Soffermiamoci su un testimoniale datato al 7 marzo del 1200 (AVV, n. 228). Si parla del castello di Tonda, poco lontano da Montaione, nella zona nord-orientale del distretto volterrano. Le 16 deposizioni raccolte dal notaio Crescenzio mirano a dimostrare il diritto eminente dell’Episcopio sull’insediamento. I testimoni sono ben informati, perché sanno significare, con un lessico appropriato, le clausole degli accordi sottoscritti fra il vescovo Galgano e il conte Ugo del fu Bernardino: quest’ultimo aveva consegnato a Santa Maria tre spazi castellani, due nel borgo e uno nel fortilizio vero e proprio, a condizione che «si decessisset sine heredibus», dice Dasso, «totum alium suum debebat remanere domino episcopo et Ecclesie de Vulterra»35.
Veniamo quindi a sapere che il conte, al momento della donazione, non aveva eredi legittimi, come si nota inoltre dall’asserzione di Rubbadore ricavata dall’akoè: «audivit comitem
33 Per quanto riguarda ad esempio Arezzo, Delumeau sottolinea l’impressione che le clientele
vassallatiche vescovili crebbero in maniera significativa in relazione anche alla crescita demografica e all’esigenza, da parte dei milites, di affermarsi mediante il possesso di terre e castelli.
34 Sul valore del feudalesimo negli anni di Federico Barbarossa cfr. Tabacco, “La storia politica”,
cit., pp. 167 e segg.: «il legame feudale non di rado appariva prezioso non soltanto per la potenza volta a conservare nella sua sfera d’azione i nuclei di forza emergenti dal suo proprio seno, ma per questi nuclei medesimi: ambiziosi, sì, di affermarsi con la massima possibile autonomia, ma in pari tempo impegnati in una sempre più dura lotta per l’esistenza». Per le strutture familiari e i consorzi, per i quali «risultò opportuno determinare un nucleo centrale di beni comuni che preferibilmente avessero rilevanza giuridica, militare e politica (in città torri, nel contado castelli ma pure prati e boschi che per lo più erano originariamente di diritto pubblico)», cfr. Violante, “Alcune caratteristiche”, cit. (la citazione è a p. 53).
35 Il conte Ugo ritroviamo testimone il 29 aprile 1161 (cfr. AVV, n. 165) in un atto vergato proprio
a Tonda; nelle carte pisane, invece, egli è menzionato nel gennaio del 1158 in una transazione fra l’Arcidiocesi e il monastero di San Casciano di Carigi, nella quale la badia vendette a Villano alcuni fossi a Stagno (Regestum Pisanum, n. 455; ed. CAAPi, n. 23).
Huguicionem dedisse suam rationem de Tonda episcopo Galgano eo tenore ut, si decederet sine heredibus, totum remaneret episcopale de Vulterra». Nell’accordo era compresa anche un’altra condizione, ovvero che Uguccione «debebat secum mor[are] […] pro suo milite usque viveret» (Brugnolo). Anche il racconto di Guiduccio (secondo il quale il vescovo «debebat eum secum tenere») conferma quanto detto. Già la deposizione di Brugnolo è da sola estremamente esplicita: con la dazione dei propri averi, Uguccione, trovandosi senza eredi, entrò di diritto nella curia vasallorum di Galgano, con l’impegno di servirlo come cavaliere finché fosse vissuto.
