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I conti di Muntecuccari e i lambardi di Peccioli.

Nell’aprile del 1153, il conte Tafurello del fu Medio e la moglie Maria del fu Ildibaldo «interrogati a Montacollo causidico an ea bona que ipsi dabant Episcopatui vulterrensi magni pretii essent», rispondendo che «omne illud quod plus valebant inrevocabiliter donare et offerre volebant Deo et Ecclesie beate Marie Virginis vulterrani Episcopatus», consegnarono a Galgano tutto ciò che, «in civitate pisana et in collina», era pervenuto a Maria dal padre Ildibaldo, dal fratello Ugolinello e dalla madre Matildina chiamata Pocamata, asserendo che questa fosse la volontà di Matildina. I coniugi erano chiaramente un ramo dei conti di Pava, alcuni dei quali si erano impiantati nel castello di Peccioli e ne costituivano parte dei lambardi. Costoro formavano una consorteria nell’accezione che ne dà Violante, ovvero condòmini di un castello, provenienti solo in parte da famiglie imparentate, che si erano coagulati nella gestione condivisa di un fortilizio.

Di lì a un anno, fra Diocesi e lambardi scoppiò una lite violenta, combattuta per l’eredità di Pocamata e sfociata nell’arbitrato di Montancollo (il causidico del vescovo), del visconte Lampretto del fu Truffa, di Cencio di Casanova e di Marco del fu Ubaldo. Ciò ci fa capire che la donazione di Tafurello e Maria non era tale sic et simpliciter, bensì si configurava come un atto di forza che consegnava a Galgano posizioni estremamente vantaggiose nell’alta Valdera e nel castello di Peccioli, e che probabilmente serviva ai due coniugi a mettere al sicuro il lascito di un’eredità particolarmente ambita e contestata67. L’arbitrato,

65 Gli atti in AVV, nn. 174, 175, 176 e 177 (RV, nn. 196, 197, 198 e 199). Cfr. Ceccarelli,

“Venerabilis sanctorum”, p. 133. La pieve di S. Giovanni di Chiusdino, la chiesa dei Ss. Jacopo e Martino e S. Lorenzo di Bossolino, tutte nel solito piviere, cfr., PIEVI, rispettivamente 11.0, 11.1 e 11.3. Pastena è forse Pastina in Valdifine (cfr. REPETTI, IV, p. 66).

66 MGH, “Friderici I diplomata”, a c. di F. Appelt, n. 536, pp. 482 – 483.

67 Il 12 settembre del 1168 (AVV, n. 179; Cavallini, II, n. 103) Bugea, figlia di Ildebrandino, vendette

al vescovo i propri beni a Pomarance con l’intento di metterli al riparo dalle rivendicazioni della sorella Sasna. Forse Cencio di Casanova è il Cencio da Montevoltraio che ritroviamo in AVV, n. 192 (RV, n. 194).

pronunciato il 18 giugno del 1153, stabilì che «predicti lambardi cum aliis voluntate episcopi iurantibus non debent per se vel per summissam personam acquirere tenimenta sive libellario nomine habita ab hominibus sancte vulterrane Ecclesie cui Galganus episcopus in presenti presidet» (cioè essi non avrebbero potuto acquisire beni da feudatari o livellari della Diocesi senza il permesso del vescovo); e che i lambardi si sarebbero astenuti dall’«acquirere feuda predictorum hominum nisi acquisierunt omnia bona illius boni hominis a quo feudum tenent que bona videlicet habet in Peciole vel in eius curte».

Accanto alle guarentigie per la Diocesi, alla quale fu inoltre promessa la tutela di tutte le proprietà nel castello di Peccioli, i lambardi ottennero che il presule «non debeat acquirere tenimenta, libellarios, alodia, alodariorum suorum comandisias nisi permissu dominorum», tranne a mezzo di donazioni «pro remedio anime». Alla convenientia presero parte il conte Guglielmo (che ottenne parte di Montecerboli dallo stesso Galgano nel 1160) e due Gherardeschi, Guido IV (che aveva giurato la pace con Crescenzio) e Gherardo di Ranieri (figlio di Adalasia Visconti); del resto, i Da Montecuccari erano imparentati con i Gherardeschi per il tramite di Adalasia, sorella di Guido IV, andata in sposa al conte Ranieri68. Lo stesso Guglielmino nel gennaio del 1161 donò al Vescovado i propri possedimenti nei castelli di Chianni, Pietracassa e nella corte di Rivalto, successivamente alla divisione ereditaria col fratello che sappiamo chiamarsi Lotario69.

