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La fattoria (il fuoco): dal reame della voce al suono luminoso di Artemev

La vicenda inizia visivamente penetrando in un quadro dove sono evidenti i due elementi cardine dell’universo tarkovskijano già rilevati anche in Solaris: la madre e la terra russa rappresentata dalla campagna fatta di ampie radure coltivate, nel cui centro spiccano elementi verticali, circoscritte da scuri boschi misti di latifoglie, che entreranno da protagonisti nei sogni intrecciati ai ricordi del protagonista. La macchina da presa disegna un vero e proprio ritratto della madre seduta sulla staccionata con una panoramica che ruota intorno al soggetto isolandolo dal resto dello spazio circostante e così prepara l’incontro casuale con un passante, un medico, che ha imboccato la via sbagliata per Tomšino.

A sottolineare l’istanza narrante ben distinta dal soggetto osservatore presente nel quadro provvede la voce maschile fuori campo che introduce il racconto suggerendo il tema del mancato ritorno a casa del padre, della separazione, un evento che completava il quadro dei punti di riferimento nel paesaggio familiare, ma che è destinato a non ripetersi nonostante lo spettatore possa distinguere la figura maschile in mezzo al campo presso il cespuglio. La voce narrante integra nell’immagine un punto di vista distinto da quello della donna sullo steccato e introduce nel racconto cinematografico il passato.

Può essere interessante ricordare come Tarkovskij consideri questa sequenza esemplare per il modo in cui l’attrice è stata diretta perché la costruzione dell’interpretazione del personaggio incide sul modo di intendere la temporalità della scena: Margarita Terechova non conosceva l’intero svolgimento della sequenza e soprattutto non ha mai saputo se la vicenda raccontata da Tarkovskij sarebbe approdata al ritorno della figura del marito di Marija Ivanovna, il personaggio che incarnava sullo schermo.

Questa decisione del regista consentì di riprodurre la condizione in cui si trovava la madre di Tarkovskij completamente inconsapevole del suo destino, totalmente immersa in un presente di cui viveva l’unicità istante per istante senza poterne ricavare alcun significato: contrariamente al teatro, dove secondo Tarkovskij l’attore deve conoscere l’intero contesto, la cornice in cui si deve inserire ogni scena e tutta la catena degli eventi per decidere come orientare organicamente in ogni momento la propria recitazione arricchendola dei segni necessari che la legano al mondo unitario, conchiuso e compiuto da rappresentare, nel cinema il regista dello Specchio intende restituire esemplarmente, attraverso la recitazione dell’attore, la vita colta nel suo accadere, l’esemplarità dell’incontro completamente aperto a un futuro ancora tutto da determinare. È la voce narrante, che per il momento può apparire come un narratore onnisciente ma che ben presto troveremo pienamente immersa nelle metamorfosi

123 della memoria, a incidere nell’interpretazione del presente alludendo alla separazione già avvenuta tra le figure del padre e quella della madre immersa nella solitudine del paesaggio russo.

Il medico sopraggiunto lungo il sentiero prova a trasformare il quadro carico di nostalgia in un cosmo: la caduta dallo steccato consente di rovesciare i due osservatori e finalmente metterli in ascolto della natura e il suo intervento sembra appositamente costruito per evidenziare questa condizione. L’incontro si chiude con una folata di vento che regola, più della volontà dei due protagonisti, l’ultimo sguardo tra il medico e la donna sullo steccato.

Il sonoro presenta subito una soluzione piuttosto tipica del cinema di Tarkovskij: la dissolvenza con cui il Preludio di Bach scompare e si fonde con il vento che agita le foglie della radura e incornicia la protagonista. Al vento segue il fischio del treno che introduce la voce del narratore: questa è stata annunciata nei titoli di testa come «voce dell’autore» e il compito che assolve inclina decisamente verso la composizione dell’atmosfera della sequenza, piuttosto che staccarsene rimarcando una posizione esterna da cui commentare le vicende.