Questo contratto feudale permeava la memoria collettiva degli abitanti di Tonda, ne costituiva il gossip, la publica fama, cioè quello che si diceva per via, e ciò che s’impiantava nei ricordi di ciascuno36. Tanto più che, dei 16 testimoni, qualcuno ci presenta le vicende non solo per sentito dire, ma anche attraverso l’opsis, la visione diretta. Guglielmo ha visto che la casa di Uguccione fu chiusa dal vescovo col catenaccio; e che, dopo, lo stesso vescovo girò per il castello «bene indutum de viride». Più interessanti le testimonianze di Bello, Gregorio e Terzo. Il primo di essi ci presenta l’estrazione da parte del vescovo, il quale prima «extraxit eum [scil.: il conte] de domo brachiis» e, successivamente, chiuse la porta della casa. Gregorio invece riporta ciò che ha sentito, cioè che il prelato, prima di estrarre il conte, rivoltò tre «soandoias» (la cui traduzione è per me ignota) dalla casa del donatore. Infine, Terzo ha visto che Galgano “espulse la mamma di Dasso [il primo teste] dalla casa della
36 «È all’interno di queste microsocietà che si sviluppano delle memorie collettive originali che
conservano per un certo tempo il ricordo di avvenimenti che hanno importanza solo per loro, e che interessano tanto più ai membri quanto meno essi sono numerosi. Mentre è facile farsi dimenticare in una grande città, in un piccolo paese gli abitanti non smettono mai di osservarsi, e la memoria del loro gruppo registra fedelmente tutto ciò che può dei fatti e dei gesti di ciascuno di loro, perché reagiscono su tutta questa piccola società e contribuiscono a trasformarla» (Halbwachs, La memoria, cit., p. 154). Il concetto di gossip è stato introdotto convincentemente da Max Gluckman in “Gossip and Scandal. Papers in Honor of Melville J. Herskovits”, in Current Anthropology, III (1963), pp. 307 – 316. La tesi dell’antropologo è che la vox populi fondi il ricordo collettivo, costituisca un’arma controllata e convenzionale per gestire e incanalare la competizione sociale e consenta la selezione dei leader («the process of scandal enables a group to evaluate people for thei work, their qualities of leadership, and their moral character, without ever confronting them to their faces with failures in any sphere», p. 313). Gluckman è stato ripreso da Wickham in “Gossip and Resistance among the Medieval Paesantry”, In Past and Present, CLX (1998), pp. 3 – 24. Lo storico inglese porta un esempio paradigmatico: elaborare una storia dell’Università di Birmingham solo attraverso gli atti ufficiali e le delibere del Consiglio accademico, che in pochi leggono, tralascerebbe gli aspetti fondamentali della vita vissuta dagli attori sociali che lì partecipano alla vita comunitaria (p. 17).
quale prese possesso”; e che, in un secondo momento, «ipse dominus tunc clausit hostium post se».
Siamo quindi in presenza di un’etiquette improntata – nella presa con le braccia – al formulario dell’abbraccio feudale. L’estrazione dall’immobile donato e la chiusura col catenaccio si configurano come chiari rituali-di-dominio, sintagma coniato da Wickham per riferirsi a quelle pratiche riconosciute erga omnes perché recitate intenzionalmente davanti a un pubblico di astanti. Esse erano atti di constatazione e di ribadimento di una situazione di subalternità manifesta (quelle che lo storico anglosassone definisce come azioni-ripetute), vincolati a una procedura di carattere non scritto ma non per questo meno formalizzata37.
Questi risvolti immateriali della dominazione episcopale non erano meno efficaci di pratiche dirette di dominio come l’oste o il dazio per affermare la sottomissione al presule. Se il vescovo girava “ben vestito di verde” nel castello e nel borgo di Tonda, ciò era evidentemente per motivi liturgici, legati alla cura delle anime dell’insediamento; tuttavia, agli astanti ciò pareva il segno che Tonda, nemo contradicente, era di pertinenza della Curia di Volterra.
