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Volgendo lo sguardo alle basi materiali della dominazione episcopale, sappiamo che Ugo comunicò ai Gambassini che le case avrebbero potuto venderle versando alla Curia 12 denari ogni lira (il 20%). Inoltre, in caso di morte senza eredi del titolare, se quest’ultimo fosse stato di condizione servile, la casa sarebbe tornata al padrone; se invece fosse stato un libero allodiero, la casa sarebbe toccata al vescovo21. Gli affitti dei terreni dati in locazione o erano corrisposti in prodotti di largo smercio, come grano e orzo, oppure erano monetati, ma in un numero assai minore di casi: ai pochi canoni in denari (e quindi poco più che simbolici), si giustapponeva una manciata di canoni corrisposti in soldi. Si potrebbe argomentare che siamo in presenza di una bipartizione, rivelata da un’istantanea scattata in un momento in cui, ad affitti più recenti in grano e orzo, frutto di una riconversione, si contrapponevano pochi censi risalenti e monetati, simbolici o poco più. L’impressione è corroborata dal fatto che gli affitti monetati erano corrisposti quasi interamente dalle chiese (e. g. quella di

21 Orlandino: «dominus Ugo episcopus […] dedit hominibus de Gambasso potestatem ut possint

vendere casalinos et domos tali pacto quod dominus episcopus haberet de unaquaque libras XII denariorum».

Arsicciole e dalla pieve di San Regolo), alle quali la Curia aveva probabilmente, nei secoli passati, concesso terreni a un canone estremamente basso22.

Nel corso del XII secolo la Diocesi aveva in larghissima parte riconvertito i propri redditi, cercando anche di riorganizzare la proprietà fondiaria secondo gli stessi criteri individuati da Jones per il Capitolo di Lucca23. In valore assoluto, i prelievi, compreso uno «pro decima» corrisposto da Ricovero di Pompona e famiglia, ammontavano a più di un centinaio di staia di grano (133, per la precisione), 28 staia d’orzo, 108 denari e 11 soldi. Facendo le dovute proporzioni, assumendo che 76 chilogrammi di grano erano equivalenti a 100 litri, e uno staio corrispondente a 24, 4 litri, si ottiene una rendita annuale di circa due tonnellate e mezzo di grano. Infine, prendendo come valore ipotetico quello segnalato da Herlihy per Pisa all’inizio del ‘200, secondo il quale uno staio di grano si comprava per 10 soldi, la rendita economica arrivava a quasi 70 lire24. Del gettito dei tributi signorili – di alta giurisdizione – il valore potrà essere solo una congettura, anche perché esazioni del genere non avevano un ammontare fisso: nel 1230 il Comune di San Gimignano riscosse a Gambassi un dazio di complessive 11 lire25.

Il grano e i cereali erano i prediletti perché potevano dai possidenti essere venduti aggirando il «processo secolare di decadimento nel valore della moneta». Ciò vuol dire che la corresponsione di cereali in quantità stabili avvantaggiava sia il presule che i piccoli affittuari: se infatti il primo aggirava l’inflazione, trovando per converso un guadagno se i prezzi della materia prima fossero cresciuti, i secondi si mettevano al riparo da possibili

22 S. Michele di Arsicciole è nel piviere gambassino, mentre S. Regolo è la pieve di Montaione (cfr.

PIEVI, 18.4 e 29.0).

23 «Nel secolo XII i canoni erano talvolta soggetti a commutazione, ma più di frequente dalla forma

monetaria a quella in natura che non inversamente. I canoni in derrate erano costituiti, principalmente, da grano, vino e fave. […]» (Jones, Economia, cit., p. 288).

24 Cfr. Angelo Martini, Manuale di metrologia, ossia misure, pesi e monete in uso attualmente e anticamente presso tutti i popoli, Loescher, Torino, 1883, ad civitatem Firenze; e Conti, La formazione, cit., p. 98. Per il valore del grano a Pisa cfr. Pisa nel Duecento. Vita economica e sociale d’una città italiana nel medioevo, Nistri-Lischi, Pisa, 1973 (trad. it di Manfredo Roncioni dall’orig. Pisa in the early Renaissance, a study of urban growth, Yale University Press, 1958), p. 234, ad annum 1208.

