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Sappiamo non solo che Ruggero si avvaleva di clientele sia pisane che volterrane, ma che quelle pisane confluivano in quelle volterrane e viceversa. Prendiamo per esempio la figura di Truffa, nipote di Uberto visdomino della Mensa volterrana, e padre di Lampretto, anch’egli vertice dell’amministrazione vescovile58. Truffa fu in relazione con l’intera Chiesa

cittadina, ed è regolarmente attestato negli atti più importanti che coinvolsero Ruggero59. Anche Truffa era implicato nell’amministrazione vescovile: il nome Struffa potrebbe derivare dal processo di velatura onomastica messo in luce da Collavini (per cui Truffa > Struffa), anche se potrebbe trattarsi di un para-intensivo (del tipo cancellare > scancellare).

57 Per Arezzo, i cui presuli erano stati da Enrico III dotati di potere di placito e distretto, Delumeau

sottolinea come il placito si fosse trasformato da assemblea d’esercizio della giustizia comitale ad assise dei vassalli della Curia. Cfr. Arezzo, cit., pp. 296 e segg.

58 Le carte della badia volterrana ci permettono di gettare una luce più vivida sulla sua figura. Nel

1105, per esempio, troviamo che la moglie di Truffa si chiamava Sichembana del fu Tedaldo, allorquando i due coniugi offrirono al monastero dei santi Giusto e Clemente beni nelle località pericittadine di Terrinchia, Prunalbo, Camporise e al Castagno (GHERARDINI, n. 86). Sichembana aveva una sorella, Malotta, vedova di un certo Manso: ella, col consenso della sorella e del cognato, donò alla badia alcuni beni che già Uberto del fu Bello aveva avuto in locazione (GHERARDINI, n. 88). Infine, nel 1112, Truffa e la consorte donarono al cenobio dei beni situati a Fagiano (GHERARDINI, n. 92).

59 29 dicembre 1105 (Cavallini, II, n. 12); 19 ottobre del 1125, quando Ranieri fu Pagano donò alla

Canonica i propri beni in Ghezzano, Pianzano, Brento (Cavallini, II, n. 44); 5 giugno 1126, quando il prete Tebaldo del fu Ildebrando offrì alla Canonica le terre che aveva nel piviere di Villamagna e nelle corti di Montise e di Vico (Cavallini, II, n. 45); infine, uno dei figli, Tebaldino detto Salaio, è attestato il 24 ottobre del 1131 (Cavallini, II, n. 53), quando Gualfredo di Ranieri donò alla cattedrale i propri beni in Pianzano e Ghezzano. L’altro figlio, Lampretto, sarebbe stato attestato solo alla metà del secolo (Cavallini, II, n. 77).

Come che sia, «Truffa quondam Corradi» ritroviamo al seguito di Ruggero anche quando quest’ultimo operava in veste arcivescovile: nel 1129, il prelato comprò a Casole, per 3540 soldi, i beni che l’abbazia di Marturi possedeva in Valdera e a Vicopisano60. Anche un altro

testimone del negozio valdelsano, Teberto del fu Sasso, compare nelle carte volterrane il 16 novembre del 1108, nel già menzionato affare coi Gualandi, dove porta la qualifica di advocatus Ecclesie vulterrane; e allo stesso modo succede per Enrico del fu Gualfredo, anch’egli presente a Casole e anch’egli già in relazione coi Gualandi61. Sembra insomma

costituirsi, a fianco del vescovo, un vero e proprio “ceto capitaneale”, in analogia, per es., alla situazione aretina sottolineata da Delumeau e a quella meglio documentata delle diocesi lombarde. In questo ceto gravitante intorno all’ordinario diocesano, l’amministrazione vescovile volterrana e quella arcivescovile pisana comunicarono l’una con l’altra con un certo grado di osmosi. Fu questa commistione a confondere i testimoni di parte volterrana chiamati a deporre nella vertenza di Montevaso laddove molti di costoro affermarono che il vescovo – e non l’arcivescovo – aveva cavalcato su Montevaso insieme a Truffa62.

5.5.