Una clausola vincolante al servitium episcopi fu apposta anche alla donazione di Oddo del fu Manso nel luglio del 1163, Egli donò alla Mensa vescovile pro anima, trovandosi nel palazzo del vescovo a Volterra, tutto ciò che possedeva nel castello di Pulicciano, in quello di Catignano e nell’oppidum di San Gimignano; epperò, recita la condizionale apposta in calce alla pergamena, «si devenerit aliquo tempore quod […] Oddo accipiat uxorem, prefatus episcopus debet reddere et dare ei in beneficio eas portiones ex predic[…] et tertiam debet permanere aput se et prenominatam ecclesiam»38. Anche in questo caso, a una donazione a movente devozionale (come possiamo pensare fosse anche quella di Uguccione) si mescolavano patti di natura politica e patrimoniale: chi donava sapeva bene di tessere un legame d’alleanza con la Diocesi come istituzione, e un patto di amicizia personale con il vescovo (al quale avrebbe dovuto poi i famosi auxilium et consilium). Contestualmente, queste reti vassallatiche mettevano a disposizione del vescovo un certo ambito di
37 Cfr. Ch. Wickham, Legge, cit., p. 450. 38 Cfr. AVV, n. 173 (Cavallini, II, n. 98).
territorialità, fornendogli una sorta di griglia spaziale a cui far aderire i confini del principato39.
8.2.
Il fattore economico.Accanto alle donazioni e alle accomandazioni, pure numerose, sappiamo che Galgano riuscì a dispiegare risorse sempre più abbondanti per accaparrarsi castelli e prerogative in zone particolarmente strategiche della diocesi più di quanto aveva fatto Ruggero prima di lui. Chi ha descritto il suo episcopato come il primo passo verso la rovina del potere vescovile non ha tenuto in dovuto conto la realtà documentaria40. Prima di tutto, Galgano spese quasi 200 lire in acquisizioni immobiliari (la somma è in valore assoluto, e non tiene conto né dei motivi devozionali che spingevano ad abbassare il prezzo di vendita (o ad annullarlo) né di eventuali garanzie sottostanti alla compravendita). In più, il negozio che viene convenzionalmente interpretato come l’inizio del deperimento delle fortune vescovili (un mutuo del 1167 contratto col notaio Cristofano fu Pietro: un totale di 40 lire, da restituire entro la metà di novembre) è appunto uno solo, a fronte dell’energica azione patrimoniale della Diocesi sul territorio.
In seconda battuta è doveroso considerare che proprio con Galgano cominciò il regolare sfruttamento delle argentiere di Montieri. Nei primi anni del XIII secolo, infatti, in una vertenza fra il Capitolo e il vescovo Ildebrando, il colatore Tommaso testimoniò che Galgano fu il primo presule a far scavare sistematicamente l’argento montierino; e che la parte che si doveva annualmente alla Mensa volterrana «aliquando valet C marcas, aliquando plus». Ciò implicava un reddito, grossomodo, di 500 lire annue, 12 volte e mezzo il mutuo contratto, che aumenta di 1/3 se consideriamo che, all’epoca di Galgano, non era ancora entrata in
39 Delumeau (Arezzo, cit., pp. 296 e segg.) ha parlato in proposito di uno slittamento della “contea”
verso il “contado”, inteso come quella regione in cui il vescovo aretino disponeva di una dominazione territoriale più o meno coerente imperniata sulle reti vassallatiche.
40 «Negli ultimi tempi del suo governo si notano però i primi segni dell'inarrestabile declino che
l'episcopato conobbe ai primi del Duecento: è emblematico che uno degli ultimi documenti che lo vedono menzionato, risalente all'autunno del 1167, sia un atto con il quale un terreno di proprietà vescovile, posto nei pressi dei beni della chiesa di San Gimignano, viene obbligato da G. al notaio Cristofano di Pietro, che gli aveva prestato la somma relativamente modesta di 40 lire» (Fabbri, “Galgano”, cit.). Il prestito è in RV, n. 202.
vigore la spartizione coi Senesi, ai quali Ugo avrebbe consegnato una lauta frazione delle argentifodine41.
