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Le apparizioni e il ruolo storico culturale della Russia, l’apprendistato militare e un secolo di conflitti: la musica di Artemev negli intarsi audiovisivi dello

Specchio

Il brano di Pergolesi fa da raccordo tra la sequenza dedicata alle riproduzioni leonardesche e un terzo episodio, dopo il colloquio telefonico e gli spagnoli, ambientato nell’appartamento della voce narrante, perennemente assente dal visivo. Il ritorno in questo luogo dopo la digressione cominciata dalla guerra di Spagna è stabilita dal suono del tram che stride sui binari: è lo stesso effetto con cui eravamo passati dal primo sogno all’appartamento vuoto,

172 dove risuonavano le voci al telefono di Aleksej e della madre. La ripetizione del rumore non solo aiuta l’identificazione del paesaggio sonoro della sequenza, ma compatta come una rima l’intelaiatura del testo e produce nello spettatore l’idea che vi sia un vocabolario tarkovskijano di suoni o ritmi sonori che ricorrono nelle sue sequenze articolando frasi senza per questo funzionare come una lingua. Segnaleremo a tempo debito altre ‘parole’ di questo vocabolario, che di norma sono ben riconoscibili, alla pari della sirena del piroscafo, ma per il momento la sequenza impone di essere ripercorsa in tutte le sue svolte per analizzare la sua costruzione audiovisiva.

La caduta delle monete con il loro tintinnare metallico è decisamente un evento chiave per capire la trasmutazione dell’atmosfera della sequenza: il denaro disperso, anche se non sonante, è un’immagine che ricorre di frequente nel cinema tarkovskijano probabilmente a indicare metaforicamente la dissoluzione dei beni materiali, della ricchezza, ma nel nostro caso, è più importante seguire il ‘concatenarsi’ degli eventi piuttosto che arrestarsi sul loro valore simbolico.

Aiutando la madre (Natal’ja) a raccogliere le monete dal pavimento, Ignat riceve una scossa e inizia a fantasticare sul meccanismo del déjà vu per cui ritiene di aver già vissuto lo stesso evento. Questa alterazione della memoria che confina con il sogno è indizio che la sequenza si prepara ad entrare in un’altra dimensione e la musica di Artemev puntualmente attacca proprio al termine di queste parole con le stratificazioni sonore (cori, archi carichi di tensione) che richiamano la prima visione onirica e in parte il finale di Solaris. La musica non interagisce con il visivo, né Ignat né la madre la ascoltano, ma per il momento si aggiunge agli altri elementi sonori rendendo instabile il silenzio dell’appartamento cittadino soggetto ora alle misteriose oscillazioni di intensità che rendono viva la dinamica del pezzo di Artemev.

La musica accompagna la visione della macchina da presa che in Tarkovskij, quando sembra assecondare lo sguardo di un personaggio, subito se ne allontana alla ricerca di una posizione che arricchisca dialetticamente i punti di osservazione sulla realtà rappresentata: i crescendo d’intensità e la disposizione della masse sonore del coro e degli archi preparano e seguono la panoramica che svela le presenze fantasmatiche sistemate presso il tavolo vicino alla finestra, dove inizialmente stava Ignat.

Il disegno musicale di Artemev segue e predispone dal punto di vista emozionale gli snodi salienti della costruzione della sequenza, ma anche i rumori forniscono un contributo decisivo per definire lo statuto incerto, a metà tra sogno e realtà, delle vecchie figure femminili apparse

173 e del luogo in cui il giovane si trova: ancora un tintinnio, questa volta delle tazze da tè, anticipa e costituisce il segno sonoro della loro presenza che attira Ignat impaurito.

Una donna vestita con un pesante vestito di velluto scuro di vecchia foggia è seduta al tavolo e sorseggia un tè servito da una vecchia cameriera: quando ne ordina ancora per Ignat, la cameriera si muove senza produrre alcun suono sul pavimento, i suoi passi sono assolutamente silenziosi nonostante abbia scarpe con il tacco che dovrebbero risuonare almeno quanto quelle del protagonista. Dopo l'apparizione rappresentata nel visivo utilizzando il fuori campo, anche il sonoro mostra dei ‘buchi’ nel rispetto della verosimiglianza audiovisiva della situazione dai quali si fa strada la paura a colpi di timpano: Artemev interviene con un altro dei suoi crescendo d’intensità e con una nuova accumulazione di interventi del coro, degli archi e per la prima volta delle percussioni per descrivere lo stato interiore del giovane all’ascolto dell’inatteso silenzio dei passi della donna. Svanita la serva è ancora il tintinnio della tazza a far girare Ignat verso la figura al tavolo: è il suono o la sua assenza a pilotare la sua attenzione di adolescente apparentemente svagato e preso nelle sue fantasticherie, ma esso è anche l’unico indizio di realtà quando la visione è ormai divenuta la porta principale verso il sogno164.