25 Cfr. Il Libro Bianco del Comune di San Gimignano, a c. di Donatella Ciampoli, Cantagalli, Siena,

fluttuazioni26. Inoltre, se la Diocesi aveva trasformato le corresponsioni monetate in naturali, accertando e ricontrattando insieme i redditi nella zona, ciò conferma l’idea di una gestione ecclesiastica in grado di adattarsi ai cambiamenti economici. È doveroso aggiungere che non si sa se il grano venisse conferito al vescovo da macinare o già macinato (in quest’ultimo caso il Vescovado, in quanto detentore di mulini, avrebbe potuto lucrare ulteriormente); e che, contestualmente ai mulini, come si evince dal racconto di Ildebrandino, il vescovo metteva a disposizione i bovi per gli aratri, usufruendo di un ulteriore guadagno («quidam nomine Paganuccius laboravit pro iamdicta ecclesia cum bovibus domini episcopi Galgani»)27.

Tuttavia, anche se la Mensa vescovile si configurava come il possidente di gran lunga più importante, sia in termini quantitativi che qualitativi, l’esigenza stessa di stilare un testimoniale che fissasse redditi, pertinenze e condizioni personali è di per sé segno che qualche cosa stava cambiando. Vediamo infatti che non solo la comunità rurale mirava a un più ampio tasso di autonomia dalla Diocesi, cercando di impadronirsi dei suoi beni durante l’episcopato di Ildebrando («homines de Gambasso nunc [scil.: al momento della testimonianza] auferre domos eorum hominibus sicut eis placet», Bene); ma, fra le parole delle deposizioni, scorgiamo anche un estremo dinamismo economico e sociale, che permetteva ai singoli di sganciarsi dallo status di asservimento alla terra e di mutarlo in conformità con le proprie ambizioni, capacità e possibilità. Ci furono perlomeno tre carriere paradigmatiche, tre personaggi che, prendendo il via dalla condizione di villani, si liberarono e scalarono i vertici della società locale, entrando nelle clientele dei notabiliores.

Partiamo da Ricciano, ponendo attenzione agli aggettivi e ai sostantivi che vengono adoprati di seguito. Egli era homo della pieve di Chianni, si liberò diventando «liber aloderus episcopi», e si legò a Tignoso, divenendone «fidelem et vassallum» (Ildebrandino di Pievevecchia), «aloderus et fidelis» e anche affittuario: da Tignoso deteneva infatti un terreno per il quale versava «III salmas vini» (Paltoniero). Ricciano aveva dunque messo da

26 La cit. in Cammarosano, Le campagne, cit., p. 127. Cfr. Osheim, An Italian, cit., p. 103: «given

the traditional nature of the peasant leases and the tenant’s ownership of the melioramentum, any changes in rent had to be a quid pro quo arrangement».

27 «È probabile che […] tra le rendite ricavate dal mulino signorile figurassero, per una larga parte, i

diritti prelevati sui contadini dei dintorni, censuari e non censuari, cui tornava comodo farvi macinare il proprio grano» (Marc Bloch, Lavoro e tecnica nel Medioevo, (trad. it. di Giuliano Procacci), “Economica Laterza”, 1996, pp. 96 – 97). Cfr. anche Osheim, An Italian, cit., pp. 90 – 93.

