’istituzione para-feudale che, nell’interpretazione di mons. Spicciani, si integra con quelle propriamente feudali «per garantire situazioni del tutto particolari». Nella nostra fattispecie

30 I documenti in RV, rispettivamente nn.: 25 (AVV, n. 19), 70, 78, 79 (AVV, n. 34), 64. Per la Nera,

Acquaviva e Gavignano cfr. REPETTI, rispettivamente: V, pp. 606 – 607; I, p. 41; II, p. 413. Boso è stato in carica, secondo la Ceccarelli (“Cronotassi”, cit., p. 32), dal 943 al 955. L’atto riguardante Montecerboli in Inghirami, I più antichi documenti, cit., n. 31. (AVV, n. 41). Per la località cfr. REPETTI, III, pp. 369 – 372.

si istituiva un «condominio di castello, fatto apposta per addivenire ad un’alleanza difensiva dello stesso fortilizio». Sia per il caso volterrano di Montecerboli che per quello lucchese di Vaccoli, si può affermare che la donazione al presule di «una quota di un castello fosse fatta appositamente per ottenerne la protezione». Spicciani si dice inoltre convinto «che tali patti si ponessero in occasione della edificazione di un castello o subito dopo».

L’osservazione qui calza a pennello se si pone mente alla presenza di un sito d’altura («monte et poio seu castello»), protetto da un fossato («iusta fossatum»), dunque di per sé strategico, che nella datatio topica viene già definito come «castello». La postilla aggiunge che si dovranno eseguire opere di potenziamento, si dovranno scavare fossati, si dovrà fortificare la zona intorno alla riserva d’acqua e si dovrà spostare la chiesa: «firmandum de fosis et muro a citerna vel puteo et ipsa ecclesia, que ibi est, mutandi, et in loco ubi nos oportum fuerit edificandum». Si specifica inoltre che la giurisdizione del castrum si estende per tre miglia, sulle terre di proprietà degli Ildizzi («et omnem nostrum tenimentum que nos abemus ad circuito eidem castello ad tres miliaria»), e che il prelato dovrà risarcire i membri della schiatta per i danni, cagionati dai suoi servi, superiori a 24 denari. Infine, la clausola secondo cui solo se saranno rispettati la donazione varrà «in sempiternum» rientra nelle dinamiche messe in evidenza da Spicciani, che parla di «un nesso giuridico necessario tra la remunerazione e l’adempimento del servizio promesso»31. È logico dunque ritenere che la

31 Le cit. da Spicciani sono dal saggio “Forme giuridiche e condizioni reali nei rapporti tra il vescovo

di Lucca e signori laici (secolo XI). Ipotesi di istituzioni parafeudali”, in Formazione e strutture dei

ceti dominanti nel medioevo: marchesi, conti e visconti nel Regno italico (secc. IX – XII). Atti del

secondo convegno di Pisa: 3-4 dicembre 1993, Nuovi Studi Storici, ISIME, Roma, 1996, pp. 315 – 375, pp. 354 e segg. Si potrebbe discutere, magari rinfrancati da dati archeologici precisi, se il castello di Montecerboli appartenesse a quelli che «were primarily defensive in nature», e che «simply appended on to existing settlements», oppure fosse «constructed in no discernible pattern, […] highly temporary in nature» (Osheim, “Rural Italy”, in Italy in the central middle ages, a c. di David Abulafia, “Short Oxford History of Italy”, Oxford University Press, New York, 2004, pp. 161 – 182, p. 163. Sul valore “sociale” dei castelli cfr. anche Wickham, “La signoria rurale”, cit., pp. 364 – 365). Di certo nel testo compare un «fenile», segno che il posto ospitava già alcuni servizi rusticani, ma non mi sento di escludere che qui il sostantivo «castello» abbia la funzione di marcatore tassonomico del territorio, che non risponde necessariamente a qualcosa di già identificabile come tale (difatti, il

castrum vero e proprio è ancora da tirare su). Poco dopo si fa riferimento all’ambito di territorialità

del fortilizio construendo (tre miglia), al «nucleo intorno a cui si vanno raccogliendo ed ordinando altri nuclei di popolazione del contado, sì da giungere a costituire un distretto»(Pietro Vaccari, La

territorialità come base dell’ordinamento giuridico del contado nell’Italia medioevale, seconda

edizione, “Archivio della Fondazione italiana per la Storia amministrativa”, Giuffrè, Milano, 1963, p. 50), visto che è manifestato l’intento di spostare l’edificio ecclesiastico al suo interno. Se si

donazione del 969 costituisca la cartina tornasole dell’entrata nel proscenio signorile del notabilato cittadino, il quale deteneva i redditi delle pievi e giocava una propria politica di interessi e alleanze32.