La voce di Smoktunovskij, attore molto famoso alla metà degli anni settanta in URSS, lega le inquadrature che tratteggiano il ritratto rinascimentale, si potrebbe dire leonardesco, della madre prima di lasciare spazio al medico e al suo monologo: questo intervento è punteggiato da un paesaggio sonoro pienamente tarkovskijano dove l’abbaiare lontano dei cani è la traccia sonora della nostalgia e gli insetti che si scoprono tra i cespugli i primi segni elementari della vita della natura misteriosamente parlante come allo psicologo Kelvin nella sequenza iniziale di Solaris.

Il fruscio del vento in due folate chiude l’incontro sollevandolo dal piano delle implicazioni psicologiche che hanno coinvolto i due convenuti e prepara l’ingresso della lettura della poesia di Arsenij Tarkovskij Primi incontri: è evidente come l’episodio ambientato nella fattoria proponga ora una ripresa del tema con cui si è aperto calandolo però in un passato che precede quello suggerito dal narratore, poiché la lirica ricorda gli incontri tra i due amanti e solo nell’ultima strofa, nel loro mondo idillico «dall’altra parte dello specchio», appare il destino chiamato a dividerli.

La voce del padre del regista, che recita le proprie liriche, imprime nell’immagine il ritmo del verso russo sollevando la parola dal piano del discorso quotidiano e occasionale in cui era caduta, nonostante o proprio a causa dell’esibizione del medico cinico, che comunque è riuscito a destare la memoria della madre. Attraverso la recita dei versi, grazie ad un sensibile mutamento del ritmo discorso, della grana della voce e della sua sostanziale estraneità

124 all’immagine – si tratta infatti di una voce over – si mette in scena l’assenza paterna agendo prima di tutto sulla materialità della parola che appartiene al dominio del sonoro.

L’effetto ottenuto dall’inserzione del testo poetico nella sequenza è prima di tutto la sospensione della narrazione, del presente del ricordo di Aleksej, la voce narrante, per immergere lo spettatore nel microcosmo della poesia governato dalla figura della madre-amante e dato nella sua molteplice e vitale unità tutto in una volta.

In questa digressione Mar’ja si aggira nella casa di campagna come se fosse circondata «dalle cose semplici»105 il cui potere evocativo è liberato solo dalla parola poetica, che li nomina rivelando poi l’universo che essi hanno composto e ancora tornano a comporre grazie ai versi e soprattutto alla voce del poeta. Ben presto, però, ci si accorge facilmente che la parola, la voce non comunica nulla dell’immagine, che il visivo e il sonoro non si suturano vicendevolmente, ma moltiplicano gli oggetti e le situazioni che lo spettatore deve padroneggiare.

La donna, guardando in macchina con insistenza, sembra voler saldare all’istanza narrante il fluire ininterrotto del discorso, ella piange e incarna il dolore per il mondo ormai perduto rappresentato nella lirica, ma quando Arsenij legge il verso, variamente tradotto, che si può intendere come «E la parola riempì la mia gola a piena voce», oppure «E il linguaggio, qual forza vibrante, riempì la gola», ella controlla il quaderno posato sulla finestra.

E quando, sempre parafrasando il testo recitato dal padre del regista, l’acqua fa da «sentinella» alle metamorfosi prodotte dalla parola nel mondo carico di figure e situazioni mitiche al di là dello specchio, il mormorio della pioggia sulle foglie è l’unico suono che si unisce alla voce recitante: il liquido, tutto altro che inerte e duro come immaginano i versi, delinea con il suo canto lo sfondo naturale dinamico, sonoro e dotato di un proprio ritmo al discorso di Arsenij, tentando così di farlo aderire alla durata dell’immagine come il precedente sincrono con il visivo, che proprio in corrispondenza del verso chiave inerente al carattere sonoro della parola e alla sua liberazione, aveva spostato l’attenzione sui quaderni, sulle pagine manoscritte.

