Accanto ai discreti legami col vertice marchionale, il Vescovado poté avvantaggiarsi anche di proficue relazioni con i quadri a dilocazione locale della Marca. Non è infatti difficile ricollegare l’Adelmo «lege vivente saliga» che sottoscrisse la donazione di Ugo in favore del vescovo con il figlio di Tetberga e Suppo «ex genere Franchorum», esponenti di una famiglia vicina al marchese e detentrice di cospicui possedimenti in Valdelsa. Tale Tetberga, figlia di quel Guinildo che aveva venduto beni al marchio nel 975 e sposata a Suppo di stirpe franca, agì da connessione – in analogia con donne del “secolo di ferro” più conosciute di lei, come Marozia – fra due sistemi di potere e di relazioni sociali: quello dell’apparato marchionale e quello dell’élite volterrana59.
Nel 992 Adalberto del fu Ildibaldo (degli Ildizzi), dopo aver pagato un ammontare di 1000 soldi d’argento alla vedova di Suppo ed essere entrato in possesso di una serie di immobili, vendette quanto acquistato a un Gheradeschi, Teuperto di figlio del fu Rodolfo60. I beni al
59Chi era questo Suppo che, come elemento di distinzione sociale, sentiva l’esigenza di dichiararsi
«ex genere Franchorum»? Non si sa, ma certo non va trascurato il suo radicamento patrimoniale in Valdelsa, zona con un’alta concentrazione di fiscalia, il che mi porta a dedurre che fosse un fidelis di Ugo marchese. È stato infatti affermato che egli «doveva essere un membro della società franca venuto in Italia nel periodo di governo dei re Ugo e Lotario e del marchese Uberto, e poi “recuperato” nel periodo ottoniano nel momento dell’insediamento in Tuscia del nuovo marchese» (Puglia, La
marca di Tuscia, cit, p. 51).
60 L’atto in AVV, n. 35 (cfr. RV, n. 82; ed. in Inghirami, I più antichi documenti, cit., n. 25). Teuperto
non si fregiò mai del titolo comitale (cfr. Ceccarelli, “I conti Gherardeschi e le origini del monastero”, cit., p. 54). Egli è attestato nelle carte volterrane per es. nel 993, allorché stipulò un negotium con Orso figlio di Azzo di buona memoria: quest’ultimo si impegnò, previo pagamento di 20 soldi d’argento, a non danneggiarlo nel possesso di «integris casis seu terra et vinea et fundamento tuo illo que est in loco et fundo ubi dicitur Serra que est prope castello di Tremali et est infra iudiciaria de plebe Sante Marie sito Sursciano»; beni che Urso gli aveva venduto con un precedente negotium (AVV, n. 36; ed. in Inghirami, I più antichi documenti, cit., n. 18, con datazione al 977). Sull’ubicazione delle località viene incontro una cartula commutationis del 954(AVV, n. 22; ed. in Inghirami, I più antichi documenti, cit., n. 11) fra il vescovo Boso e tre fratelli (Donato detto Guinizzo, Grimaldo e Sielmo, figli di Aripaldo di buona memoria). Essi ricevettero «una peciam de
centro del negotium riguardavano «locas et fundas ubi dicitur prima casa et curte et rebus donnicata seu castello et turre ubi dicitur Puliciano cum ecclesia illa qui ibi est edificata et est in onore sancti Iohanni, alia vero casa et curte et erebus domnicata seu castello et turre in Monte Agutulo cum ecclesia illa qui ibi est edificata in onore beati sancti Laurentii». Non è illogico ritenere che le possessioni elencate dal documento fossero in origine beni fiscali inseriti nelle grandi curtes valdelsane della Marca e finiti poi nella disponibilità dei quadri del potere pubblico localmente eminenti61. Nel 994 Teuperto rivendette i beni di Tetberga e Suppo ad Alberico, figlio del buona memoria Alberico conte, per la medesima somma di partenza (1000 soldi). Le motivazioni di questa trafila purtroppo ci sfuggono. I due dati certi da tenere in conto sono che gli Ildizzi vi agirono da mediatori, e che Tedice era organico al potere di Ugo il Grande in Tuscia62.