Il vescovo e la guerra.

Ruggero fu anche il primo presule ad assumere su di sé connotati esplicitamente guerreschi. Che il prelato andasse alla guerra come un vero e proprio miles lo fanno sapere gli Annales Senenses, editati da Friedrich Böhmer negli MGH, che all’anno 1129 riportano che Ranieri vescovo di Siena «invenit archiepiscopum pisanum a Senensibus captum»63. Anche se l’annalista non fa riferimento alla cattedra volterrana, è chiaro che era

60 Per Truffa cfr. Schneider, “La vertenza”, p. 12. La trattazione di Collavini in “Sviluppo signorile

e nuove strategie onomastiche. Qualche riflessione sulla percezione e la rappresentazione della violenza in Toscana nel XII secolo”, in Studi di storia offerti a Michele Luzzati, cit., pp. 73 – 85. Per le compravendite da arcivescovo (una cartula venditionis e un breve recordationis) cfr. CAAPi, cit., nn. 75 e 76, pp. 146 – 147 e 148 – 149.

61 Cfr. AVV, nn. 99 e 100 (RV, nn. 145 e 146, con datazione errata). La qualifica di avvocato è un apax.

62 Per la situazione aretina descritta da Delumeau e la gerarchizzazione del ceto capitaneale da parte

dei vescovi (in ispecie Costantino) cfr. Idem, Arezzo, cit., pp. 296 e segg.

63 Cfr. quanto afferma Davidsohn parlando di Cristiano di Magonza: «quand’egli cavalcava avvolto

nel suo mantello scarlatto, che ondeggiava sopra la corazza scintillante, con l’elmo dorato che gli rifulgeva sul capo simile a un sacerdote di qualche divinità guerresca, nessuno avrebbe pensato che la sua missione fosse stata quella di somministrare i Sacramenti in nome di Colui il quale voleva portare la pace nel mondo» (Storia, cit., I, p. 770). Gli Annales Senenses nella sezione “Scriptores”, XIX, pp. 225 – 228.

l’arcivescovo pisano che i Senesi si vantavano di aver catturato, in virtù della sua dignità metropolitica. L’altra attestazione viene invece da Bruno di Strido, testimone di parte volterrana nella vertenza di Montevaso: egli «vidit Struffam et plures alios equites, qui dicebant esse cum Rogero vulterrano episcopo et ire et ascendisse in Montemvasi, ut dictum est ei. Episcopus ascendit cum illis pro suo». Ruggero dunque faceva la guerra, accompagnato dagli equites del suo entourage. Accanto ai grandi feudatari, infatti, una cavalcatura montavano anche i contadini che avevano fatto fortuna, e gli «allodieri ricchi abbastanza per acquistare un costoso equipaggiamento e disporre di tempo sufficiente per addestrarsi a usarlo»64.

Siamo avanzati di una lunghezza rispetto all’ultimo argomento trattato da Prinz65, la figura

dell’arcivescovo Bruno di Colonia: Bruno impugnava le armi a difesa della pace nell’Impero, combattendo la dissentio in quanto Chiesa e Impero, nell’ideologia imperiale, si identificavano66. Ma qui la Weltanschaung è schiettamente signorile: il meccanismo prinziano funzionava ora nell’assenza o nell’intermittenza del Regnum, consentendo a un presule di fare la guerra e di prendervi parte gli stesso, come un qualunque altro signore secolare, per tutelare in prima battuta gli interessi e le possessioni della sua Diocesi.

5.6.

Conclusioni.

Come l’indagine condotta sui documenti ha dimostrato, Ruggero fu portatore di un nuovo e inedito modus operandi nel condurre la Diocesi di Volterra: egli, per estrazione, per storia familiare, ma soprattutto, c’è da ritenere, per habitus e consuetudine, era avvezzo a un mondo – quello delle campagne lombarde – in cui il feudalesimo aveva da tempo messo radici67. Si

trovarono in lui a comunicare due regioni e due linee di tendenza differenti: la Tuscia, nella quale i livelli, specie quelli particolarmente consistenti, avevano assunto caratteristiche analoghe a quelle dei benefici vassallatici; e la Lombardia, nella quale, per converso, i

64 Jean Flori, Cavalieri e cavalleria nel medioevo, Einaudi, Torino, 1999, p. 29 (trad. it. di Stefania

Pico e Marisa Boaf dell’orig. Chevaliers et chevalerie au Moyen Age, Hachette, Paris, 1998).