8.6.

La parte orientale della diocesi.

Le azioni di Galgano nella parte a est di Volterra dovettero essere improntate al contenimento della spinta di Siena in Valdistrove e in Valdelsa, e alla messa in sicurezza di una zona che racchiudeva enormi interessi della Diocesi e che rischiava di essere trascinata nelle feroci lotte fra Senesi e Fiorentini. Nel marzo del 1151, infatti, il Comune senese sottomise gli Ardengheschi, e pretese come pegno i possedimenti comitali in Valdelsa. Nel 1155, invece, dopo che i Fiorentini ebbero distrutto Marturi, i Senesi conclusero un accordo

68 La donazione di Tafurello e Maria è in Cavallini, II, n. 85 (AVV, n. 147); mentre la pace coi

Pecciolesi è in Cavallini, II, n. 86 (AVV, n. 152). «Il fulcro non era più il ricordo della continuità del lignaggi, ma erano i possessi e i diritti, che si mantenevano uniti non secondo le strutture della famiglia, ma grazie all’unione pattizia fra parenti – ormai – anche lontani, e addirittura con estranei» (Violante, “Alcune caratteristiche”, cit., p. 52).

con Guido Guerra per l’edificazione di Poggibonsi, isola senese nella propaggine di diocesi fiorentina che s’insinua, seguendo il corso dell’Elsa a est di Fosci, nel distretto volterrano (1156). Dopo aver respinto l’attacco fiorentino sulla neonata Poggibonsi, i Senesi dilagarono in Valdistrove, costringendo i Lambardi di Staggia a consegnare la stessa Strove. Costoro però si legarono segretamente a Firenze, e il castello andò distrutto (1158)70.

Il primo documento specificamente volterrano che ci parla di questa zona è del marzo del 1152, quando «Rollandus filius quondam Abbatis», trovandosi «in infirmitate» per la quale temeva di morire, offrì alla Curia di Volterra tutte le proprietà «in kastello et in burgo de Montegabro», escludendo però «illam plazzam quam Galconi dedi ego Rolladinus ad proprium». Consegnò inoltre due uomini coi loro tenimenti: «unus, ubi dicitur Terra Ceppaia, Martinus spadaius», «et alius est a Casarutta qui Berizzo vocatur» (quest’ultimo versava un canone annuo di tre denari a Rolando)71.

A turbare Galgano doveva essere però non solo l’avanzata delle forze comunali, ma anche l’insurrezione di qualche vassallo riottoso, come segnalato dal concentrarsi di compravendite intorno a Menzano, situata a sud-est da Volterra ma abbastanza lontana dalle pretese senesi. Su questa località s’incentrò il negozio dell’11 febbraio del 1158 nel quale Sinibaldo del fu Enrico vendette alla Curia tutti i propri beni a Ovana per 40 lire e al quale testimoniarono sia Lampretto che Gullo del fu Favilla72. Nella stessa località Galgano concluse il già menzionato patto con Farchisella e il figlio Ildebrandino del fu Gerardino, al quale parteciparono gli elementi eminenti dell’entourage vescovile (come il visconte Lampretto), il prevosto della pieve di Casole e il pievano di Sant’Ippolito. Il presule incaricò i due di salvare la giustizia e l’onore della Diocesi nel castello di Menzano, con la clasuola che se la Diocesi avesse costruito una torre nel castello di Casole, essa sarebbe servita per aiutare Farchisella e il figlio. Al negozio, atto a Casole73.

70 Per tutte queste vicende cfr. Davidsohn Storia, cit., I, p. 656 e seg.

71 Cfr. AVV, n. 145 (Cavallini, II, n. 81). Per Montegabbro, in Valdelsa, cfr. REPETTI, II, pp. 368 –

369.