terra in loco et vokabulo qui dicitur Trimali prope ipso castello» pertinente alla corte di San Magno, nella iudicaria della pieve di San Giovanni di Sorciano; e diedero alla Diocesi «duobus pecie de terre in loco et vocabulo qui est longo fluvio Quarta». Per Santa Maria di Tremoli cfr. PIEVI, 50.22. Sorciano è in Valdimerse (cfr. REPETTI, V, pp. 434 – 435). Da notare che in entrambi i luoghi sono presenti beni sia dell’Episcopio che dei tre fratelli, e che la datatio topica riporta «actum Voloterre loco Sancto Magno». Quindi, a Trimali, a ridosso della curtis vescovile, esisteva un castello; castello nel quale il presule, con la permuta dianzi richiamata, cercava forse di innestare un condominio castrense, appoggiandosi a una famiglia della piccola aristocrazia di ceppo non funzionariale. La chiesa di San Magno, sede del caput curtis vescovile, non fu incastellata, ma fu scelto invece un luogo finitimo evidentemente più strategico.
61 Pulicciano è presso Gambassi: cfr. REPETTI, IV, p. 684; la sua chiesa intitolata a San Giovanni è
nel piviere di Cellole (PIEVI, 9.12). Montauto è a sud di San Gimignano (cfr. REPETTI, III, p. 271). Per l’altare di San Lorenzo cfr. PIEVI, 20.42.
62 Il documento con cui gli immobili furono rivenduti in AVV, n. 37 (cfr. RV, n. 84; ed. in Inghirami, I più antichi documenti, cit., n. 26). Che essi fossero di origine fiscale può forse indurlo a ritenere
anche la fondazione, presso Pulicciano, del conobio di Fonte Pinzaria, effettuata, come si vedrà fra poco, proprio dai discendenti di Suppo. Di Alberico, allo stato attuale, non so nulla. Egli non compare mai né nei diplomi né nei placiti; solo una volta, nelle carte private lucchesi, mi è riuscito di rintracciare quelli che – credo – siano i suoi figli: «Alberto et Uido clerico, germani filii bone memorie Alberichi qui fui comes», segno che Alberico non era riuscito a dinastizzare la propria carica comitale (o che l’aveva persa a seguito delle lotte fra Arduino ed Enrico II). Costoro donarono al monastero lucchese di San Salvatore a Ponte Bonifili alcuni pezzi di terra che confinavano con le proprietà, fra gli altri, del conte Ugo Gheradeschi. Il doc. in Archivio Arcivescovile di Lucca, Carte
dell'XI secolo, dal 1031 al 1043, a c. di Lorenzo Angelini, Pacini Fazi, Lucca, 1983, 1032, n. 10. Per
Tedice cfr. Ceccarelli, “I conti Gherardeschi”, cit., p. 170. Tedice era fratello di Rodolfo, e compare, in svariate donazioni, nel seguito del marchese. Che si trattasse di un prestito su pegno fondiario, contratto in beneficio di Ugo, da parte della famiglia del suo fidelis (?), e restituito due poi anni dopo? Non è possibile affermarlo con sicurezza. Certo è però che dopo la morte della regina Teofane, nel giugno del 991, il marchese Ugo si stava apprestando, su ordine e per conto della Corte imperiale, alla spedizione nell’Italia meridionale, effettivamente condotta nel 993 nel mezzo fra la prima e la seconda compravendita. È possibile dunque che tutta l’operazione si configurasse come l’accensione
Il suocero di Suppo e nonno di Adelmo, Guinildo del fu Camarino, entrato nel 975 in affari con Ugo, era da anni in relazione con il Vescovado. Il 14 giugno del 971 costui aveva infatti concluso con Pietro III un’ingente permuta, con la quale aveva ceduto al presule tre moggi e 22 staia di terreno a viti e orti, 12 moggi e 16 staia coltivati, 4 moggi e 6 staia arabili e 15 moggi e 4 staia a sterpeto presso Colle in Valdelsa e San Gimignano, ricevendo come contropartita alcuni appezzamenti e un’altura (sostantivo dalla valenza particolare nel momento storico dell’incastellamento incipiente) nel piviere di Morba63. Se da un lato
Suppo, forse in qualità di vassus domni regis / imperatoris, rientrava fra coloro che si legarono al potere marchionale, dall’altro il suocero Guinildo s’inserì a buon titolo nel 975: costui, che agì da sostegno al potere e al radicamento di Ugo il Grande nel Volterrano, proveniva probabilmente dalla locale élite di notabiliores, i quali disponevano di ingenti possedimenti immobiliari da adoperare nella tessitura di relazioni con personaggi importanti come i presuli e gli esponenti del publicum.