Nel cuore della sequenza, quando il ragazzo deve leggere un passo dalla lettera di Puskin a Chaadaev del 1836, la musica tace per lasciare spazio alla parola la cui consistenza è l’esatto opposto del prodotto della tipografia. Ignat dà voce a parole trascritte a mano in un quaderno, esse sono quindi prima di tutto selezionate e interiorizzate, grazie anche al semplice gesto della copiatura non riprodotte da una macchina. E il testo non è un discorso dei capi di stato sovietici, che intende plasmare il lettore ai dettami dell’ideologia, ma è un brano che rappresenta la pressa di coscienza da parte di un’artista (Puškin) della missione storica della Russia165.

164 Può essere utile ricordare che in Solaris il tintinnio dei campanelli o le corde pizzicate del temir komuz segnalavano la presenza delle creature generate dal pianeta attraverso la coscienza dei protagonisti. Nelle note di lavorazione alla musica del film Artemev riporta molto spesso le parti per strumenti che producono questi suoni acuti e insieme diafani, fragili (campanelli, barre di vetro, bicchieri di cristallo riempiti d’acqua) anche se poi ricorre sistematicamente al vibrafono. In Nostalghia Gorčakov reagisce puntualmente al tintinnare aereo dei campanelli che segnano gli spazi delle apparizioni a partire dalla prima che abbiamo associato ad una sorta di Annunciazione.

165 Nel dialogo tra i due protagonisti della sequenza emerge che le parole sono scritte con inchiostro rosso e se si legge il racconto da cui è stato tratto il film si noterà come Tarkovskij precisi che si tratta di una scrittura pre-rivoluzionaria con caratteri ormai aboliti. Dallo sviluppo del visivo si riesce a capire che si tratta di un quaderno scritto a mano con diversi inchiostri ma niente più: durante la lettura Ignat e la misteriosa signora in velluto grigio sono spesso nella stessa inquadratura, ma la messa a fuoco privilegia la donna che ascolta la parola di Puškin e non sulla scrittura del vecchio quaderno rilegato proprio quando la macchina da presa sta in posizione semisoggettiva rispetto al lettore, al giovane Ignat. Poi l’attenzione dello spettatore è accuratamente dirottata su un particolare marginale, la tazza da tè che viene poggiata sul tavolo e non sul piattino e questo gesto preparerà lo svanire dei fantasmi femminili: la costruzione della sequenza tarkovskijana si rivela così ancora una volta estremamente policentrica.

174 La lettura procede incerta, al giovane il senso del ruolo storico della Russia, completamente estranea al contesto europeo e a maggior ragione lontana dalle civiltà dell’estremo oriente, sfugge e rischia di restare incompreso anche dallo spettatore se Artemev non intervenisse almeno a sottolineare il periodo in cui si cita la lotta vittoriosa contro i tartari: ancora una volta emerge il tema della guerra e il musicista russo anticipa un frammento della sua composizione riservata alla sequenza delle guerre per riprendere il tema, lo strato più ampio e tragico in cui le esistenze dei personaggi dello Specchio si sono compiute.