72 Cfr. AVV, n. 158 (Cavallini, II, n. 91). Ovana è per me sconosciuta.

73 Per Menzano cfr. REPETTI, III; pp. 191 – 193. Sant’Ippolito è la pieve di Coneo, vicino a Colle

Ma chi si ribellava, e contro chi Galgano cercava l’aiuto di Farchisella? Lo rivela l’accordo del 7 dicembre del ’55: Gregorio di San Gemignano, fidelis del presule, giurò, presente anche Ugo arciprete del duomo, di mettere a disposizione le proprie fortificazioni a San Gemignano per aiutare la Curia nella guerra contro i figli di Rugerotto74. Atto analogo compirono Angelerio di Rolanbdo e la moglie Elia, probabilmente nel solito torno di tempo: costoro vendettero a Galgano, al prezzo simbolico di 14 soldi consegnati da Lampretto in vece della Curia, due terreni e l’ottava parte di una torre in San Gemignano. Il figlio di Gregorio, Riccardino, era console di San Gimignano nel luglio del 1147 insieme a Quartario di Pagano e Signoretto di Ranieri, segno che il Comune del castello era sorto in sintonia con gli intendimenti della Diocesi75. Ma chi era invece Rugerotto? Costui e il padre Griffolo erano

vassalli di lunga data della Curia (insieme avevano testimoniato al negozio fra Adimaro e Siena nel 1137). Rugerotto da solo, invece, prese parte, nel gennaio del 1139, alla compravendita fra Diocesi e Pannocchieschi. Griffolo morì fra il 1146, quando è attestato in alcune confinanze, e il 1153, quando il figlio Rugerotto e il di lui fratello Piero testimoniarono alla donazione con la quale Rainaldo del fu Basso di Montevoltraio, probabilmente vassallo vescovile perché detentore di possedimenti assai estesi, consegnò pro anima ai preti Gualfredo e Pietro dei Ss. Giovanni e Maria di Montevoltraio tutti gli averi nel castello e nel borgo, più quelli a Momialla, Pulicciano, Montescuro, Ponsano, Orgialla, Pastinarovi, e quelli acquistati a Pulicciano, Sassa e Carpineto76.

74 Cfr. AVV, n. 156 (RV, n. 178, con datazione sfalzata). Fiumi (Storia economica e sociale di San Gimignano, “Biblioteca storica toscana”, XI, Olschki, Firenze, 1961, pp. 41 e segg.) identifica costui

non con il figlio di Griffolo, bensì con il Rugerotto del fu Bernardo da Montauto attestato nelle transazioni del 1134 fra Curia e Da Pichena (oltreché in Cammarosano, Abbadia, cit., n. 46).

75 La vendita di Angelerio in Cavallini, II, n. 104 (era presente anche Gullo del fu Favilla). Non sono

riuscito a riconvertire il documento dalla vecchia segnatura (Appendice I al sec. XII, n. 4) all’odierna, ma è certo che esso non è andato incontro a spostamenti di datazione. Per il consolato del figlio di Gregorio cfr. ASFi, Diplomatico, S. Maria della Badia detta Badia fiorentina, luglio 1147, ed. mia in appendice. Cfr. Fiumi, Storia, p.45: «il consolato si presenta come un organismo costituzionalmente sanzionato dall’autorità vescovile, e non come una forza autonoma, contrastante alla giurisdizione temporale». Cfr. inoltre Tabacco, “Lo sviluppo del banno signorile e delle comunità rurali”, in Forme di potere, cit., pp. 197 – 213, p. 211: «in età comunale il comune castrense si avvicinerà non di rado, nella sua organizzazione e nella composizione del ceto dirigente, a situazioni proprie del comune cittadino. Con un maggiore distacco dunque dei maggiorenti dagli altri membri della collettività e con una rilevante presenza, nel piccolo gruppo dominante, di possessori di tradizione signorile: qualificati cioè come domini, in quanto ricchi di beni fondiari».

