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Nel 929 il re Ugo, acconsentendo alle richieste del vescovo Adelardo («Adelardum venerabilem episcopum et dilectum fidelem nustrum humiliter nostram adiisse clementiam»), elargì per il prelato un ingente diploma, con il quale fu consegnato alla Diocesi «montem qui dicitur Turris, de iure regni nostri et de comitatu Volterre pertinentem, prope Sancto Geminiano adiacentem»39. Il poggio – che in quanto tale costituiva una regalia,

cioè un bene facente capo al fiscum e dotato del conseguente status immunitario – confinava con terre già dell’Episcopato, con la località di Acquaviva, con la strada pubblica, con «terra Ildeprandi» e con «terra Adelmi»40.

Gabriella Rossetti ha posto l’accento sulla contemporaneità fra la creazione del Comitato di Pisa e quello di Volterra, accumunati dalla volontà regia di abbassare l’autorità marchionale41. È un’interpretazione ha goduto di molte fortuna in letteratura: Nobili, per

39 Il doc. editato Luigi Schiaparelli, I diplomi di Ugo e Lotario, “Fonti per la storia d’Italia”, ISIME,

Roma, 1915, n. 23 (cfr. AVV, n. 15). Questa donazione ebbe un’importanza dirimente per quanto riguarda l’assetto insediativo di San Gimignano: la sommità del rilievo fu infatti incastellata, divenendo il cosiddetto “poggio della Torre”; accanto, invece, si sviluppò l’abitato di San Gimignano, che troviamo attestato come «borgo» nel 950 (AVV, n. 21) e come «castrum» nel 999 (AVV, n. 39): cfr. Stopani, San Gimignano, cit., pp. 29 – 35. La dinamica «degli agglomerati costituiti da un villaggio fortificato (il castrum) e da un abitato ad esso esterno» è stata indagata da Settia (cfr. “Lo sviluppo degli abitati rurali in alta Italia: villaggi, castelli e borghi dall’alto al basso Medioevo”, in Medioevo rurale. Sulle tracce della civiltà contadina, a c. di Vito Fumagalli, Il Mulino, Bologna, 1980, pp. 157 – 199; la citazione è a p. 162). L’insediamento edificato sul monte Torre ebbe anche una cappella castrense, Santo Stefano “de Castello”, oltre al palazzo vescovile e altre pertinenze.

40 Viene il sospetto che il primo dei due genitivi si riferisca a un Ildizzo, di quella consorteria che

abbiamo visto prima operare proprio ad Acquaviva, mentre il secondo al figlio di Suppo, che si ritroverà in seguito.

41 «Le tormentate e note vicende dinastiche del re, nei suoi rapporti con i marchesi di Tuscia,

giustificano […] questa creazione come tentativo da parte di Ugo di tenere più saldamente, abbassando l’autorità dei marchesi, il controllo del cuore del suo dominio, la sola forza che reggeva

esempio, ravvisa nel 929 la compiuta attribuzione del Comitato volterrano ai Gherardeschi, o almeno a quella schiatta da cui i Gheradeschi sarebbero discesi42. Soprattutto, l’avvento di Ugo nel Regno italico, sostiene ancora Nobili, si accompagnò a una determinazione precisa e minuziosa delle prerogative fiscali, delle «pertinenze dell’ufficio comitale», con la quale fa pendant la specificazione che il monte Torre era, appunto, «de iure regni nostri et de comitatu Volterre pertinentem»43.

Più di recente, Andrea Puglia ha sfumato la lettura consueta dei fatti: egli da un lato accetta l’ipotesi che il “Gherardo conte” attestato in un placito tenuto dal marchese Oberto nel 964 appartenga alla prosapia dei Gheradeschi (dunque terminus ante quem fissare l’istituzione del Comitato), e dall’altro assegna al sintagma del 929 “pertinente al comitato” un valore di definizione istituzionale dello spazio44. La prima deduzione di Puglia mi pare estremamente convincente, anche perché suffragata dal dato paleografico della subscriptio; la seconda invece mi sembra condivisibile ad sensum. La dicitura adoprata da Ugo assomiglia infatti più all’endiadi piuttosto che al tecnicismo istituzionale: invece che distinguere se un tal bene fosse appannaggio della Corona o del Comitato, sembra che il sovrano volesse comunicare

il suo regno e che più volte in passato aveva mutato le sorti dei regnanti. E certo non è un caso che le prime menzioni dei comitati di Volterra e di Pisa si trovino in due diplomi di Ugo e che l’accenno del vescovo lucchese Corrado, nel placito del 941, alla vana protesta sua e del suo predecessore presso il conte di Pisa per avere giustizia contro Giovanni del fu Rosselmo, rimandi proprio agli anni della prima testimonianza del comitato di Volterra nel diploma concesso da Ugo al vescovo Adalardo» (G. Rossetti, “Società e istituzioni, cit., p. 245).