Il problema dell’assenza di un’eredità storica (e culturale) per la Russia, prodotta dalla sua sostanziale estraneità alle vicende europee, è particolarmente sentito da Tarkovskij che non perde occasione per evidenziare il debito con il passato: in Solaris sistema un frammento musicale tratto dall’Andrej Rublëv e nello stesso tempo fa apparire un’icona nella cabina di Kelvin, operando una digressione audiovisiva proprio per sottolineare l’importanza di alcuni oggetti simbolo della memoria di un intero popolo al termine della sequenza in cui Kris mostra ad Hari (essere privo di passato) il filmato portato dalla terra. Nello Specchio il vuoto prodotto da questa condizione, che è sempre sul punto di essere riempito da qualsiasi programma politico culturale che propugni una fantomatica missione per la Russia, produce disorientamento. Al termine della lettura suona il campanello di casa, ma è ancora un sussulto dei cori di Artemev a determinare una variazione dell’atmosfera fantasmatica in cui è immersa la sequenza, non un suono coerente con la realtà dell’appartamento descritta all’inizio della sequenza. Ignat va alla porta, ma non riconosce e quindi non trattiene Mar’ja Nikolaevna, la madre di Aleksej (interpretata dalla madre di Tarkovskij stesso) e la vecchia donna è convinta di aver sbagliato appartamento: le generazioni non si riconoscono, abitano luoghi distinti come rappresentano tempi diversi e non comunicanti, né è possibile stabilire la dimensione ideale verso la quale si debba muovere il reale (è quella degli avi rappresentata da Marija Nikolaevna? O quella del sogno e quindi dell’ambigua missione storica della Russia vissuta da Ignat?). La porta è una soglia sonora: la confusione di voci e rumori dell’androne166 tenta di riportare sul piano del reale la dimensione a metà tra il sogno e la visione mistica

166 Questi suoni si incontrano di nuovo in Nostalghia, in particolare nel secondo sogno del protagonista nella chiesa semisommersa e durante l’ultima telefonata ad Eugenia. Come ogni composto sonoro tarkovskijano anche questo risulta piuttosto complesso, ma sono riconoscibili almeno le voci di bambini, i rumori e le grida dei loro giochi che si fondono insieme ed echeggiano come provenienti dall’esterno. Nel film girato in Italia esse rappresentano la commistione dei ricordi d’infanzia, rievocata dalla recita della poesia paterna che apre la sequenza, ma documentano anche una parte del paesaggio sonoro italiano che la macchina da presa non è riuscita a cogliere e che si è depositato nella coscienza di Gorčakov. Questo può essere un esempio di ritmo sonoro appartenente al vocabolario tarkovskijano che, come un ideogramma, Tarkovskij adatta alle necessità espressive delle diverse sequenze in cui è adoperato.

175 accompagnata della musica di Artemev, ma il mancato incontro tra il vecchio e il nuovo rinvia la conclusione dell’apparizione delle donne a Ignat e la affida al musicista russo e al missaggio operato da Litvinov.

Gli archi (violini), le voci del coro e le percussioni (i timpani) preparano il crescendo finale che rivela il tavolo alla finestra vuoto: le fantasmatiche presenze femminili sono sparite nel nulla così come erano apparse ma, come la macchina da presa ci aveva da tempo preparato dirottando la sua attenzione dalle pagine del quaderno letto da Ignat alla donna che ascoltava sorseggiando la bevanda, è rimasto l’alone di vapore della calda tazza di tè a testimoniare che ciò che abbiamo visto è accaduto, si è manifestato alla coscienza del protagonista immerso nelle sue fantasticherie.

Seguiamo in parallelo il dileguarsi del vapore con l’esplosione del crescendo finale, ma i due percorsi non coincidono: la musica stacca prima dello svanire della macchia producendo così una parentesi di silenzio che riapre il racconto cinematografico in altre direzioni rispetto a quelle finora veicolate dalla musica di Artemev. Il silenzio ci riporta alla realtà con l’osservazione dell’alone evanescente prima del grido di Ignat, che segna il suo ‘risveglio’: rispetto alle tradizionali uscite dai sogni o dalle visioni mistiche questa presenta una scansione degli eventi inconsueta, particolarmente a-sincrona, dove i piani del reale e dell’immaginario tornano definitivamente al loro posto con lo squillo del telefono e la voce di Aleksej, che dirotta il flusso audiovisivo nei suoi ricordi da adolescente.

La voce del padre all’altro capo del filo, filtrata dalle poche frequenze rese disponibili dall’apparecchio, echeggia come se si diffondesse un interno vuoto: ritornano in mente le stesse condizioni spaziali del colloquio con la madre, che è diventato una corrente sonora in grado di raccordare i due episodi della fattoria e della tipografia. Il telefono, per quanto sia un apparecchio meccanico atto solo alla comunicazione, sembra poter veicolare anche le condizioni tipiche della voce interiore, che ben presto inizia a ricordare il periodo dell’adolescenza durante la guerra: Aleksej si sostituisce ad Ignat e la protagonista dei suoi ricordi diventa una ragazza dai capelli rossi e dalle labbra sempre screpolate di cui si era innamorato (come sempre in Tarkovskij i giovani portano e mostrano sul volto segni di sofferenza)167.