76 Le confinanze in Cavallini, II, n. 72, la donazione in ASFi, Diplomatico, Volterra, Comune,

Evidentemente anche la famiglia di Rugerotto era castellana di Montevoltraio (si ricordi che la prima menzione di feudi della Diocesi agli uomini di questo castello è del 1111), ma da qui in poi le menzioni si arrestano per un decennio. Si può ipotizzare che dopo la morte di Griffolo, a cui è probabile che la Diocesi avesse infeudato un territorio di una certa estensione, il legame con Galgano sia entrato in crisi, fino a sfociare in uno scontro aperto. Non è illogico ritenere che la donazione del ’53 servisse a mettere al sicuro una serie di beni minacciati dallo scontro col vescovo; e parimenti che a Montevoltraio fosse nato uno schieramento – un Comune rurale? – che voleva smarcarsi dalla presa dell’Episcopato77. Quello che di sicuro si può sostenere è che Rugerotto non morì negli scontri, se ci furono, in quanto il di lui figlio Ildebrandino fu uno degli astanti al mutuo che Galgano contrasse a S. Gemignano nel 1167, allorquando, col consenso di Ugo arciprete del duomo, la Mensa volterrana impegnò un terreno per la somma di 40 lire.

Rimane infine un ultimo intervento di Galgano nella parte a oriente della diocesi. Nel maggio del 1163 la Curia ricevette da Ildebrando del fu Genuino, dalla moglie e dai figli (Francesco, Simone e Zaffatello) 40 staia di terreno a Colle al prezzo di 40 lire. Si trattava in realtà di un prestito su pegno fondiario, come traspare dalla clausola finale: «se isti venditori quod de supra legitur dederint quadraginta librarorum ad episcopo Galgano vel ad suum certum missum di medio madio usque a festivitate Sancte Marie dagustus [sic] isto primo veniente ista terra que in carta legitur revertar ad eis»78.

8.7.

Le forze signorili del meridione.

Mentre gli interventi della Curia volterrana a ovest, a nord e a est furono caratterizzati dalla minaccia delle città di Pisa, Siena e Firenze, a sud la situazione era assai differente: qui si concentravano infatti gli interessi dei potenti nuclei signorili degli Aldobrandeschi e dei Pannocchieschi, e del monastero di Santa Maria di Serena (o di quello che ne restava). Con

di San Gemnignano; Orgialla e Ponsano sono a nord-ovest di Casole; anche Pastina non è lontana da Casole (cfr. REPETTI, IV, p. 67); per Sassa, in Valdicecina, cfr. REPETTI, V, pp. 196 – 197; Carpineto, infine, è poco a sud di Roncolla.

77 «Al signore che sta sviluppando attraverso la consuetudine il districtus su un luogo, si sottraggono

spesso […] i più cospicui fra i possidenti che vi risiedano, e non di rado si oppongono quelle famiglie […] che abbiano in quel medesimo luogo beni e contadini» (Tabacco, “Sviluppo del banno”, cit., p. 201).

78 Cavallini, II, 97 (AVV, n. 171). Il rogito testimonia altresì l’ampia disponibilità di denaro liquido

tutti e tre questi soggetti Galgano dovette interloquire e scontrarsi, senza tuttavia ricorrere all’intervento della Santa Sede, com’era successo in passato: semplicemente è probabile che non ce ne fosse più bisogno, dacché la Diocesi di Volterra era, alla metà del XII secolo, un’entità territoriale di tutto rispetto, detentrice del carisma-di-carica, di clientele assai ramificate nel contado (per dirla con Delumeau, il presule era il vertice della “piramide vassallatica”), di miniere che cominciavano a dar frutti e di una miriade di castelli e giurisdizioni. Ma soprattutto al vescovo spettava la supervisione della cura animarum, aspetto che cogliamo in tutti i suoi potenti risvolti nel dicembre del 1156: in concomitanza con l’inizio dei dissidi coi Pannocchieschi, Galgano indirizzò una solenne bolla al pievano di Radicondoli, confezionata dal canonico Geronimo, enumerando una per una le cappelle e i diritti che spettavano alla pieve, compreso «populum quem antiquitus habuit et habet in castello et curia de Ilci»; la mossa era chiaramente tesa a scalzare le pretese della famiglia comitale su alcuni altari considerati privati, attraverso i quali i comites detenevano parte delle decime e dei mortuaria79. È d’altronde in questa immensa porzione del districtus volterrano, dal corso del fiume Cecina in giù, che comincia a concentrarsi la maggioranza dei rogiti di parte vescovile: qui si addensavano gli introiti economici più importanti che, oltre alle miniere, comprendevano i mulini e i diritti sull’estrazione del sale.