65 Clero e guerra, cit., pp. 215 e seg. (capitolo VI).

66 «La pax ecclesiae include in sé l’energica conservazione della pace secolare al punto che si può

parlare di una voluta ambivalenza del concetto di pax tanto nell’ambito religioso quanto in quello secolare, ambivalenza che postula il diritto di intervento in situazioni al di fuori della Chiesa con tutti i mezzi disponibili». Prinz, Clero e guerra, cit., p. 233.

benefici venivano sottintesi nel formulario tipico dei livelli. È altresì vero che Ruggero concesse un solo livello (quello già rammentato del 1126), ma a quest’inversione di tendenza rispetto ai predecessori – che starebbe in pendant perfetto con quanto si è detto – non si accompagna nessun apparente cambiamento nelle forme del documento, in tutto e per tutto simile agli atti livellari dei predecessori.

Quello che più conta è però che non solo in Lombardia e nelle campagne della pianura padana si faceva un uso esplicito della terminologia feudale, ma che colà le famiglie di ufficiali pubblici avevano trovato nel vassallagio vescovile il proprio vettore di distinzione sociale. Anche i Gisalbertini ricevettero dai presuli ampi territori, vincolati all’omaggio e alla fidelitas68: a queste pratiche costoro erano avvezzi almeno dal 1036, quando il vescovo

di Cremona, Ubaldo, imbeneficiò una serie di pertinenze e diritti ad Arduino II, conte di Bergamo e avo di Ruggero69. Come ha rilevato Menant, infine, Ruggero non arrivò in Toscana da solo, bensì accompagnato da alcuni parenti portatori, come lui, di una mentalità feudale: nel 1114, a San Gemignano, si ha notizia di Ruggero del fu Gislezo, fratelloo ancora minorenne del vescovo70.

Da ultimo, occorre rilevare che il Gisalbertini fu il primo bi-vescovo, ovvero il primo a tenere insieme le Sedi pisana e volterrana. Anche se non è possibile precisare meglio i cambiamenti di amministrazione e pratiche di governo seguiti all’accorpamento dei due incarichi pastorali in una sola persona, occorre almeno rilevare che, a parte il placito di Morrona, la documentazione del presule a Volterra è assai scarna. Ciò tuttavia potrebbe non essere direttamente ascrivibile a un calo reale della sua attività (si ponga mente che fu lui a consacrare la cattedrale cittadina, ed egli fu sepolto nel sarcofago che era stato di Gunfredo), bensì al carattere prevalentemente orale e non-scritto dei giuramenti di ascendenza feudale (cfr. oltre).

68 Si veda il capitolo “I vassalli vescovili nei secoli X e XI”, in Keller, Signori, cit., pp. 219 e seg. 69 Cfr. Violante, “Fluidità”, cit., pp. 24 e seg. (ed. pp. 37 – 39).

6.

L’episcopato di Crescenzio.

6.1.

La transizione difficile.

Ruggero morì probabilmente nel 1132, e il successore Crescenzio si trovò a gestire una situazione estremamente complicata dal punto di vista politico, dovendo la Curia fronteggiare l’ostilità dei Gherardeschi e dei Senesi. Se da un lato si sa che il trattato di pace con la schiatta comitale è del settembre 1133, dall’altro non si conosce il momento del passaggio dall’inimicizia alla guerra aperta1. In aiuto dello storico viene tuttavia una fonte

agiografica, la raccolta approntata da Agostino Fortunio intitolata Vita et Miracula Sanctorum Iusti et Clementis, a cui attinsero i padri Bollandisti per la compilazione degli Acta Sanctorum2. Quello che ci interessa sono i riferimenti che la fonte, elencando i prodigi compiuti dai due confessores volterrani, fa al periodo immediatamente successivo alla morte del Gisalbertini. Facendo interagire la fonte agiografica con le carte d’archivio è possibile disegnare una cornice verosimile in cui inserire il quadro delle vicende. Partiamo da un assunto cronologico, ovvero la morte di Gualfredo da Pichena avvenuta fra il marzo e l’agosto del ‘333.

