• Non ci sono risultati.

Lo scontro con gli Aldobrandeschi e l’inviolabilità della res sacra.

Come lascia intravedere la vicenda dello scontro fra il presule Benedetto e i conti Aldobrandeschi, il Vescovado non era ancora, a cavaliere fra X e XI secolo, in grado di affrontare le forze soverchianti dell’ex funzionariato d’ufficio. Eppure, grazie al principio dell’inviolabilità della res sacra e l’alta mediazione della Santa Sede, il vescovo riuscì a porre termine alle prevaricazioni e, presumubilmente, a limitare i danni.

Gli Aldobrandeschi attentarono al patrimonio della Chiesa volterrana certo approfittando delle lotte fra Arduino ed Enrico II; in particolare, al centro delle mire di Ildebrando IV stava l’altare di Santa Maria di Spugna, nel piviere di Colle Valdelsa. La lotta col presule dovette avere una discreta risonanza, tanto che sembra farvi riferimento anche san Pier Damiani quando racconta la visione di un chierico dannato con la lebbra per aver accettato doni dall’empio conte. Fu comunque papa Giovanni XVIII, essendo il vertice regio impossibilitato a dar seguito alla difesa della Sede vescovile, a denunciare in una lettera gli «invasores sancte ecclesie», appunto gli Aldobrandeschi64. Davanti alla Curia romana il

presule Benedetto fece mostra dei documenti attestanti le ragioni del suo Vescovado («per episcopatus cartas cognovimus»). Era un rituale ormai consolidato nella tradizione della Chiesa volterrana, la quale era in grado di disporre di una memoria archivistica puntuale e accurata, e di personale in grado di poterla sfoderare alla bisogna. Lì per lì Ildebrando

64 «I Grandi della Tuscia approfittavano intanto di quelle lotte per la corona, che rinnovavano i buoni

tempi antichi tanto favorevoli alle loro cupidigie. È da ricordare specialmente il conte Ildebrando della famiglia Aldobrandesca, che dava piglio senza alcun ritegno a tutto quanto gli stava d’attorno […] Al vescovo di Volterra estorse possessi in Val d’Elsa, ed essendosi poi il Papa intromesso, egli con l’aiuto di sua madre Giulia, figlia di Landolfo IV principe di Benevento e di Capua, seppe indurre il vescovo stesso a cedergli, in cambio di alcuni possedimenti sull’Arno, quanto già gli aveva tolto con la violenza» (Davidsohn, Storia di Firenze, Sansoni, 1956 – 1968 (trad. di Giovanni Battista Klein, rivista da Roberto Palmarocchi, dall’orig. Geschichte von Florenz, Berlin, Mittler, 1896- 1927), I, p. 188). Cfr. anche Collavini, Honorabilis domus, cit., pp. 90 – 91, che dà conto anche del perché i conti possedessero beni nel Pistoiese e del perché la principessa Giulia agisse in prima persona nonostante la maggiore età del figlio. Per Colle cfr. PIEVI, 13.16. La lettera di s. Pier Damiani è editata in MGH, “Die Briefe der deutschen Kaiserzeit”, “Die briefe des Petrus Damiani”, a c. di Kurt Reindel, IV, n. 14. «Ego, inquit, sum infelicissimus ille comes Hildeprandus, cui paenitentiam licet infructuosam inponere consueveras […] Tante scilicet crudelitatis fui, dum in corpore vixi, ut nunc sanctis omnibus odio habear». La missiva del pontefice è stata invece edita da Wilhelm Wiederhold, “Papsturkunden in Florenz”, in Nachrichten von der Gesellschaft der

Wissenschaften zu Göttingen. Philologisch-Historische Klasse, VIII (1901), pp. 306 – 325, n. 1.

«Benedictus vulterrane ecclesie provisor super Ildebrandum comitem ad apostolicas conquestus est aures de plebe Delsa et cellam sancte Marie que in Sponge posita est».

promise di restituire il maltolto; ma, una volta tornato alle faccende di casa propria, il conte perseverò nel danneggiamento delle prerogative ecclesiastiche («apostolicis auditibus mentitus probatur et quicquid episcopo spoponserat, omnia plane videtur esse fallacia»).