8.7.1. I Pannocchieschi.

Il primo rapporto di Galgano coi Pannocchieschi risale al due settembre del 1150, e costituisce peraltro la prima menzione utile del suo pontificato. Ranieri del fu Ugolino Pannocchia e la moglie Aldigarda del fu Ugerio dettero in pegno al presule i propri beni a Legoli, Castelfalfi e Vignale, forse in seguito a una garanzia politica che purtroppo ci è ignota. Dopo due giorni, il 4 settembre, Ranieri e Rainaldo Marzuca del fu Ugolino Marzuca, e la moglie di Rainaldo, Maria del fu Ruggero, da Chiusdino, donarono alla Mensa volterrana «quartam partem de castello et de burgo et de curte de Mistenne videlicet terras et res, anteponimus servos et ancillas» (probabilmente la servitù domestica). Al primo atto partecipò in qualità di testimone anche il conte Tedice di Ugolino (dei Gherardeschi), mentre

79 Ed. in Lusini, “Una bolla”, cit., pp. 258 – 260. Si potrebbe anche ritenere che il privilegio vescovile

servisse a intralciare o rettificare quel processo di «riorganizzazione dell’insediamento umano» promosso da Ildebrandino VII e Ildebrandino VIII proprio a Radicondoli (cfr. Collavini, Honorabilis, cit., pp. 204 – 205).

al secondo c’erano Lampretto e Gregorio da San Gemignano80. Ancora Marzuca (Rainaldo),

stavolta da Gerfalco, il tre agosto del 1151, donò «quartam partem de omnibus rebus quas michi relinquerunt pater meus et mater mea ea die in qua mortui fuerunt in castello seu burgo vel curte de Mistenne, videlicet terras et res, et antepono servos et ancillas»81. In tutte e due le donazioni promosse da Marzuca e dal fratello ritroviamo nell’arenga il motivo del centuplum (ogni elargizione terrena sarebbe stata ricompensata per 100 nell’aldilà) e vi si eccettuano i servi e le ancelle. Anche in questo caso, a causa del regime di (ancora) prevalente oralità delle convnzioni vassallatiche, non si può affermare – anche se personalmente ritengo di sì – se le possessioni formalmente donati pro anima ritornassero poi indietro sottoforma di feudo.

Certo è però che la località in questione catalizzava gli interessi di Galgano, anche se non sappiamo esattamente il perché. Si potrebbe pensare che l’inizio dello sfruttamento di Montieri richiedesse un aumento della presenza della Diocesi nella zona, giacché Mistenne si trova relativamente prossima Montieri, a ovest di Gerfalco. Lì aveva dei possedimenti anche l’ospedale pisano di Santo Sepolcro in Chinzica: il procuratore dell’ente, Ansaldo, col consenso del conte Ranieri, li dette (1155) al presule volterrano per un merito di 80 soldi, aggiungendovi anche i beni della chiesa di San Bartolomeo di Albatreto nel piviere di Chiusdino82. L’ultimo rogito che riguarda il castello è del marzo del 1160, quando Ugolino di Ranuccino da Montarrenti e la moglie Guerriera, stando in Montalcinello, vendettero alla Curia, presenti il pievano di Gerfalco e il visconte Lampretto, tutto quello che avevano a Mistenne per 10 lire83.

80 Il primo atto è in Cavallini, II, n. 79; il secondo in AVV, n. 141 (Cavallini, II, n. 78, con datazione

differente di qualche giorno).

81 Cfr. AVV, n. 143 (Cavallini, II, n. 77).

82 Cfr. AVV, n. 153. Ritengo che l’ospedale pisano detenesse beni nella zona per il tramite dei conti

Gherardeschi. Per S. Bartolomeo cfr. PIEVI, 11.6.

83 Cfr. AVV, n. 162 (Cavallini, II, n. 92, con datazione errata). Le teorie più recenti sull’interesse da

parte della Curia volterrana nei confronti di Montieri, ancora consegnate alla forma di discussioni fra me, il prof. Collavini e Paolo Tomei, vertono sulla spartizione di un’antica curtis marchionale fra i potentati (Ghearardeschi, Pannocchieschi e Aldobrandeschi) della zona. La terifinazione di località (come Gerfalco e Travale) originariamente afferenti a un medesimo distretto sarebbe sfociata in una generale indeterminatezza dei confini (e delle aree d’influenza) e in definitiva nella vertenza di Travale.