parte un piccolo capitale, impiegato non soltanto per la propria liberazione, ma anche per comprare una casa («Riccianus emit domum suam a filiis Peruczi», magister Bonamico). La sua scalata sociale si concluse allorché diventò gastaldo del vescovo, colui che per la Curia prendeva possesso delle abitazioni disabitate («quia tunc erat castaldus», Calvetto da Pompona), entrando in quella schiera degli aiutanti signorili di cui far parte era segno di distinzione. Di Guerzone non sappiamo con sicurezza se egli fosse al principio homo di Ildebrandino («homo fidelis», Guittone di Maromario»), di cui il padre e il fratello erano homines («fuit filius sui hominis et aduc frater est eius homo», Francesco homo), oppure se fosse alle dipendenze di Tignoso: se infatti qualcuno negava quest’ultima circostanza, giacché Guerzone da Tignoso non aveva avuto alcun terreno in conduzione («quia non habebat ab eo podere», Bene), altri la confermavano («Guerzone fuit homo dicti Tiniosi», Orlandino). Come che sia, anche Guerzone riuscì a liberarsi: egli divenne «aloderius et masnaderius filiorum Bonacorsi de la Pietra», ricevendo dalla famiglia una terra in feudo (Ildebrandino da Pievevecchia). Ma la carriera più dettagliata che si riesce a ripercorrere è quella di Angiolello: costui non era originariamente un colonus, ma lo diventò quando «fuit captus ab Oddo et fratre» (Calvetto da Pompona), non sappiamo se per debiti o in guerra. Emancipatosi dai padroni («Angiolellus liberavit se a filiis Oddi», Navanzato) per 14 lire, fece carriera nel loro seguito, prestando servizio come «masnaderius fidelis» di Bonaccorso della Pietra e risultando a tutti gli effetti «aloderius» dotato di feudo dagli stessi lambardi di Pietra (Ildebrandino di Pievevecchia). Ma non solo: egli addirittura ne divenne «cognatus» (Cigolino da Pompona), ammesso a pieno titolo nella famiglia aristocratica28.

La terminologia impiegata dimostra che per i testimoni c’era una chiara e palpabile distinzione fra homo e aloderius: il primo era un colono, chi era ascritto alla terra che aveva

28 Il rimando è d’obbligo al saggio di Piero Brancoli Busdraghi, “«Masnada» e «boni homines»”, cit.,

pp. 287 – 342, spec. pp. 313 e sgg.. Brancoli Busdraghi dedica spazio anche alla condizione di coloro che, come nelle carte gambassine, vengono definiti contestualmente homines e fideles, riconoscendo che «il reclutamento dei masnadieri dalla categoria dei manenti del signore – come già, in antico, da quella dei servi – sembra essere stato assai frequente» (p. 319). Certamente, come rileva Mario Nobili (“Signorie e comunità nella Lunigiana orientale fra XI e XIII secolo”, in Alle origini della Lunigiana

moderna. Settimo centenario della redazione del Codice Pelavicino (1287-1987), Atti del Convegno,

La Spezia, Accademia di Scienze e Lettere 'G. Cappellini', 1988, pp. 63 – 90; ora in Idem, Gli

Obertenghi, cit., pp. 423 – 454, n. 14 a p. 428) «il giuramento e l’omaggio vassallatico trasponevano

in conduzione; l’altro, invece, era chi, in quanto libero e non-dipendente, era dotato di possedimenti propri. Su questa bipartizione poteva innestarsi la fidelitas, l’elemento feudale, che cementava il legame diretto fra signore e dipendente / masnadiero, e offriva al contempo garanzie di maggiore immobilità della condizione originaria. È a questa funzione che pare ricondurre il sintagma «homo fidelis», nella valenza di dipendente, sì, però più strettamente legato e avvinto al proprio dominus, in un contesto di generale scivolamento quantitativo e qualitativo delle signorie fondiarie verso signorie personali sorrette e puntellate dalla fidelitas29. Che del resto homo e colonus siano riconducibili a endiadi lo dimostrano Baldovino, Scotto di Ciaffarino, Fidanza e un altro Scotto, rammentati nel documento n. 10 (app. doc. della Duccini): ciascuno di loro viene qualificato espressamente come «homo et colonus», dovendo ognuno alla Chiesa volterrana «talia servitia» (“tali” e quali, appunto, a quelli che si convenivano a un colono) e «datium» o «accattum» «in tertium tertium annum». Difatti i 4 versavano censi particolarmente pesanti, sia in grano che in denari, in cui compare anche un paio di capponi all’anno30.