Allora il vescovo, «obvolutus» alle ginocchia del pontefice, munito delle lettere apostoliche di richiamo («hanc corroborationem flagitavit humotenus quatenus cum nostris litteris sic eam teneret»), chiese «quod nulla laycali persona adversum sue invasionis illam distrahere queat». Il papa annuì ai lamenti di Benedetto, e – oltre a condannare i malfattori a una multa di 100 lire a cui avrebbe dovuto pensare il re – scagliò contro di loro anatema e scomunica. La controversia fu risolta poco tempo dopo attraverso una cospicua permuta: il presule consegnò agli Aldobrandeschi un casalino dominicato, «in qua fuit casa et curte donicata» a Spugna, pertinente alla chiesa di Santa Maria, insieme alla stessa chiesa, già allivellata a un prete (Pietro) e al fratello, i suoi redditi (e. g. i mortuaria) e altri 17 «inter casis et casinis seu casalinis»; nel territorio che il vescovo cedé, affacciato sull’Elsa, erano presenti «aquis, piscareis et molendinareis». Benedetto ricevette invece la metà di un casalino dominicato, la corte e la chiesa di Santa Maria a Stignano, con annessi 27 mansi («sortis et rebus illis massaritiis») e comprensiva di infrastrutture fluviali sull’Arno («una insimul cum piscareis aquis, aquarumque decursibus de predicto fluvio Arno»). Inoltre, i conti cedettero anche l’altare dei Santi Andrea e Tommaso ad Alliano, circondato da tre moggi di terra coltivati a grano. La permuta fu vergata a Papena, in «territorio voluterrense»65.

Com’è facile vedere, la bilancia dell’accordo di pace patrocinato dalla Sede apostolica pendeva estremamente a favore della schiatta comitale, in quanto Ildebrando riuscì a incamerare i beni agognati a prezzo di possessioni periferiche (la pieve di Stignano) sia per lui che per la controparte vescovile. Nonostante la Curia avesse fatto leva sulla tradizione che individuava nel potere pubblico il garante dei beni ecclesiastici laddove gli stessi fossero stati minacciati, questa strategia servì con gli Aldobrandeschi appena a limitare i danni. Ancora mancava, alla teoria dell’inviolabilità della res sacra, quel concreto bagaglio di soft e hard power (la solidarietà / inquadramento politico delle clientele e il loro sostegno

65 L’ed. della permuta è in Ughelli, Italia sacra, cit., pp. 1431 – 1434. Stignano è vicino a Buggiano

(cfr. REPETTI, V, p. 476) ed era anticamente afferente al comitato pistoiese. Alliano in Valdera, presso le sorgenti del Roglio: cfr. REPETTI, I, pp. 433 – 434. Papena, infine, si trova presso Chiusdino (cfr. REPETTI, IV, p. 56).

militare) di cui la Sede volterrana avrebbe dato mostra qualche anno dopo nello scontro contro i Cadolingi.

3.4.

Le ragioni del successo.

L’istituzione così tardiva del Comitato, e il limitato radicamento territoriale che ebbero i suoi legittimi titolari, fece sì che il centro di gravità del Volterrano fosse trovato nei presuli. Essi erano la guida della Chiesa cittadina, regolavano e amministravano il culto, le loro tenute si alimentavano con le donazioni, il loro ruolo era legittimato dai sovrani che cercavano il loro appoggio. Ma soprattutto la cattedra episcopale era al centro di un doppio movimento, dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto. Dall’alto, i presuli gestivano le pievi, che allivellavano alle famiglie più in vista della società volterrana del tempo, ed erano i filtri attraverso cui si legittimavano le carriere ecclesiastiche dei rampolli; inoltre approvvigionavano con terre e redditi le consorterie in formazione, non solo dandoglieli in affitto, ma facendoglieli gestire attraverso cariche di vertice nell’“apparato amministrativo” (avvocati, notai, estimatori e visdomini). Dal basso, invece, il soglio episcopale funzionava come una formidabile calamita: farsi ammettere nella curia episcopalis costituiva da un lato un elemento di distinzione sociale, da esibire come status symbol economico e politico; dall’altro una spinta all’emulazione, perché ciascuno dei maggiorenti volterrani ambiva a una carica, a una pieve, a un terreno redditizio. Non a caso Giovanni Tabacco parla delle «chiese come strumenti e centri attivi di potenza politica»: una potenza, segreto del successo, che «suscita infatti da un lato un collegamento sempre più intenso del regno, delle aristocrazie militari e delle popolazioni locali con le sedi vescovili e con le comunità canonicali […] a cui affluiscono ricchezze fondiarie, clientele di vassalli e di minori commendati, privilegi, poteri, responsabilità materiali, e in cui vengono collocati – per la direzione degli enti e nel reclutamento delle comunità fedeli del re e membri di grandi famiglie». L’Episcopio volterrano costituì, in definitiva, «un raccordo fra certi enti e certi poteri, pensati come interni gli uni agli altri»66.

