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Nel giugno del 1183 una famiglia eminente dell’alta Valdevola, detentrice del castello di Figline, stipulò un accordo coi consoli di Gambassi articolato in tre punti fondamentali: il castello di Figline sarebbe diventato pertinenza della Chiesa volterrana e del Comune di Gambassi, che vi avrebbe riscosso dazio, prendimento e distretto; i Gambassini avrebbero consegnato ai donatori 4 piazze nel castello nuovo di Gambassi, dentro il quale questi ultimi avrebbero dovuto abitare, impegnandosi a difenderlo; infine, i consoli gambassini avrebbero aiutato i donatori a permutare la terra con la Curia15.

L’accordo mostra che a Gambassi, nel 1183, c’erano tre consoli, deputati anche a gestire – sotto la sovranità della Curia di Volterra – la politica “estera” del Comune. Il castello da costruire, che avrebbe dovuto difendere anche i lambardi di Figline, nasceva esplicitamente dalla necessità di avere a disposizione fortificazioni migliori, giacché, come afferma

13 La versione volterrana è in AVV, n. 189 (e appendice alla pergamena) (RV, n. 210). La versione

senese è in Cecchini, Il Caleffo, cit., n. 20 (Reg. Sen., n. 305).

14 Il castello, cit., appendice documentaria, documenti nn. 7 (AVV, n. 232), 9 (AVV, n. 251, datato

all’anno successivo), 10 e 11 (AVV, n. 255).

Ildebrandino da Pievevecchia, i bastioni dovevano essere abbastanza forti «ut tedeschi non possint eos destruere». L’onere della costruzione spettava al vescovo, l’unico capace di coordinare le forze del territorio, il quale assumeva la funzione di difensore di Gambassi sia in quanto signore territoriale sia in quanto patrono del populus della diocesi16.

Sappiamo tuttavia – ancora dalla testimonianza di Ildebrandino da Pievevecchia, che risulta molto informato, se non altro perché fidelis del vescovo – che il primum movens non appartenne al presule, bensì alla comunità: furono i Gambassini che «fecerunt comune vel quasi comune et fuerunt ad episcopum Ugonem et rogaverunt eum ut faceret castrum». Lo spirito d’associazione fra gli abitanti era nato da una necessità concreta e impellente (la difesa), li aveva trasformati in una massa critica nella dialettica col signore ed era riuscito a spingere il presule nella direzione voluta («Ugo faciebat libenter ut dicebat»). Ma che cosa vuol dire, in concreto, «fecerunt comune»? Ritengo sia possibile tradurre questa locuzione con “fecero un giuramento”, sulla scorta di quanto rilevato da Wickham nel caso di Moriano, intendendo con ciò che i Gambassini si impegnarono solennemente a perseguire un interesse comune e condiviso17.

Ma nel decennio compreso fra i primi anni ’70 – quando Cristiano di Magonza guerreggiava in Valdelsa – e il 1183, il Comune di Gambassi passò dalla «forza morale del giuramento» a «un insieme di poteri riconosciuti e ben definiti», di cui i tre consoli erano titolari all’ombra e con l’avallo del potere vescovile (uno dei consoli, Ghiotto, ritroviamo infatti fra i testi addotti dalla Curia). Paradigmatico è che a stipulare una convenzione di mutuo soccorso furono i consorti di un fortilizio e i consoli di una comunità locale, agenti questi ultimi da mediatori col proprio signore18: un patto che solitamente vedeva impegnarsi due contraenti,

16 Un riferimento alle violenze delle milizie provenienti dalla Germania è contenuto anche nel

testimoniale relativo alla santità di Galgano edito in F. Schneider, “Der Einsiedler Galgan von Chiusdino und die Anfaenge von S. Galgano” in Quellen und Forschungen aus italienischen

Archiven und Bibliotheken, XVII (1914-1924), pp. 61 – 77: «Theutonici eum [scil.: s. Galgano]

ceperunt et eo in saccho manibus post tergum iunctis misso cuidam custodi tradiderunt» (Martino di Fogali).

17 Cfr. Comunità e clientele nella Toscana del XII secolo. Le origini del comune rurale nella Piana di Lucca, Viella, Roma, 1995, pp. 93 e seg. (“Signoria e comune a Moriano nel XII secolo: le

istituzioni”, cap. IV, da cui son tratte le citazioni seguenti).