Essendo ancora in vita Ruggero, i Gherardeschi dovettero parteggiare per la coalizione pisana che si contrapponeva a Siena e al marchese Corrado, morto nel 1130. Ciò è testimoniato dal miracolo XXI, in cui «Corradus marchio», conquistato il «castellum

1 Secondo la Ceccarelli (“Cronotassi”, cit., pp. 45 – 46), Crescenzio fu in carica dal 1133 a un anno

compreso fra il 1135 e il 1137. L’edizione degli accordi in Ceccarelli, “Il lodo”, alle pp. 25 – 28.

2 L’ed. del Fortunio uscì a Firenze nel 1568. Fra le pagine 71 e 89 sono raccolti una ventina di

miracoli medievali dei due confessores, messi per iscritto – ci dice il Fortunio, il quale assembla materiale trovato presso la badia periurbana – intorno al 1140. Purtroppo il componimento è rimasto ai margini del panorama storiografico volterrano, a parte alcuni brevi accenni del Davidsohn e degli storici toscani (cfr. p. es. cfr. Puglia, “Dedicazioni e culto dei santi a Volterra nell’età precomunale e comunale tra istituzioni ecclesiastiche e civili”, in La santità nella Toscana medioevale (secoli XI-

XV) tra città territori, diocesi e ordini religiosi, la prospettiva istituzionale, ETS, Pisa, 2010, pp. 157

– 202, pp. 173 – 174). Per un valido approccio all’agiografia medievale cfr. Paolo Golinelli, “Italia settentrionale (1130-1220)”, in Hagiographies: Histoire internationale de la littérature

hagiographique latine et vernaculaire en Occident des origines à 1550. International History of the Latin and Vernacular Hagiographical Literature in the West from its Origins to 1550, a c. di Guy

Philippart e Monique Goullet, Brepols, Turnhout, opera cominciata nel 1994, I, pp. 125 – 153.

3 Gualfredo era ancora vivo a marzo (cfr. AVV, n. 120; Cavallini, II, n. 54), ma già morto in agosto

Bulgari», conduce i prigionieri nella torre di Selvoli, «prope Senas»4. Sconvolti, i carcerati cominciano a pregare e a implorare l’aiuto divino: san Giusto appare loro, gli infonde coraggio e li libera dai ceppi. Poiché Bolgheri era un castello gherardesco, e «poiché la presa di Bolgheri era in funzione antipisana, potremmo affermare che i discendenti di Gherardo erano schierati dalla parte del Comune di Pisa»5.

Le cose mutarono però nel giro di pochi anni, almeno se seguiamo il filo di altri due miracula di Giusto e Clemente. Il XIX prodigio narra delle torture che quasi ogni ora Gualfredo di Pichena infligge a un prigioniero pisano di nome Trambo. Il seviziato, dopo essersi votato ai due santi, riesce, con il loro aiuto, a rompere i ceppi e a scappare, in una vicenda che ci parla di aggressioni esplicite fra i seguaci della Curia volterrana e i Gherardeschi. Poniamo mente a chi sono i due protagonisti del racconto: l’aguzzino, Gualfredo, è colui che nel marzo del ’33 si era legato alla Diocesi, mentre Trambo è forse da identificare con il Trambo del fu Tornolo che testimoniò, il 10 agosto nel 1130, in un atto pisano riguardante i Visconti di Pisa, imparentati come si sa coi Gherardeschi6. Cartina tornasole del conflitto è infine il XX miracolo, nel quale il prete Guglielmo, «presbitero de Serena», è catturato «ab Ugone Guidonis filio» e poi liberato per intercessione dei confessores. È chiaro che il carceriere non è altri che il conte Ugo di Guido II, defunto prima del 1133, mentre è lecito considerare il sacerdote come un sostenitore della causa vescovile.