Da raccordo il potere episcopale funzionò non solo nei confronti della società più propriamente cittadina, ma anche di quella dei lambardi e i notabiliores del contado; certo ammesso che questa distinzione sia legittima, visto che la protensione signorile al possesso

di pievi e castelli riguardava anche (e forse in specie) giudici ed esponenti di primo piano del Capitolo. Possiamo senz’altro attribuire la discesa dell’Episcopato volterrano nell’arena signorile alle figure di Boso e Pietro III: se Pietro III fu il presule che si interfacciò con i poteri centrali di età ottoniana (Marca e Impero), a Boso si dovette la prima adozione a noi giunta – nettamente in anticipo rispetto a Lucca – dei cosiddetti patti de placito et de bisonnio, finalizzati alla costruzione e al tenimento degli edifici castrensi67. Si trattò di una

convergenza d’interessi, di un incontro a mezza strada: fu il vescovo l’autorità a cui i lambardi si rivolsero come vettore di scalata politica e sociale, giacché troppo a lungo furono assenti titolari dell’ufficio comitale, coloro di cui fu appannaggio la maggior parte delle prerogative signorili almeno fino al 1100.

Un utile parallelo è costituito in questo senso dal caso aretino. Sebbene dotati da Enrico III dei poteri di placito e distretto, una piena affermazione delle prerogative giudiziarie dei presuli di quella città si ebbe solo dopo alcuni decenni (grazie soprattutto all’accorta politica di equilibrio nella temperie della lotta fra enriciani e gregoriani promossa dal vescovo Costantino). La lentezza di quest’affermazione si deve, secondo Delumeau, al fatto che nella zona erano dislocati patrimoni e clientele degli esponenti della ex aristocrazia d’uffio, quali i Canossa e i Marchiones, che avevano esteso le prerogative di origine pubblica ai loro ampi possedimenti fondiari. Sebbene i vescovi di Volterra non fossero titolari della potestas giudiziaria, la loro penetrazione del contado non partì schiacciata da quella di altri potenziali concorrenti laici, che non ebbero né il tempo né l’ardimento di mettere in campo un progetto di dominazione signorile coerente, forse perché ai Gherardeschi mancò un radicamento patrimoniale capillare al di fuori delle zone in cui furono eretti i due monasteri di famiglia

67 Occorre tenere a mente quanto rilevato da A. Settia in “Lo sviluppo”, cit., p. 179, il quale richiama

l’attenzione sul fatto che «modificazioni anche vistose nelle forme dell’insediamento rurale […] si legano a problemi di “percezione” e di “rappresentazioni mentali” che gli storici non si sono dati sinora la pena di studiare». Alla questione si è interessato anche Wickham in “Documenti scritti e archeologia per una storia dell’incastellamento: l’esempio della Toscana”, in Lo Scavo archeologico

di Montarrenti e i problemi dell'incastellamento medievale. Esperienze a confronto. Atti del

colloquio internazionale (Siena, 1988), a c. di Riccardo Francovich e Marco Milanese, All’Insegna del Giglio, Firenze, 1990, pp. 79 – 102: egli parla del «generalizzarsi non tanto del castello, quanto solo del concetto di castello, della consapevolezza che una curtis difesa fosse tipologicamente distinta da una curtis aperta» (p. 84).

(Piombino e Serena). Infine, grazie al loro precoce abbandono della città, l’amministrazione della civitas volterrana restò in mano ai ceti urbani convergenti verso la Curia68.

L’altro vantaggio di cui il presule godeva nei confronti delle autorità secolari riguardava il suo rapporto privilegiato col sacro, con la Divinità e con i santi che costituivano il corpo mistico della Chiesa cittadina. Gary Dickson, mettendo in evidenza il concetto di carisma- di-carica, il weberiano Amtscharisma di cui beneficiavano coloro che si trovavano a essere carismatici-di-per-sé, fa riferimento alla figura di Bernardo di Chiaravalle, in cui egli coglie sia le doti di trascinatore di folle, sia il suo ruolo di “dirigente” all’interno dell’Ordine cistercense: i due aspetti erano intrecciati e si corroboravano l’un l’altro69. Ma anche in

assenza di doti personali, di caratteristiche individuali come una parlantina suadente, quello che i vescovi volterrani avevano a disposizione era un patrimonio-di-carica, immateriale e inesauribile, riconosciuto erga omnes70. Questo carisma-di-carica, nell’argomentazione weberiana, s’irraggia trasmettendosi sui seguaci che intorno al suo portatore si dispongono: «the therm “clan state” (Geschlechterstaat) will be applied when a political body is organized strictly and completely in terms of this principle of hereditary charisma»71.