Infine non si deve tralasciare la probabile concessione a Galgano, attraverso il diploma del 1164, delle regalie di cui il Regno era titolare nel Volterrano (penso soprattutto ai diritti del fiscum sull’estrazione del sale. Di fatto, divenendo ex lege il presule detentore di diritti demaniali, le saline e i loro proventi fiscali diventarono appannaggio della Curia. Non si sa in alcun modo in che misura il sovrano facesse valere i propri diritti prima del 1164, e chi, in concreto, avesse rivendicato i pozzi del sale in seguito alla crisi della Marca (anche se si potrebbe ritenere che già a cavallo fra XI e XII la Curia avesse sviluppato interesse per le saline: in questa direzione spingerebbe l’acquisto effettuato da Ruggero nel 1118 a Tollena, località in seguito sede di un impianto estrattivo42). Ma poiché le prime attestazioni di attività legate al sale mostrano le moie in mano ai privati, è lecito pensare che la Mensa vescovile avesse l’esclusiva sull’acquisto del salgemma o che, in alternativa, ne ricavasse una percentuale43.
La nuova disponibilità finanziaria tuttavia non sostituiva, bensì integrava e potenziava lo strumento feudale: non soltanto si acquisivano nude proprietà, come al tempo di Ruggero, ma si usavano i capitali per forme inedite di collegamento con i lambardi. Lo si vede nell’accomodamento, atto nell’Episcopio, con due membri dei cosiddetti conti di Pava e Montecuccheri: il conte Guglielmo del fu Ranuccio, insieme alla moglie Bella, vendette alla Curia tutti gli averi nei castelli di Montecuccheri, Camporena, Lajatico, Ghizzano, Cedri, Rignano, eccetto ciò che gli veniva, per divisione ereditaria, dal fratello Lotario (questo dettaglio è taciuto dal regesto dello Schneider), ricevendo in cambio 1/3 del castello di Montecerboli (metà in proprietà e metà in feudo), 20 lire, l’assicurazione per un funerale di
41 La testimonianza in questione è nell’Archivio capitolare di Volterra (d’ora in poi: ACV), n. 198,
che leggo dalla trascrizione manoscritta di Terzo Callai (vol. II). Il contributo più recente su Montieri è in Spufford, Money, cit., p. 115.
42 Cfr. il già citato RV, n. 118. Per Tollena vd. Filaroni, “De aqua salsa”, cit., p. 85 e nota 340. 43 Cfr. Filaroni, “«De aqua salsa»”, cit. p. 8. Per il diploma di Barbarossa, purtroppo perduto
(«Friedrich erteilt dem Bischof Galganus von Volterra ein Privileg hinsichtlich der Stadt Volterra und der bischöflichen Burgen»), cfr. i Regesta Imperii, IV, 2, 2 (“Die Regesten des Kaiserreiches unter Friedrich I. 1152 (1122) – 1190”, Lfg. 2: 1158 – 1168), a c. di Ferdinand Oppl, 1980, n. 1370 (consultabili online all’indirizzo web www.regesta-imperii.de. D’ora innanzi i riferimenti ai Regesta sono intesi alla versione informatizzata presente a quest’indirizzo).
minimo 10 denari e, ogni anno, una pensione fissa di 6 moggi di grano, 12 di frumento e 10 congi di vino. I due coniugi aristocratici, sembrerebbe senza figli, vendevano dunque al vescovo i propri beni a nord di Volterra per riceverne altri (in feudo e in proprietà) a sud della civitas, in un accomodamento che evidenzia come la Curia fosse pienamente in grado di dislocare le proprie clientele come meglio credeva, anche a mezzo di compensazioni monetate44.
8.3.