di un mutuo da parte del marchese per finanziare la spedizione diretta verso le terre longobarde (cfr. Antonio Falce, Il marchese, cit., pp. 16 – 19). Abbiamo almeno un altro caso in cui i conti Gherardeschi furono coinvolti in operazioni immobiliari, nelle quali Tedice figurò come co-creditore (cfr. Nobili, “Le terre obertenghe nelle contee di Pisa, Lucca e Volterra”, in Studi di storia medievale e moderna su Vicopisano e il suo territorio, Pacini, Pisa, 1985, pp. 35 – 47; ora in Idem, Gli Obertenghi e altri saggi, CISAM, Spoleto, 2006, pp. 215 – 227).
63 Il primo doc. è edito in Falce, Il marchese, cit., n. 1; il secondo in Inghirami, I più antichi documenti, cit., n. 12, con datazione errata (AVV, n. 23; RV, n. 48, con fraintendimenti di lettura).
Sulle unità di misura adoperate cfr. Conti, La formazione, cit., pp. 97 e segg.: un moggio corrispondeva a circa 585 litri, ovvero a 1/6 di ettaro. Per la pieve di Morba cfr. PIEVI, n. 34.0; per le altre località valdelsane cfr. n. 6.0. Una decina d’anni fa Luigi Provero (“Apparato funzionariale e reti vassallatiche nel Regno italico”, in Formazione e strutture dei ceti dominanti nel medioevo:
marchesi, conti e visconti nel Regno italico (secc. IX – XII). Atti del terzo convegno di Pisa: 18-20
marzo 1999, a c. di A. Spicciani, III, Nuovi Studi Storici, pp. 174 – 232, ISIME, Roma, 2003) ha posto all’attenzione degli specialisti l’importanza delle relazioni orizzontali anche nell’ambito delle regioni rette da un apparato d’ufficio. Non solo questo tipo di reti non costituiva un’alternativa all’ordinamento pubblico, bensì gli era complementare, lo integrava e, anzi, alle volte, lo sostituiva. Seppure non vi si sia menzione apertis verbis di un qualche legame di fidelitas fra Guinildo e il marchese, neppure sottinteso alle parole del negozio, l’impressione è che ci si trovi nel mezzo alla transizione fra il modello carolingio, quello in cui il sovrano era la fonte prima dell’honor ed essere nell’entourage regio o di un alto ufficiale del Regno costituiva un elemento di distinzione; e il modello signorile, in cui a contare davvero erano i castelli, i legami trasversali e il tasso di radicamento attraverso il patrimonio fondiario. Anche la Marca disponeva di queste leve a dislocazione locale, e poteva azionarle a seconda delle esigenze del momento con l’intensità più congeniale. «In Tuscia la fase di massimo potere dei marchesi corrisponde al periodo in cui il legame con i funzionari minori assume forme vassallatiche e i vassalli regi rientrano nella clientela marchionale» (Provero, “Apparato funzionariale”, cit., p. 212).