68 Cfr. quando affermato dal Dupré Theseider: le fortune dei conti «discendevano unicamente da un

atto della volontà sovrana, esterna al mondo cittadino e alle sue più vere ragioni di vita. […] Entro quel mondo, la posizione del conte non è affatto paragonabile a quella del vescovo. Egli non dispone di quell’incomparabile ascendente che deriva al vescovo dal suo ministero sacramentale, né ha dietro di sé, in ugual misura, la forza innegabile che proviene dalla tradizione. Nessuna famiglia comitale, soprattutto nei secoli anteriori al Mille, poteva vantare una sì illustre e ininterrotta serie di antenati, quanti il vescovo annoverava predecessori nella cattedra» (“Vescovi e città”, cit., p. 72). Per il caso aretino cfr. Delumeau, Arezzo, cit., pp. 273 e sgg.

69 «This is the charisma arising from a recognized prestigious status, either traditional or official. In

a medieval context, it could be the aura of the throne, whether episcopal, papal or royal, as opposed to the peculiar qualities of the incumbent seated thereon» (cfr. “Charisma, Medieval and Modern”, in Religions, III (2012), pp. 763 – 789, p. 767).

70 «The concept that charisma may be transmitted by ritual means from one bearer to another or may

be created in a new person. The concept was originally magical. It involves a dissociation of charisma from a particular individual, making it an objective, transferrable entity. In particular, it may become

charisma of office. In this case the belief in legitimacy is no longer directed to the individual, but to

the acquired qualities and to the effectiveness of the ritual acts. The most important example is the transmission of priestly charisma by anointing consecration […] The character indelebilis thus acquired means that the charismatic qualities and powers of the office are emancipated from the personal qualities of the priest» (Max Weber, Economy and Society. An outline of interpretive

sociology, a c. di Guenther Roth e Claus Wittich, University of California Press, Berkeley, Los

Angeles, London, 1978, (trad. inglese da Wirtschaft und Gesellschaft. Grundriss der verstehenden

Soziologie, a c. di Johannes Winckelmann, Tübingen, Mohr, 1956), pp. 248-49). 71 M. Weber, Economy and Society, cit., p. 250.

L’aggancio fra Episcopio e famiglie del notabilato di Volterra fu trovato nella tradizionalizzazione dell’esercizio del potere, legato all’officium vescovile munito di carisma72: «it is not the type of position he occupies which determines the rank of a man or of his family, but rather the hereditary charismatic rank of his family determines the position he will occupy». Certo, si commetterebbe un quiproquo a prendere alla lettera quanto afferma il sociologo del secolo scorso, che infatti si riferisce ad attitudini che avrebbero dato vita al sistema delle caste indiane o a quello della Cina imperiale.

Tuttavia, seppure massicciamente distillato, Weber ci dà una lezione importante: il carisma non riguardava in via esclusiva il suo latore, bensì si riverberava a cascata su chi veniva visto in sua compagnia, su chi aveva posti d’onore durante la liturgia, su chi si faceva garante per lui della gestione fondiaria o del culto delle pievi e delle cappelle. E dacché «the administrative staff may seek and achieve the creation and appropriation of individual positions and corresponding economic advantages of its members», l’autorità carismatica ricompensava i propri seguaci – sostiene ancora Weber – tramite la concessione di terre e feudi: che poi è il processo che si è dianzi osservato, seppure non dalla lente della sociologia73. Infine, tralasciando la «routinization» delle cariche nel seguito del «leader», su cui non è il caso di soffermarsi, mi concentrerei piuttosto su un punto: questo entourage – membri del Capitolo innanzi tutto, della congregatione del clero cittadino, ma anche lambardi, estimatori, visdomini, giudici e rogatari degli atti dell’Episcopato – non solo teneva dietro al carisma, ma addirittura lo amministrava; ovvero lo dispensava scegliendo la persona che lo avrebbe esercitato. Non si trattava quindi di un ruolo solo passivo, ma anche attivo; anzi: amministrativo, in quanto essere un riconosciuto elettore vescovile (e dispensatore di carisma) consentiva, nel gioco politico della Volterra medievale, una distinzione sociale decisiva74.

72 «The heads of families, who are traditional gerontocrats or patriarchs without personal charismatic

legitimacy, regulate the exercise of these powers which cannot be taken away from their familiy» (ibidem).