8.7.1.1. La vertenza di Travale.

La vis con la quale Galgano agì nella zona intorno a Chiusdino, Gerfalco e Montieri, se all’inizio trovò l’appoggio dei conti Pannocchieschi, dovette alla lunga rompere l’equilibrio delle forze sul campo. Tant’è che cominciò a dipanarsi una lunga e complicata lite fra Ranieri Pannocchia e la Curia, le cui prime battute sono del 29 marzo del 1156, quando Baroncello da Siena e il visconte vescovile Lampretto, scelti come arbitri dalle parti, furono chiamati a dividere uomini e terre di Gerfalco84. Non è il caso di concentrarsi su sui singoli episodi della

causa, bensì sulle testimonianze di Travale raccolte dal giudice Baldovino: esse rappresentano l’escussione di una manciata di testi della pars comitale, che avrebbe dovuto sostenere le rivendicazioni di Pannocchia e dimostrare l’appartenenza a Travale di alcuni casolari e famiglie (sciogliendoli quindi dall’appartenenza a Gerfalco)85.

Il livello è ancora quello di una comunità che agisce su stimolo signorile, che adopera la parola (e la sua performatività) a comando del dominus loci, in un mondo permeato dall’akoè: tutti e 6 i testimoni riportano ciò che hanno udito, ciò che addirittura raccontavano loro le loro nonne (Saraceno del fu Bentulo «audivit ab avia sua») e che si vociferava «palam», apertamente, nemo contradicente, come sostiene Martino del fu Pietro. Ponchino chiamato Pietro afferma per sentito dire che una serie di nuclei familiari appartenevano a Travale, salvo poi correggersi, quasi scusarsi, negando di aver visto egli direttamente e, quindi, di sapere («non quod ipse viderit vel sciat»), come se l’esperienza conoscitiva fededegna fosse unicamente quella visiva86.

84 Cfr. AVV, n. 223 (RV, n. 180).

85 Le testimonianze, raccolte da Baldovino il 30 giugno del 1158 presenti il canonico del duomo Ugo,

il pievano di Lame (ovvero Gerfalco, cfr. PIEVI, 19.0), il visconte Lampretto e Monaldo da Fosini, sono in RV, n. 186. L’ed. di riferimento è quella di Arrigo Castellani, I più antichi testi italiani.

Edizione e commento, Patron, Bologna, 1976, pp. 155 – 164. Fra i contributi più recenti si vedano

Simonetta Losi, “Travale: la guardia ribelle”, e Menotti Stanghellini, “Una nuova lettura della

Testimonianza di Travale”, in Accademia dei Rozzi, XXIV (2006), pp. 11 – 14 e p. 16.

86 «Durante il corso della mia vita, il gruppo […] al quale appartenevo è stato teatro di un certo

numero di avvenimenti dei quali io dico di ricordarmi, ma che ho conosciuto solo attraverso […] le testimonianze di chi vi è stato coinvolto direttamente. Essi occupano un posto nella vita del paese. Ma io non vi ho assistito personalmente. Quando li rievoco, sono obbligato a rimettermi interamente alla memoria degli altri, che qui non viene solo a completare la mia, o rafforzarla, ma è l’unica fonte di ciò che voglio ricordare. Spesso non li conosco né meglio né in modo diverso degli avvenimenti che si sono prodotti prima che io nascessi. Io porto con me un bagaglio di ricordi storici […]. Nel pensiero del paese, questi avvenimenti hanno lasciato una traccia profonda, non solo perché ne sono

Alcuni di questi 6 partecipavano al coordinamento signorile fra i vari insediamenti (Enrico del fu Vivenzio portò pane e vino per i muratori a Travale), anche se, va specificato, le prestazioni dovute al signore si riducevano a poca cosa, analogamente alla vertenza di Montevaso, come il giro di ronda (o guaita), la manutenzione delle fortificazioni e alcune angarie come le vettovaglie per i maccioni. Il grado di contaminazione notarile fu senz’altro