Riepilogando quanto affermato fin qui, la guerra fra Curia volterrana e Gherardeschi è da collocare intorno al 1133, probabilmente in seguito alla morte del vescovo Ruggero, in un momento nel quale la schiatta comitale probabilmente approfittò del periodo della vacatio episcopale per allargare il proprio dominio in Valdimerse, scatenando la reazione del presule Crescenzio. Lo scontro fu probabilmente violento e senza esclusione di colpi, essendo i conti più che ben radicati nel territorio finitimo alla badia di Serena7. Si trattava anzi dello scontro

4 La numerazione che do dell’opera del Fortunio non è quella dei paragrafi, bensì quella, in valore

assoluto, della successione del miracoli. Cfr. Davidsohn, Storia, cit., I, p. 601 e passim.

5 Cfr. Ceccarelli, “Il lodo”, cit., pp. 12 – 13. 6 Cfr. Caturegli, Regestum, cit., n. 313.

7 Il cenobio era diventato la caneva patrimoniale e fondiaria dei conti, protetta dalla tuitio regia

accordata da Enrico V nel 1111, a cui i fondatori attinsero i capitali per la propria affermazione territoriale in Valdera e nelle zone finitime alla diocesi di Lucca: nel 1116 Ranieri stipulò una serie

forse più pericoloso affrontato dalla Curia, giacché condotto in un territorio che gli avversari controllavano capillarmente.

6.2.

Le aristocrazie del territorio.

6.2.1. La pace coi Gherardeschi.

Con l’arrivo a Pisa di Innocenzo II, tuttavia, fu stilato un accordo di pace in base al quale i figli del conte Ugo di Guido II (Guido IV, Tedice, Pepo e Monaco), insieme alla madre Gena, «presente et iubente donno papa Innocentio, coram multitudine episcoporum, cardinalium, clericorum ac nobilium virorum», incassarono il giudizio sfavorevole di un arbitrato articolato in una decina di punti. Proponendosi di porre fine alla sequela di «homicidiis, rapinis, incendiis, dannis vel offensionibus» (si noti il climax discendente), e promuovendo la conciliazione fra i conti e l’entourage vescovile (fra cui figura Gualfredo di Serena, stretto collaboratore di Crescenzio8) gli arbitri stabilirono che: a) i conti

prestassero al vescovo «ligium hominium et fidelitatem erga omnes homines», ovvero l’omaggio ligio; b) Gena e i figli mettessero a disposizione del vescovo il castello di Frosini in caso di bisogno da parte del presule; c-d) i conti rinunciassero a molestare la Diocesi nel possesso della metà del castello di Chiusdino e non vi edificassero torri; condizioni analoghe avrebbero dovuto giurare coloro che abitavano nell’altra metà del centro, data precedentemente in feudo ai Gherardeschi; e) lo stesso giurassero la contessa e i figli per i castelli di Montalcino e di Montieri; f) i conti non ricostruissero il castello di Serena; g) il vescovo concedesse ai Gherardeschi Frosini e metà di Chiusdino, di modo che costoro

di accordi con l’abate Ugo, ribadendo un prestito di 200 soldi che il padre aveva contratto con l’ente cenobitico. Una cifra elevata, che tuttavia scomparisce al confronto con i debiti contratti da Ranieri I e da Guido II, 240 lire e 360 lire, i quali peraltro indicano che la garanzia messa sul tavolo dai conti (il castello di Colcarelli, donato a Serena dai conti e ogni volta adoprato in questo genere di operazioni creditizie) era simbolica. Negli stessi anni, infine, l’abate Ugo era entrato in possesso dei beni che la Diocesi di Lucca deteneva «a flumine Cecina usque ad episcopatum rosellense», cedendo la metà delle proprietà della badia «a flumine Cecinae usque ad flumen Arni» : «in tal modo l’abbazia alienò le proprietà poste nella diocesi lucchese, nelle valli dei fiumi Egola, Chiecina, Era, Cascina e Isola, in una zona cioè in cui il vescovo di Lucca cercava di rafforzare il proprio patrimonio e la propria influenza nel vano tentativo di contrastare la crescente egemonia pisana» (tutti i riferimenti in Ceccarelli Lemut, “Venerabilis”, cit., p. 130 e seg.).