42 Essi «sicuramente affondano le loro radici nella storia della Tuscia marchionale o ducale […] Si

tratta insomma di un ceto dirigente non certo nuovo […] che ora vene proiettato dalla politica del re sulla scena più alta. Ugo fa lievitare le forze più schiette della Tuscia. E sono forze […] che emergono dalle viscere più profonde della terra toscana». Nobili, “Le famiglie marchionali nella Toscana dall’età longobarda a quella precomunale”, prima in I ceti dirigenti nella Toscana dall'età

longobarda a quella precomunale, Atti del convegno (Firenze, 2 dicembre 1978), Pacini, Pisa, 1978,

pp. 79 – 105, poi in Gli Obertenghi, cit., pp. 125 – 150, p. 140.

43 Nobili, “Le famiglie marchionali”, cit., p. 141.

44 La marca di Tuscia, cit., p. 48. Il placito di Oberto, tenuto nei pressi di Lucca, è in Cesare Manaresi, I placiti del Regnum Italiae, “Fonti per la storia d’Italia”, ISIME, Roma, 1955 – 1960, vol. I, n. 152.

Lo studio più recenziore sulla politica di Ugo è quello di Giacomo Vignodelli (Il filo a piombo: il

Perpendiculum di Attone di Vercelli e la storia politica del regno italico, CISAM, Spoleto 2011).

Attone di Vercelli insiste sulla propensione del re Ugo a servirsi dei milites, che egli convince, dopo averli allettati con promesse e cariche pubbliche, ad abbandonare la fedeltà ai propri tribuni: «possiamo pensare che il meccanismo raccontato da Attone sia generalizzabile e si riferisca ai funzionari minori come alle nuove aristocrazie: in questo caso la mancanza di informazioni sulle precedenti fedeltà dei nuovi potenti dipenderebbe dalla carenza di attestazioni sul loro conto prima che essi giungano ai vertici dell’aristocrazia» (p. 217).

che fosse semplicemente proprietà pubblica, (e dunque, di riflesso, comitale). Si potrebbe altresì congetturare che la Cancelleria regia utilizzasse «comitato» in una valenza generica e legale, senza dargli un peso reale, assumendo che in una città vescovile doveva esserci anche un conte45.

Il Comitato volterrano può così essere fatto risalire alla politica ottoniana e, nello specifico, a quel tentativo di riassetto istituzionale duranti gli anni in cui l’imperatore non si preoccupò di istituire in Tuscia un nuovo marchese, ma anzi governò da dipresso da solo la Marca (961 – 965)46. Una decina d’anni dopo questa parentesi (975), il margravio Ugo acquistò numerosi

possedimenti presso Montevoltraio, in un accomodamento che assume tutto il carattere di una presa di piede dell’autorità marchionale in una zona ormai soggetta anche a quella comitale47.

Nessuno ha tuttavia insistito sul fatto che l’espressione «in eius ius et dominium omnino transfudimus» indichi una vera e propria devolution da parte del sovrano: non solo un trasferimento sic et simpliciter della proprietà, ma anche delle pertinenze giurisdizionali proprie del re. Mi pare che siamo nel pieno della casistica individuata da Hagen Keller quando afferma che coi successori di re Berengario cambiarono le forme e i contenuti delle concessioni da parte della Corona, tanto che si ebbe un «trasferimento della publica functio» relativa a valli, monti e curtes, «basi di potere e dei diritti regi […] a chiese e a nobili fedeli»48. Difatti il sintagma testé rammentato compare proprio nelle traditiones (ben 35 volte nel volume che raccoglie i diplomi di Ugo e Lotario edito dallo Schiaparelli): per

45 Citando Sergi, «i diplomi regi facevano ricorso alla terminologia circoscrizionale carolingia per

comodità prevalentemente geografico- descrittiva, perché lo scopo principale era concedere i proventi di natura pubblica» (“Poteri temporali del vescovo”, cit., p. 8).

46 Cfr. Nobili, “Le famiglie marchionali”, cit., p. 142.

47 L’atto con cui Ugo acquistò beni presso Montevoltraio (o meglio, la repromissionis pagina relativa

alla compravendita) in AVV, n. 23. La nuova segnatura ha posticipato l’atti di ben 5 anni rispetto a RV, n. 46. L’ed. del testo è stata condotta da Antonio Falce, Il marchese Ugo di Tuscia. Ricerche, “Pubblicazioni del Regio Istituto di Studi Superiori pratici e di perfezionamento in Firenze”, Sezione di Filologia e Filosofia, II, Bemporad, Firenze, 1921, cit., app. doc., n. 1.