L’apparizione della ragazza è un saggio delle costruzioni audiovisive tarkovskijane: la sua camminata sulla neve è prima di tutto sospesa nel silenzio, come se tutta la vita segnalata dai rumori circostanti fosse interrotta. Inutile quantizzarlo: dall’ultima parola del padre detta in

167 La telefonata non si chiude come la precedente con la madre, ma con il padre che si interroga se dall’altra parte del filo ci sia ancora il figlio ad ascoltarlo («Mi senti?»). La comunicazione si è già interrotta e la parola è diventata la porta per l’apparizione del primo amore del protagonista.

176 fondo più tra sé e sé che al figlio e il calpestio dei passi sulla neve si verificano alcuni istanti di silenzio assoluto che fuoriesce dalla rappresentazione sonora. Poi si ascolta solo il rumore della neve calpestata che prosegue e insieme incrementa il gioco dei ritmi sonori stabiliti dai passi che abbiamo già rilevato nell’appartamento nell’episodio delle apparizioni ad Ignat. Poi su questo calpestio, che evidenzia il risuonare della terra sotto i piedi di questa ennesima apparizione femminile, si libera l’immaginazione musicale della voce narrante che traduce la visione nel brano ‘prelevato’ dall’opera The Indian Queen di Purcell168. I passi si dissolvono nel silenzio extradiegetico della musica, la visione si rivela appartenere al giovane Aleksej e in questo punto della sequenza si completa il gioco delle somiglianze: uno stesso attore rappresenta il padre adolescente e il figlio Ignat.

Per completare questo quadro è necessario sottolineare che Tarkovskij adotta una procedura che ricalca perfettamente i ‘comandamenti’ ejzenstejniani del manifesto dell’asincronismo: i passi degli stivali sulla neve si ascoltano per lo più quando si vede solo il volto sorridente della ragazza e si esauriscono nella musica quando il quadro si apre a mostrarla per intero. Il suono della neve calpestata è quindi la soluzione sonora per questa prima parte della sequenza che poi si solleva fino alla citazione musicale, che ricopre lo sguardo di Aleksej e poi termina sugli spari, che costituiscono la tonica della sequenza al poligono di tiro.

La presenza di Purcell interrompe la serie di citazioni tratte dalla musica sacra (Bach e Pergolesi) e si rivolge all’opera barocca caratterizzata dalla ricerca della trasposizione in musica e canto dei conflitti per il potere, degli intrecci amorosi, dei destini tragici o gloriosi dei protagonisti. Il regista preleva il frammento musicale, ancora una volta senza l’ingombro didascalico della parola, disposto tra due strofe della parte cantata dell’atto IV, dove si canta il sentimento d’amore che raggiunge la sua più autentica purezza davanti agli ostacoli che deve affrontare. L’analogia con la situazione vissuta dal giovane Aleksej è evidente e Tarkovskij se

168 Questo primo suono sorto dal silenzio non appartiene più direttamente al ricordo della voce narrante, ma rivendica subito la propria autonomia presentandosi senza alcun riverbero, che avrebbe prolungato l’atmosfera da interno della coscienza. La neve, prima elemento sonoro che visivo ad invertire il cliché del bianco immacolato dove far risaltare la bellezza della ragazza e la passione nata nel giovane protagonista calato nei propri ricordi come nel proprio presente, non può non rinviare a Brueghel e quindi almeno ai Cacciatori nella

neve di Solaris. La scelta della coppia Artemev-Tarkovskij nella pellicola di fantascienza era diretta però a

cogliere il dinamismo di tutti i rumori che popolavano l’aria del dipinto (campane, corvi, vocio delle persone lontane) silenziando completamente la terra stesa sotto la coltre bianca che poteva comunque essere fatta risuonare dai cani (di cui si sentono solo i mugolii o i latrati lontani) o dai cacciatori stessi, che non vengono mai messi in movimento dai suoni. La dimensione interiore in cui accade tutto ciò è sempre evidente: il riverbero annunciato all’inizio della sequenza appartiene infatti all’interiorità di Hari da cui il suo compagno Kelvin è escluso. Nel caso dello Specchio è più importante far risuonare invece la terra sotto i passi dei diversi protagonisti (poi anche l’aria con i corvi e gli spari) e i suoni si liberano dalla caratterizzazione convenzionale dell’interiorità (l’eco o il riverbero) per assumere una consistenza oggettiva.