Nel 1183, a Gambassi, fu emessa una sentenza da parte di Ubaldo nipote del vescovo, di Galganetto console di San Gemignano e di Ildebrandino di Tignoso, in un processo fra la Curia e Pancolo e Doleo, due uomini della cappella di San Quirico, riguardante la quantità di prestazioni che i due dovevano al proprio signore (personale). Si stabilì che costoro avrebbero dovuto versare annualmente «albergariam in grano, ordeo, spelto», ma sarebbero stati esonerati da ulteriori accatto, pensione e albergaria, e che il vescovo non avrebbe potuto prenderne i casamenti discasati. Le prerogative che il dominus rivendicava sui singoli dipendevano quindi dalla loro capacità di resistere e di opporsi, e il fatto che i rustici

29 Ildebrandino da Pievevecchia racconta che certi Baldrigo e Tolomeo «habebant [la terra] in feudum

ab ecclesia dando anuatim pensionem XII denari».

30 Il Brancoli Busdraghi (“«Masnada» e «boni homines»”, cit., p. 322) distingue, sulla base di un

testimoniale riguardante il territorio guidingo di Monte di Croce, homo e fidelis: mentre il primo termine indicherebbe un assoggettamento (quello in base alla condizione giuridica di homo alterius) che si perpetuava in via ereditaria, il secondo starebbe a significare un ascendente sociale più elevato, sostanziato anche in una certa indipendenza economica dal dominus. Lasciando da parte il problema – tutt’altro che secondario – del filtro notarile, mi sembra di poter affermare che la fattispecie volterrana (e gambassina) pone delle riserve alla generalizzazione tout court della distinzione teorizzata dallo studioso.

facessero causa alla Diocesi dimostra che la presa vescovile era passibile di essere non solo rinegoziata, ma anche contrastata dall’interno se ritenuta troppo gravosa31.

In conclusione, all’ombra dei diritti eminenti della Curia esistevano e proliferavano, nella Gambassi di fine XII secolo, nuclei alternativi di signorie personali e fondiarie (della pieve di Chianni, a cui fanno capo alcuni testimoni come Bene; di Lottigerio, di cui era homo Francesco; dei signori di Pietra, etc.32), che il dominio dei vescovi di Volterra sul castello non era riuscito a livellare. La stessa signoria vescovile conservava un aspetto perlopiù fondiario: il vescovo era il signore di Gambassi in prima istanza perché la Mensa volterrana vi deteneva innumerevoli possedimenti. Si consideri che gli stessi rituali-di-dominio espletati dagli intendenti vescovili erano sì capillari e pervasivi, ma nella misura in cui richiamavano prerogative di carattere fondiario e proprietario (trasporto delle derrate riscosse ed entrata in possesso delle case vuote), che ritroviamo nella vertenza di Montevaso dello Schneider, e che si connettono ad aree di signoria-debole, per di più in un quadro in cui le dipendenze contadine si stavano atrofizzando in legami diretti e personali fra signore e colono.

31 Cfr. RV, n. 212.

32 Fa il punto su queste problematiche Collavini in “La condizione dei rustici/villani nei secoli XI-

XIII. Alcune considerazioni a partire dalle fonti toscane”, in La signoria rurale in Italia nel

medioevo. Atti del III convegno di studi (Pisa, 6-7 novembre 1998) organizzato da C. Violante e M.

L. Ceccarelli, ETS, “Studi medioevali, 11”, Pisa, 2006, pp. 331 – 384, fornendo ampia e ricca bibliografia.

10.

Il vescovo Ildebrando.