Il Comune volterrano.L’episcopato di Galgano segna anche la prima attestazione di organismi comunali a Volterra. La menzione di un Comune già strutturato la troviamo all’interno della già citata vertenza di Montevaso, nelle parole dei testi della pars vescovile, il cui intendimento era dimostrare che l’esercito volterrano aveva conquistato Montevaso senza essere contrastato da nessuno. Fu in quest’esercito che intervennero degli armati cittadini: l’orefice Bernardo dichiarò infatti che, «cum esset consul vulterranus, congregato exercitu adiuvit capere et destruere castellum»45. Ciò significa che, alla metà del XII secolo, era in vigore in città una
carica consolare pro tempore, esercitata da un orefice, il quale aiutò – non sappiamo in che misura – il vescovo Galgano, dopo aver radunato l’esercito, a catturare Montevaso, in un
44 L’atto, datato al 14 gennaio del 1161, in RV, n. 188 (AVV, n. 161). Rignano, come si ricorderà, è
vicino a Castelfalfi, mentre Camporena si trova nei pressi di Montaione; per Ghizzano e Cedri, non lontano da Peccioli, cfr. REPETTI, rispettivamente II, pp. 440 – 442, e I, p. 641. Per il rapporto tra feudo e proprietà, in cui «il possesso feudale assumeva un carattere patrimoniale concorrente, pur se meno assoluto, con quello della proprietà allodiale», cfr. Tabacco, “Storia politica”, cit., pp. 167 e seg. (la cit. è a p. 169).
45 La spedizione dei Volterrani si pone a metà fra un’azione militare, volta a fiaccare il morale e a
compromettere le basi di vettovagliamento del nemico, e un rituale di dominio. Fu appiccato il fuoco (difatti Ildebrando da Postignano usa il verbo «ardere»), in quanto «l’incendio, efficacissimo in campagna contro le messi mature e la vegetazione, lo era altrettanto nei centri abitati in un’epoca in cui la maggioranza delle case era di legno o di paglia (cfr. Settia, Rapine, assedi, battaglie. La guerra
nel medioevo, “Economica Laterza”, Laterza, Roma-Bari, 2004, pp. 38 e seg.). I Volterrani avevano
sì distrutto il castello e incendiato le strutture, ma avevano lasciato in piedi alcune costruzioni e ignorato alcuni castellani rimasti all’interno di Montevaso. Si trattava dunque di un sovvertimento intenzionale della consuetudine, messo in pratica in una maniera densa di significati rituali: «potremmo dire che le azioni dirette erano deliberate sovversioni dei comuni rituali quotidiani […], agite al fine di fissare un’affermazione e di lanciare una sfida» (Wickham, Legge, pratiche e conflitti, cit., p. 452).
momento in cui il processo di acquisizione del contado vedeva ancora protagonista il presule, sebbene spalleggiato dalle nascenti magistrature comunali46.
Anche se la scarsità documentaria non permette purtroppo di verificare qui alcuni temi cruciali della storiografia comunale, si può pensare che la partecipazione alle res bellicae in sinergia con la Diocesi promosse quel «culto delle memorie patrie intese come fasti bellici» sottolineato da Bordone, cementando la coesione dei cives47.
La carica consolare traspare comunque, dopo circa un quinquennio, anche dalle carte notarili: il due giugno 1155, in una donazione palliata (in realtà un prestito su pegno fondiario, tradito da un atto accessorio in calce alla pergamena) fatta dai conti Gherardeschi Gerardo e Ranieri del fu Gerardo, appare un certo Gullo del fu Favilla, designato come console48. Egli fece la sua prima comparsa il 4 marzo del 1149, testimone in una donazione
in favore del Capitolo cittadino; lo ritroviamo, tre anni dopo, non più console, a testimoniare insieme al visdomino del vescovo, Lampretto, in un atto della Curia49. Quest’ultimo, presente quasi sempre negli atti riguardanti la Mensa volterrana e attivo fino alla metà degli anni ’70, è qualificato come vicecomes di Santa Maria in un rogito del 1159; mentre ricopriva la carica consolare tre anni dopo, insieme a Paltoniero del fu Topone e ad Albertinello del fu Verdico50. Del primo di costoro l’attestazione più risalente è del 1152, mentre l’ultima si
46 Ceccarelli, Breve storia, cit., p. 67. «Tradizionalmente il vescovo ha rappresentato per la città
anche il punto di riferimento della sua difesa militare sia per l’appoggio che poteva fornire la sua clientela sia per l’organizzazione militare degli stessi cives» (Renato Bordone, La società cittadina
del Regno d’Italia. Formazione e sviluppo delle caratteristiche urbane nei secoli XI e XII,
Deputazione Subalpina di Storia Patria, Torino, 1987, p. 47). Cfr. anche Tabacco, “Vescovi e comuni in Italia”, in I poteri temporali, cit., pp. 253 – 282.