177 ne servirà ancora quando nell’episodio degli “orecchini”, che cancella l’idea dell’infanzia come tempo felice.

Al poligono di tiro il confronto tra Asaf’ev e l’istruttore riguarda ancora una volta il tema della parola e delle sue le valenze: il ragazzo esamina il gergo militare alla luce del significato della lingua russa smascherandone in modo impertinente l’inconsistenza. La determinazione che rivela il suo agire non passa come una banale insubordinazione, ma dimostra quanto il gergo militare, a cui si dovrebbero assuefare tutti gli adolescenti durante il ‘teatro’ delle esercitazioni al poligono, non possa aiutare a dominare né a controllare l’insensata crudeltà della guerra di cui portano i segni sia il protagonista della sequenza, rimasto orfano dei genitori, sia l’istruttore, che ha subito una gravissima ferita.

L’istruttore non tenta di spiegare le espressioni metaforiche che usa regolarmente e che gli sono state inculcate («la linea del fuoco…») e preferisce cadere nella tautologia («è la linea del fuoco») e parimenti non sono concessi errori terminologici, che possono nascere da suggestioni e analogie con realtà diverse dalla guerra perché ogni parola deve restare ancorata al suo referente: il fusto del fucile non è una «canna».

Su questo tema si stratificano i rumori del poligono: più che sugli spari dei piccoli fucili, che spaventano i corvi nel silenzio dell’inverno, è rilevante il ‘basso continuo’ dei passi dell’istruttore sull’impiantito ghiacciato della struttura per le esercitazioni169. Alla levità della camminata femminile con cui si era aperta la sequenza, segue il peso e la regolarità del passo di un soldato, ma il ritmo sonoro dell’incedere dei diversi protagonisti costituisce un vero e proprio ‘bordone’ per la sequenza che terminerà quando Asaf’ev, con i suoi pesanti stivali risalirà la scala della fossa di tiro e abbandonerà il gruppo dei giovani soldatini. E i suoi passi si dissolveranno nella marcia dei soldati nelle acque paludose del lago Sivaš: Tarkovskij ha insonorizzato la sequenza intorno alla quale è imperniato tutto il film privilegiando nettamente il calpestio dei piedi dei soldati che affondano nel fango, arrivando al punto di sacrificare la comprensibilità della musica di Artemev. Ma del pezzo principale del compositore russo si sentiranno sempre distintamente i colpi di timpano che segnano musicalmente l’orizzonte entro cui vengono compresi i ritmi sonori dell’incedere delle diverse comparse che sono succedute e ancora si succedono nella sequenza: questo strumento scandisce una marcia compassata, solenne senza retorica, che invita alla meditazione dolente, al ricordo del sacrificio delle vittime sepolte dalla guerra e dalla storia.

169 La camminata dall’istruttore non è meno ‘ejzenstejniana’ di quella della ragazza dai capelli rossi: Tarkovskij rimane incollato con la macchina da presa al volto o alla nuca di questa comparsa indicando così con insistenza la calotta seminascosta sotto il berretto, la ferita non rimarginabile che quest’uomo ha ereditato dalla guerra.

178 Abbiamo operato questo sconfinamento nella sequenza più nota dello Specchio per delineare la struttura ritmica che utilizzando suoni e musica innerva due sequenze risolvendole in modo unitario, ma è opportuno soffermarsi ancora sulle modalità di composizione del silenzio nelle sequenze tarkovskijane. Asaf’ev è così bravo e verosimile prima nel proteggere da ogni urto e poi nel tirare una bomba a mano finta che tutti, istruttore compreso, la credono vera: tutti sanno che le armi per le esercitazioni sono scariche o armate in assoluta sicurezza (Tarkovskij si era soffermato anche sul tintinnio dei piccoli proiettili per

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