«Se mi dà caval balçano, monsteroll’ al bon toscano, | a lo vescovo volterrano, cui bendicente bascio mano». Quelli appena citati sono due versi del cosiddetto “ritmo laurenziano”, uno dei più antichi testi della lirica in volgare. A cantare è un giullare che, tessendo le lodi del proprio signore (il vescovo di Iesi), spera di ottenere in dono da lui un cavallo pezzato; ma non un cavallo qualsiasi, bensì degno di mostra al «bon toscano», ovvero al vescovo di Volterra, di cui il poeta frequenta la corte, di cui conosce la munificenza e a cui, in segno di captatio benevolentiae, dichiara di voler baciare la mano. Per anni la critica ha ritenuto di dover leggere “Galgano” al posto di «toscano»; ma adesso, a un più attento esame della cartapecora su cui è conservato il componimento, e grazie a raffronti linguistici più puntuali, gli studiosi sono concordi nel ritenere che il «toscano» in questione sia da identificare col vescovo che resse la cattedra di Santa Maria fra il 1185 e il 1211, Ildebrando Pannocchieschi1.

Le parole del menestrello non sfociano nell’iperbole: Ildebrando fu infatti l’autorità più importante della Tuscia a cavaliere fra XII e XIII secolo, capace di solleticare, per gli sconfinati possedimenti e lo stile di vita aristocratico, l’immaginario dei poeti contemporanei. Come Manasse di Reims prima di lui, Ildebrando fu un «vivido esempio di signore ecclesiastico»; come per Gelmìrez, arcivescovo di Compostela dal 1095, il suo patrimonio era fonte di lustro per tutta la Chiesa volterrana; e come presso Adalberto di

1 Per il “ritmo laurenziano” e la correzione in «toscano» cfr. Roberto Wis, “Proposta di

interpretazione del «ritmo laurenziano»”, in Aevum, LVIII (1984), pp. 207 – 211; e Arrigo Castellani, “Il Ritmo laurenziano”, in Studi Linguistici Italiani, XII (1986), pp. 182 – 216. «Quasi quasi il vescovo di Iesi avrebbe dovuto essere grato verso il furbo giullare, che si offriva di fargli fare una bella figura con un vescovo ricco come quello [scil. Ildebrando], di cui era forse rivale in manifestazioni di magnificenza. Il giullare non tralascia di aggiungere incidentalmente che il vescovo di Volterra lo conosce e lo tratta con benevolenza; lui va spesso là, il vescovo gli impartisce sempre la sua benedizione, e il giullare si precipita a baciargli la mano» (Wis, “Proposta”, cit., p. 209). La biografia di Ildebrando approntata dalla Ceccarelli per il Dizionario Biografico degli Italiani, LXXX (2014) è leggibile sul portale web della Treccani. Guida alle vicende politiche di cui fu protagonista (rimanendo fermo il riferimento a Davidsohn, Storia, cit., I, pp. 849 e seg.) è Lorenzo Fabbri, “Un principe dell'Impero alla guida della Lega Toscana: il vescovo Ildebrando di Volterra e la guerra di Semifonte”, in Semifonte in Val d'Elsa e i centri di nuova fondazione dell'Italia medievale. Atti del Convegno nazionale (Barberino Val d'Elsa, 12-13 ottobre 2002), a c. di Paolo Pirillo, Firenze, Olschki, “Deputazione di storia patria per la Toscana. Biblioteca storica toscana”, 2004 pp. 155 – 166. Assai ricco e affidabile rimane il contributo di mons. Cavallini, “Il vescovo Ildebrando”, in

Turingia, presule di Amburgo-Brema alla metà dell’XI secolo, nel suo palazzo si faceva ampio sfoggio e largo dono di ricchezze. Ildebrando, figlio del conte Ranieri dei Pannocchieschi ed emanazione di quella schiatta che era vassalla della Curia di Volterra dal tempo del vescovo Ruggero, costituisce idealmente il vertice di quella parabola che, seppure brevemente, ho tratteggiato nella propositio thematis del presente studio2.