18 «Il Comune cosiddetto “rurale” o di castello non è un soggetto politico di rilievo. Esso rimane

espressione di autonomia organizzativa e centro di gestione del territorio costituito anche nell’interesse del signore, che in questo modo responsabilizza localmente un gruppetto dirigente,

un dominus e gli abitanti di una località a cui si consegnava un luogo sicuro per la difesa, coinvolse ora, nell’urgenza di approntare il castello novo, tre soggetti: lambardi, consoli e vescovo19.

Su tutti però si elevava il diritto eminente della Mensa volterrana, che possedeva la località come un «proprium allodium» (Ghiotto), riscuotendone placiti, bandi e pedaggi (Orlandino) ed esercitandovi le prerogative di curia. Dal testimoniale si evince che coloro che donavano a Ugo un terreno per il nuovo cantiere ricevevano diritti sul castello, diventandone domini, cioè titolari di prerogative signorili: essi erano i parenti di Ghiotto (della domus Uselminga), i figli di Tignoso e i figli di Arrigo, e a loro, oltreché alla Chiesa volterrana, spettavano quote del poggio sul quale probabilmente si ergeva il cassero20. Ugo, una volta ottenuto il terreno,

e costituito il perimetro delle mura, suddivise l’area in lotti edificabili, i casalini; e, radunati i Gambassini dove avrebbe dovuto sorgere la domus ecclesie, scelse tre di loro per distribuire le preselle: Marmoraio, Mainetto e Cinotto (Cigolino da Pompona). Se del terzo non sappiamo nulla, del primo si sa che fu presente (insieme a Mainetto) al giuramento dei lambardi di Figline a Gambassi, che conduceva in affitto terra vescovile, che il di lui padre disbiadò la terra dei figli di Paltoniero per il vescovo Aldemaro e che il di lui figlio depose in favore della pars vescovile.

Se le forze endogene alla comunità ebbero un peso importante, furono parimenti decisive le spinte provenienti dall’alto, dall’azione diretta del presule: da un lato quest’ultimo selezionava quelle «figure locali che facessero funzionare la giustizia signorile»; dall’altro, il dominus, allorché riuniva tutti gli abitanti in assemblea, metteva in moto e agevolava egli

anche nel proprio interesse» (Mario Ascheri, I diritti del medioevo italiano, Carocci, Roma, 2000, p. 172).

19 «Il signore, vescovo o laico, stipula con un gruppo di <homines>, o con gli <homines> di una

Corte, un contratto per la costruzione di un castello, oppure dà a livello un <castrum>: i concessionari saranno tenuti solidalmente al lavoro, all’obbligo degli oneri, prestazioni, costodie ed al giuramento di fedeltà; in cambio prenderanno dimora nel castello e nel borgo e riceveranno <in feudo> una terra che si divideranno tra loro, costituendo un consorzio» (Vaccari, La territorialità, cit., p. 76).

20 I poteri di curia, che Ugo aveva in parte delegato al Comune, comprendevano l’alta giurisdizione

e riguardavano prerogative come le ambascerie e la gestione dei beni dei morti sine heredibus. I

domini castri, invece, erano consorti del castello, nel senso che ne condividevano una parte di

proprietà e ne amministravano alcune prerogative (come la difesa: Orlandino, e. g., raccontò che «quando castra custodiebantur bene solebant custodiri de concordia dicti Tiniosi»). Cfr. Vaccari, La

stesso i processi di coesione comunitaria del villaggio («vidit dictum episcopum ita dantem communiter dictis hominibus», Ildebrandino da Pievevecchia»).

La vita all’interno della comunità appare inoltre permeata, in maniera capillare, dagli agenti e dagli intendenti vescovili: non solo questi ultimi costituivano uno dei punti di vertice della diastratia locale, ma essi stessi si adoperavano anche per tessere la tela ben codificata dei rituali del dominio episcopale: entravano nelle case dipendenti dalla Curia e vi esercitavano il diritto alla comestio, uscendone solo la mattina dopo; chiudevano la porta di una casa non più abitata, incamerandola così nella Mensa (si rammenti il rituale della chiusura dell’ostium a Tonda); e riscuotevano pubblicamente i tributi, portandoli a Volterra, dove erano incanevati oppure venduti ai mercati cittadini che già i Carolingi avevano assegnato ai vescovi (Ildebrandino: «et oleum de ea terra vidit castaldum domini episcopi portare Vulterra»).