47 Bordone, La società, cit., p. 42. I problemi riguardano il rapporto fra il vescovo e l’organizzazione
militare cittadina (cfr. ibidem e pp. successive): in che misura «la cultura profana cittadina», che esaltava il combattimento pro patria, esercitò la propria attrazione sulle gerarchie ecclesiali volterrane? E in che modo, per converso, il vescovo esercitava il proprio ruolo di «figura-guida» della città alle prese con la guerra? Può essere, anche per Volterra, stabilita la distinzione fra i cavalieri, vassalli della Curia, e i bellatores «non vassalli, di tradizione urbana, che l’ambiguità del termine milites non sempre lascia distinguere dai precedenti» (pp. 60 – 61)?
48 L’atto è in RV, n. 176 (con lacune). AVV, nn. 154 e 155.
49 I documenti in Cavallini, II, n. 89 (dall’Arch. capitolare); e Cavallini, II, n. 91 (AVV, n. 158).
Gullo aveva anche un fratello, Ruggerino (cfr. Cavallini, II, n. 95). Sempre a fianco di Lampretto, Gullo, fu anche in una compravendita a San Gemignano (Cavallini, II, n. 104).
50 Il titolo di console è in Cavallini, II, n. 100 (quietanza fra l’arciprete Ugo e alcuni privati
colloca alla fine degli anni ’70; il di lui padre potrebbe essere il Bruno detto Topone, figlio del fu Guido, che presenziò a un negozio fra privati confluito poi nell’archivio del Capitolo, nel 112551. Esattamente come per l’orefice Bernardo, non si sa nulla di Albertinello; o meglio: non si sa nulla nella misura in cui i due non entrarono in relazione né col Capitolo né con la Diocesi, mentre gli altri consoli erano invece elementi di spicco della società cittadina.
Dovendo dare conto del passaggio da un console a tre, si può sì argomentare che era in corso a Volterra una dialettica fra potere del vescovo e ceto schiettamente urbano, una «competizione fra apparato temporale del vescovo, gestito da chierici, da famuli e ministeriali e da vassalli» e «collettività cittadina», ma anche addurre un evidente clima di «incertezza istituzionale», in cui il Consolato cittadino, ancora sfumato e non ben definito, in parte «ancora si integra come parte di un tutto culminante nel vescovo». In secondo luogo, se è vero che il presule aveva inserito nell’amministrazione cittadina il vertice della propria familia, cercando forse di farne cosa sola, è vero anche che non sappiamo se ciò fosse la norma anche prima degli anni ’50. E soprattutto non possiamo discernere il quoziente di volontà di affermazione dei singoli, in che misura cioè essi, organici al potere dei presuli, si muovessero in autonomia, e desiderassero fruire delle garanzie, vedi quelle giudiziarie, offerte dalla città.
Anche Arezzo, stando al Delumeau, è del resto contrassegnata da una «instabilité des institutions» che non permette di discernere in maniera netta i contorni del Comune prima della metà del XII secolo, mancando oltretutto, come a Volterra, qualsiasi giuramento o breve che ci attesti la messa in piedi della primigenia coniuratio. Ad Arezzo la cittadinanza assaltò, nel 1110-1111, il palazzo-fortezza vescovile sul colle del Pionta, e poi il fortilizio di Castelnuovo. A Volterra un analogo scoppio di aggressività portò all’omicidio di Galgano: forse tentando di tirare le redini del governo cittadino, in qualità di neo-principe dell’Impero,