L’assenza del padre è così rappresentata da un luogo audiovisivo in cui convergono la sua voce sradicata e sospesa, risonante nel presente rappresentato nell’immagine, lo sguardo e la memoria della madre che pilota la macchina da presa (lo sguardo di Aleksej, presenza rimemorante del film, come si scoprirà in seguito) nella penombra della casa di campagna, sui

105 Queste e le altre parole tra virgolette di questo paragrafo sono tratte dalla lirica Pervye svidanija (Primi incontri).

125 quaderni e poi fuori nella natura, che attraverso il semplice mormorio della pioggia vincola il discorso poetico al ritmo di uno dei suoni originari del microcosmo dipinto nella lirica106.

Nonostante la complessità audiovisiva dell’inquadratura appena analizzata, il testo poetico appare in particolare rilievo grazie alla voce over per la maggior parte del suo svolgimento e non è possibile trascurare il suo contenuto che, come è già stato anticipato, non decifra l’immagine, né comunica o anticipa nulla di essa allo spettatore, che deve così necessariamente collocarsi tra i due mondi rappresentati.

L’incontro tra i due amanti è un’epifania, un evento che mostra l’ordine divino e invisibile del mondo e questa rivelazione si ottiene solo attraverso il rito presieduto dai due amanti, dalla loro unione estatica. Il dispositivo necessario per compierlo è lo specchio: esso è insieme il confine che separa il mondo finalmente ricondotto alla sua originaria dimensione cosmica dal reale e il «cristallo» che può contenerla.

In questa visione, dove ogni elemento è espresso dall’energia che lo muove o lo fa risplendere, si delinea una condizione temporale di carattere mitico in cui l’intera creazione si dispiega nuovamente secondo l’ordine sonno («E tu in trono dormivi») – sogno («E nel cristallo pulsavano i fiumi/fumavano le montagne,/luceva il mare/E tu tenevi in mano la sfera di cristallo») – veglia («poi ti destasti […]») della donna regina che trasfigura «il quotidiano vocabolario umano»: proprio nel cuore di una lirica tutta concentrata sulla contemplazione, solo la rivelazione della radice più intima della parola, che passa attraverso la liberazione del suono, il farsi cassa di risonanza del parlante alla sua incontenibile potenza primigenia – «E il linguaggio, qual forza vibrante, riempì la gola» – consente all’immaginario del poeta di dare esperienza del reale cogliendo i ritmi più segreti del suo continuo mutamento e svelandone «il vero suo significato».

Torna così il motivo iniziale rappresentato dalla guarigione del balbuziente e questo ci consente di osservare l’attenzione che Tarkovskij pone sui modi con cui la parola viene mediata: il ritorno alla fluidità del discorso da parte del giovane nel prologo, confermato ma nello stesso tempo sospeso ed elevato in una dimensione difficilmente attingibile dal Preludio di Bach, è stato ribadito dalla voce over narrante di Smoktunovskij, che in prima persona ha fatto rifluire il passato nelle prime immagini della campagna russa. Calato nella realtà evenemenziale dell’incontro dal dialogo tra il medico e Marija, lo spettatore è stato nuovamente sbalzato in una dimensione ‘quasi cosmica’ al ritmo dei versi russi di Arsenij Tarkovskij: la parola oscilla tra l’impossibilità di essere emessa, la lotta per controllarla, e il

106 Sulla complessità di questo incipit narrativo si veda Bird, Andrei Tarkovsky, elements of cinema, cit., p. 103

126 livello più alto di eloquenza (Bach e le liriche di Tarkovskij padre). Tra questi due estremi si materializza il problema della liberazione del suono raccontata come atto creativo per eccellenza. E questi particolari nella composizione delle sequenze finora analizzate sottolineano come nel cinema di Tarkovskij la parola sia un medium tutt’altro che trasparente.