operassero in armonia con la Curia volterrana. Seguono poi giuramenti analoghi che altri esponenti della domus si impegnarono a rispettare, anche con la concessione di significativi pegni fondiari a garanzia degli accordi: Lotario, genero di Ugo membro della già rammentata schiatta dei conti di Cevoli, diede per esempio in pegno «quicquid habet in Monte Cucheri»9. Il documento annesso al principale, riportato di seguito nell’edizione della Ceccarelli, riprende le disposizioni del precedente, salvo invero una nuova obbligazione: «laudamus etiam atque precipimus ut pro equis et armis in Miraldolo perditis triginta libras lucensium monete Gene comitisse episcopus reddat».

Si apprende così che il vescovo aveva devastato Miranduolo, piazzaforte gherardesca, provocando un ingente danno in termini di uomini, armi e cavalli, valutato 30 lire10. L’evento distruttivo è peraltro in linea con quanto rilevato dagli archeologi dell’Università di Siena nelle recenti campagne di scavo, i quali hanno definito periodo IV (secondo quarto XI - prima metà XII secolo) quello che «si conclude con la distruzione da parte delle milizie volterrane»11. Oltre alla guerra portata fin dentro Miranduolo, il Vescovado aveva anche assaltato il castello di Serena, la cui distruzione può essere valutata in più modi: per un verso, la preda del fortilizio che ospitava l’abbazia aveva privato la domus gherardesca di un castello strategico; ma, per un altro, a una lettura più approfondita, aveva inficiato la sua

9 Lotario era forse figlio di Ranieri e nipote di Ardengo II. Brancoli Busdraghi (“«Masnada» e «boni

homines»”, cit., nota 80 a p. 316) riconduce l’insolita apparizione del sostantivo «hominium», impiegato per descrivere la sudditanza instaurata fra Gherardeschi e vescovi, a infllussi della Curia romana.

10 Non sappiamo quanti fossero i cavalli ma, certamente, essi rimandano a quegli equites de masnada

citati ad esempio nel testamento dell’ultimo conte cadolingio, per i quali cfr. Brancoli Busdraghi, “«Masnada» e «boni homines»”, cit., p. 308.

11 Si veda il bel portale web del Dipartimento di Archeologia medievale dell’Università di Siena:

http://archeologiamedievale.unisi.it/miranduolo/lo-scavo/. Il castello doveva costituire un avamposto estremamente strategico per Gena e i suoi figli: prova ne sia che qualche anno prima, intorno alla metà dell’XI secolo, la famiglia aveva investito molte energie sull’insediamento, tanto che è possibile «ipotizzare che nuove maestranze siano subentrate, per volere signorile, nel cantiere di costruzione del muro di cinta nella parte sommitale dell'insediamento castrense e dell'edificio palaziale: tale sostituzione è collegabile infatti alle trasformazioni edilizie in atto nel castello, in particolare nella parte sommitale, che i Gherardeschi volevano dotare di un palazzo e di un circuito murario in pietra» . Del resto, come afferma Andrea Augenti, «anche l’area volterrana, dunque, sembra essere investita dal fenomeno che tra l’XI e il XII secolo vede il decollo della pietra come materiale edilizio, un fenomeno probabilmente sintomatico della crescente affermazione della signoria rurale» (“Il territorio: le strutture insediative”, in Ottone I, cit., pp. 39 – 45, p. 43).

memoria familiare e la coscienza del patrimonio avito, ovvero il coagulo della solidarietà del casato12.

Infine, si noti l’utilizzo delle relazioni vassallatico-beneficiarie per definire i rapporti fra i due contendenti: nella pace venivano di fatto sanzionate sdelle situazioni nelle quali il controllo di alcuni castelli sarebbe stato condiviso fra conti e presule, restando però fermo il