48 Le considerazioni di Keller in Signori e vassalli nell’Italia delle città (secoli IX-XII), (tit. orig. Adelscherrschaft und städtische Gesellschaft in Oberitalien. 9. bis 12. Jahrhundert, Max Niemeyer

Verlag, Tübingen, 1979. Trad. it. di Andrea Piazza), a c. di Grado Giovanni Merlo, UTET, Torino, 1995, pp. 119 – 121.

esempio di una valle (926, n. 6); di un monastero (927, n. 9); oppure di una curtis (929, n. 19); infine di un bosco (938, n. 38).

La cessione alla Chiesa volterrana del monte Torre assume dunque il significato di un ulteriore “suggerimento” per l’instaurarsi, nella zona intorno a San Gimignano, di una signoria territoriale vescovile, considerato il contesto nel quale «non c’è alcuna differenza se a una chiesa […] venga concessa in modo negativo l’immunità o siano conferiti positivamente la publica functio, banno, diritti di pedaggio, o di mercato ecc.»49. Detto

altrimenti, la cessione da parte della Corona di un sito d’altura, dotato peraltro dello status immunitario proprio delle terre fiscali, a un ente che godeva da lungo tempo di immunità, non poteva che portare alla preminenza giurisdizionale dei vescovi nel territorio circostante50.

49 Ibidem. In particolare Giovanni Tabacco sottolinea la «precisa concezione allodiale del potere e

della giurisdizione » (“La storia politica e sociale. Dal tramonto dell’Impero alle prime formazioni di Stati regionali”, in Storia d’Italia, a c. di Ruggiero Romano e Corrado Vivanti, II, tomo I, pp. 5 – 426, Torino, Einaudi, 1974, p. 120). Ancora Tabacco: «il vocabolario del diritto privato, concernente il possesso delle cose e le successioni, viene utilizzato per esprimere trasferimenti di potere […] poiché non si era mai visto un re […] donare in proprietà piena, in libera e assoluta disposizione, torri e fortezze, porte e mura di città, strade pubbliche e potestà giudiziaria, con le medesime formule usate per i beni immobili di puro significato economico» (ibidem).

50 «Per un vescovo […] la costruzione di fortezze in punti strategicamente importanti della diocesi

rappresent[a] invece qualcosa di più che una protezione di beni e redditi fondiari: [esse] costituiscono un inquadramento politico-militare del centro e, in modo parziale e discontinuo, della periferia di un distretto ecclesiastico, a fini non solo patrimoniali, ma di controllo di pievi, monasteri e altre chiese della circoscrizione diocesana» (Tabacco, “La storia politica e sociale”, cit., pp. 122 – 123). L’esistenza del Comitato volterrano si interseca anche con le vicende di un diploma che si è già considerato, quello di Carlo III. Abbiamo visto come una mano del X abbia interpolato il documento, assegnando al Vescovado la giurisdizione sul cenobio di Monteverdi. È stato a questo proposito anche notato che nel 973 Lamberto Aldobrandeschi vendette fittiziamente un imponente nucleo di beni, fra cui c’era pure l’abbazia, per «avvantaggiare Ermengarda [la moglie] a scapito di altri aventi diritto»; difatti, poco dopo, la donna ricomprò i beni. Poiché l’interpolatore del X secolo specificò che Monteverdi era «sitam in comitatu Vulterrensi sive Corninensi», ciò fa pensare a un’epoca in cui il Comitato volterrano non era stato ancora istituzionalizzato (e quindi ante Ottone il Grande). È vero che «comitato» potrebbe avere, come notato prima, un valore generico; tuttavia, implicando qui la congiunzione «sive» una succedaneità fra i due aggettivi «vulterrensi» e «corninensi», come se la badia stesse a metà fra i due, resta difficile pensare che l’espressione sia stata adoprata a Comitato istituito. Ci conforta in questo una lettera di papa Stefano V, datata all’882, nella quale il pontefice faceva divieto ai vescovi di Siena e di Roselle di ordinare chierici volterrani: l’accaparramento dell’abbazia di Monteverdi potrebbe dunque a diritto inquadrarsi nei primi anni del X secolo, quando la fluidità delle circoscrizioni chiesastiche e di quelle civili permetteva ancora un certo grado di prevaricazione territoriale. Sull’abbazia cfr. il volume L’abbazia di S. Pietro in Palazzuolo e il