La sequenza non termina con i versi del padre sul ritratto della madre piangente, ma con l’incendio del fienile: è interessante notare fin d’ora come esso sia annunciato dalla protagonista che lo intravede nel fuori campo e alle sue parole tutti (anche il piccolo Aleksej, la voce narrante apparentemente padrona del ricordo) escono a contemplare lo spettacolo. Resta solo la macchina da presa negli interni della casa di campagna ed essa si attarda interessata ad esplorare la vita degli oggetti nel tempo: lo sviluppo del visivo eccede la memoria individuale, soggettiva enunciando la presenza dell’autore quasi in una dichiarazione di poetica. L’occhio tarkovskijano coglie la caduta di un oggetto e registra il suo urto sul pavimento di legno: questo evento, anche dal punto di vista del sonoro, è insignificante per la narrazione e non sviluppa significati metaforici, ma prepara la visione ‘indiretta’, mediata dell’incendio su una superficie riflettente, su uno specchio.

Prima che la macchina da presa si volti finalmente in semisoggettiva verso la luce viva del fuoco nella quale sono immersi gli abitanti della casa come osservatori, il visivo intende registrare il suo riflesso materializzato su di una superficie che renda meno trasparente il cammino della visione e, come in un quadro fiammingo olandese, inviti lo spettatore ad entrare consapevolmente all’interno di un intero mondo esplicitamente messo in quadro, trasfigurato dalla memoria (stavolta del regista e non del piccolo Aleksej, che lo rappresenta nel film) e solo attraverso questo percorso ne possa intuire pienamente il senso.

E come lo specchio, introdotto dalla lirica ed ora rinvenuto nella casa di campagna con le stesse caratteristiche di ‘contenitore’ di un microcosmo, mostra di essere uno dei Leitmotiv visivi nel film, così anche l’acqua ritorna in questa sequenza dopo aver dialogato con la sua rappresentazione nella lirica di Arsenij Tarkovskij svolgendo la funzione decisiva di cornice della visione, presiedendo ed enunciando le trasformazioni operanti dallo sguardo sul reale e contribuendo alla sua materializzazione.

Analizzando il sonoro si noterà che l’abbaiare insistente e allarmato del cane invisibile tiene viva l’attenzione sull’incendio soltanto annunciato da Marija ai figli durante il vagabondaggio della macchina da presa nella stanza e nell’uscita verso lo specchio: le grida del padrone della fattoria si perdono nel fuori campo e quando la macchina da presa finalmente si volta verso l’evento incrociando gli sguardi degli osservatori in semisoggettiva

127 udiamo finalmente il suono proveniente dalla luce intensa (e non più riflessa) mediata dal gocciolare dell’acqua dalla grondaia.

Non appena il fuoco compare come parte integrante e insieme decisiva, originaria del ricordo, ascoltiamo il primo suono elettronico elaborato da Artemev che lavora sul cupo mormorio delle fiamme appena divampate che stanno divorando il fienile. Il lavoro di mediazione dal visivo si estende al sonoro: è pienamente evidente che non si tratta di un effetto diegetico come il gocciolio dell’acqua, ma di un intervento che opera con una massa sonora di basse frequenze, opportunamente riverberate e rese dinamiche come era accaduto in

Solaris nei quadri riservati al pianeta.

Come nel visivo così anche nel sonoro, al termine del piano sequenza che ha esplorato lo spazio della casa di campagna, si fondono in un unico fluido movimento i due opposti elementi, fuoco e acqua, tra cui vengono a trovarsi le comparse di questo primo episodio: l’elaborazione elettronica accentua il carattere sonoro dell’elemento, tradizionalmente riconosciuto come sinonimo di luce e di maschile, e il suo cupo ma continuo moto che si ricongiunge al suono dell’acqua, del femminile le cui forme visive nel cinema di Tarkovskij hanno altrettante, se non maggiori, corrispondenti puramente sonore, basti ricordare soltanto

Nostalghia.