I due Pannocchieschi, Ildebrando e Pagano, furono in sostanza due «vescovi compositi», nel senso che ne dà Brentano3. Il loro pontificato fu come la chiusura di un cerchio, se si tiene a

mente che da secoli la Sede volterrana si trovava in verbo regis, che l’elezione del nuovo presule giunse in un momento in cui Federico I aveva siglato la pace di Costanza con la Lega ed era di nuovo legittimato dal favore del Papato, e che Ildebrando proveniva da quell’aristocrazia che attendeva regolarmente alle diete imperiali e per la quale recarsi al seguito del monarca costituiva un vero e proprio status-symbol e una manifestazione di adesione “ideologica”. Se da un lato la Curia volterrana fu destinataria degli ingenti privilegi svevi, dall’altro il Pannocchieschi diede prova di estrema abilità politica anche all’indomani della morte di Enrico VI, diventando il perno della Lega di Tuscia, organismo del quale fu più volte priore.

Ciò fu possibile perché nelle mani dei presuli-conti era racchiuso un dominio esteso a buona parte del districtus diocesano, corroborato dai diplomi e letteralmente decollato in seguito alla crisi della Marca e all’acquisizione delle risorse del sottosuolo, il sale e l’argento. Le

2 Vivide pagine ha dedicato alle corti ecclesiastiche Glauco Maria Cantarella in Principi e corti. L’Europa del XII secolo, Einaudi, Torino, 1997, pp. 91 – 101 (corti episcopali di Reims, Compostela,

Amburgo-Brema), da cui la cit. a p. 91.

3 Per il concetto di vescovo composito – considerato da Brentano nell’esempio classico di Federico

Visconti, e anche in quello di Guglielmino degli Ubertini, morto sul campo di Campaldino nel 1289 – cfr. Due chiese, cit., pp. 203 e segg. Per spiegare il concetto Brentano si rifà alle parole che Salimbene di Adam adopera nella cronaca per descrivere Obizzo da Parma: «costui fu uomo quasi alla militare, e il suo carattere è come quello che più su abbiam fatto di Nicolò vescovo di Reggio. Perocché era chierico coi chierici, religioso coi religiosi, laico coi laici, cavaliere coi cavalieri, barone coi baroni; gran barattiere, spenditore largo, liberale e cortese. In principio abusò di molte terre e possessioni della mensa vescovile, e le diede ad alcuni truffatori, perciò fu accusato presso Papa Urbano da Giliberto da Gente come barattiere, dissipatore e allenatore de' beni della mensa vescovile. Ma in processo di tempo ricuperò le terre alienate e fece molti restauri all’episcopio. Egli fu uomo di molta dottrina, specialmente nel diritto canonico, ed assai esperto nel ministero ecclesiastico. Conosceva il gioco degli scacchi, e teneva a bacchetta il clero secolare; e conferiva le parecchie a quelli, che gli facevano del bene» (il passo è tratto dalla volgarizzazione di Carlo Cantarelli, Cronaca

basi materiali della Mensa vescovile facevano perfetto pendant con una forza militare assai ragguardevole, impensabile senza una rete a maglie strette di relazioni sul territorio: su di essa poggiava lo sforzo di ricomposizione dal basso di una compagine para-statuale in mano episcopale4.

Infine, last but not least, Ildebrando seppe comprendere appieno l’importanza politica e sociale della fondazione monastica di Montesiepi presso Chiusdino, la quale, grazie all’intercessione del Pannocchieschi, godette della benevolenza dei pontefici romani e dei regnanti tedeschi. Da un lato san Galgano era emanazione genuina di quel ceto di milites che da secoli costituiva il perno della familia episcopalis, e il suo culto ne glorificava la vita di cavaliere, propagandandone i valori aristocratici; e dall’altro San Galgano fu il bastione patrimoniale della Diocesi, suo Eigenkloster nella regione più meridionale, munito con cospicue donazioni contro le mire del Comune di Siena. Come Gunfredo aveva fatto con Ss. Giusto e Clemente, Ildebrando fece con S. Galgano, dimodoché la dilatata distanza dalla civitas diventa riproduzione fededegna dell’accresciuta potenza vescovile: una manciata di