73 Ibidem.

74 «The most important examples of designation of a successor by the charismatic followers of the

leader are to be found in the election of bishops […] by the original system of designation by the clergy and recognition by the lay community» (Weber, Economy and Society, cit., p. 53). Che è poi, con parole diverse, quanto affermato dalla Rossetti: «un [vincolo di] fidelitas vescovile dà a chi lo detiene una posizione di preminenza nella comunità ecclesiale, e in quella cittadina che coincidono,

moltiplica con la partecipazione alle investiture solenni del vescovo i rapporti sociali, e con la presenza attiva nella curia giudiziaria vescovile la possibilità di controllo politico» (“Storia familiare e struttura sociale a Pisa nei secoli XI e XII”, in Forme di potere e struttura sociale in Italia nel

4.

L’XI secolo.

In questo secolo non solo acquisirono valore agli occhi dei presuli i monasteri privati e il dialogo con le ex aristocrazie d’ufficio, ma si stabilizzò anche il ruolo dei vescovi quali interpreti privilegiati della Riforma e guide della ecclesia diocesana. Si rinforzò inoltre, in maniera decisiva, la spinta dei sovrani salici verso un’effettiva supplenza regia esercitata dalla Sede vescovile. Infine, in questo secolo cogliamo quell’amalgama di elementi che secondo Violante preparò l’avvento delle signorie territoriali: il possesso di prerogative immunitarie, “suggerimento” fornito dai sovrani al Vescovado, interagì con gli ambiti distrettuali costituiti dalla curtis e dalla rete della cura d’anime su cui essa, come si è visto, si appoggiava, nello stesso torno temporale in cui cominciavano a sorgere i castelli1.

Il vescovo Benedetto, ad esempio, anticipò, a cavaliere fra X e XI secolo, alcuni tratti salienti che avrebbero caratterizzato l’azione dei presuli successivi, come la costruzione di fortilizi e il coordinamento con gli elementi ragguardevoli del territorio. Non solo egli, come si è visto, affrontò le ingenti forze degli Aldobrandeschi e impetrò per la Canonica il privilegio del 1014, ma soprattutto sotto questo presule furono incastellati S. Gimignano (cfr. AVV, n. 39, anno 999), Magrignano (cfr. AVV, n. 50; RV, n. 109, anno 1014) e S. Magno di Montalcinello, sede questa località di un caput curtis (cfr. AVV, n. 44; RV, n. 97, anno 1005). Benedetto inoltre rivelò un’attenzione particolare per Montecerboli dove, forse in relazione allo sfruttamento delle saline, instaurò un condominio di castello con gli Ildizzi (cfr. AVV, n. 41) e nel 1014 acquisì anche cospicui beni a seguito di una permuta (cfr. AVV, n. 50)2.

4.1.

La gestione patrimoniale e i livelli.

All’inizio del secolo XI, la gestione fondiaria dei possedimenti della Mensa avveniva ancora con il consueto strumento del livello, stipulato sia con coltivatori che con non- coltivatori. Dell’attività patrimoniale di Gunfredo parlano 7 livelli, comprendenti sia beni

1 Cfr. C. Violante, “La signoria rurale”, cit., spec. pp. 44 – 49.

2 Di San Magno di Montalcinello si potrebbe pensare che fosse sede di un mercato curtense, il che

avrebbe incentivato l’interesse al suo incastellamento (che dovette avvenire per impulso diretto della Diocesi). Non ci sono tuttavia elementi che supportano la congettura.

prettamente cittadini che frazioni di poderi già affidati in conduzione3. Al secondo tipo appartengono le frazioni dei possessi di Santa Maria di Maiano locate a 4 fratelli nel 1018, e, nel 1031, i pezzi di un podere già partizionato affidati a due fratelli presso Casole. Parimenti, due anni dopo, al chierico Alberto della fu Inghizza furono concesse frazioni di beni nei pressi di Isola4. Intere unità troviamo invece nel 1021 (quando a due fratelli furono affittati una casa con rispettive pertinenze a Montevoltraio) e nel 1036 (due coppie di due fratelli presero in conduzione terre ad Agliano)5.

Di Gunfredo ci sono arrivati anche livelli riguardanti le decime: nel 1017 egli allivellò a due chierici l’ordinazione della pieve dei Santi Maria e Giovanni di Fabbrica (di Peccioli); mentre, nel 1029, cedette a un chierico le decime di tre persone della pieve di San Giovanni a Coiano6. Il censo da corrispondere era di carattere ricognitivo, come dimostra il livello concesso dal vescovo Erimanno: costui confermò a un certo Ghisolfo del fu Brenci, nel 1066, la metà dei castelli di San Magno e di Gello per un canone annuo di 24 denari. A differenza