Questi due elementi primi sono quindi usati per portare a compimento la visione, per rappresentare la prima incarnazione del suono, per rigenerare la creazione dalla vibrazione primigenia di cui siano testimoni e ascoltatori alle spalle dei protagonisti del ricordo al termine di una elaborata inquadratura sicuramente ‘digressiva’ rispetto alla narrazione, ma strettamente interconnessa al senso profondo della lirica di Arsenij Tarkovskij, che ha messo in scena attraverso le sue immagini di carattere mitico anche il problema della creazione artistica.

L’aura elettronica si estende oltre la visione dell’incendio del fienile che abbiamo analizzato: essa circonda il personaggio di Mar’ja alterando la sua intensità rispetto agli altri rumori diegetici, ma persistendo nel quadro che mostra la contemplazione del fuoco da parte della donna. Il suono primigenio scaturito da questo elemento si trasforma quindi anche in risonanza interiore nella protagonista e le parole di Tarkovskij a proposito del lavoro del suo musicista con gli strumenti elettronici ribadiscono questo principio:

Nello Specchio, il compositore Artemev e io abbiamo impiegato della musica elettronica. Ritengo che le possibilità di questo tipo di musica applicata al cinema siano molto grandi. Volevamo che il suo suono si avvicinasse ad un’eco poeticizzata, a dei fruscii, a dei sussurri. Questi avrebbero dovuto esprimere una realtà convenzionale e, nello stesso tempo, avrebbero dovuto riprodurre esattamente determinati stati d’animo, il suono della vita interiore. […] Inoltre la musica elettronica possiede la caratteristica di

128 dissolversi nell’atmosfera sonora generale. Essa può nascondersi dietro i rumori e risuonare come l’indefinita voce della natura, di vaghi sentimenti…107.

Tarkovskij fissa per l’elettronica il principio di una composizione musicale che si muove su basi imitative ‘realistiche’: abbandonando le forme musicali tradizionali e tutti i suoi parametri (ritmo, timbro, armonia, melodia e così via), essa si mimetizza con la natura che notoriamente invade il quadro tarkovskijano spesso complicandone la costruzione e tendendone quindi l’articolazione del senso. Lavorando con il suono l’elettronica può calarsi nella realtà riprodotta interpretandone l’essenza, portando alla luce, per esempio, i suoi continui e spesso impercettibili mutamenti non organizzabili in forme di carattere tradizionale, che facilmente potrebbero assumere un aspetto simbolico perennemente soggetto a decifrazione.

Questa attività di intonazione alla vita della natura, grazie all’atteggiamento contemplativo dei protagonisti, che volontariamente si immergono e si abbandonano alle manifestazioni misteriose della natura sottoposta al dinamismo incontrollabile degli elementi primi (fuoco, acqua, ma anche aria, come si vedrà nel successivo sogno), può diventare quindi la rappresentazione ideale dell’ascolto, la vibrazione dell’interiorità dei personaggi, inesprimibile a parole, che cerca, seppur per brevi istanti, piena consonanza con il mondo circostante.

Quando la mistura sinusoidale lascia il posto a timbri che ricordano le voci di un coro, la composizione di Artemev stabilisce un ponte che lega la manifestazione del fuoco alla visione onirica del piccolo Aleksej: la musica elettronica ‘imitativa’ voluta da Tarkovskij dichiara così la propria appartenenza alla dimensione intermedia del sogno anche in questo film dopo che in Solaris era stata adoperata per delineare egualmente gli spazi di transizione, i corridoi percorsi dal protagonista disorientato e le fasi di trapasso dallo stato di coscienza al delirio, al sogno, fino a svelare la consistenza del suo ‘ritorno’ sulla terra.

La preparazione audiovisiva degli elementi primi nella sequenza della casa di

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