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La drammaturgia sonora di Solaris: un percorso tra le note di Artemev e l’intreccio visivo tarkovskijano

La fono-sfera di Solaris si può considerare articolata in almeno tre dimensioni ben riconoscibili: la prima è costituita dai suoni della natura terrestre, la seconda è rappresentata da Bach e la terza è composta dalla fitta tessitura musicale che, grazie alle procedure dell’elettronica e delle tecniche sperimentali, consente nella stazione orbitante, posta di fronte all’ignoto e all’inconoscibile, di oggettivare un paesaggio sonoro fatto di ricordi dalla terra, reminescenze, della presenza considerata ostile del pianeta che scruta l’inconscio degli scienziati che ne indagano l’attività ottenendo in cambio la materializzazione dello specchio scuro della loro interiorità.

Le tre dimensioni non sono separate, anzi, come abbiamo visto anche dal promemoria di Artemev, Bach, il simbolo più alto della creazione artistica, la musica delle sfere che per Kris diventa parte integrante dello spazio illusorio della memoria, deve essere avviluppato dalle distorsioni elettroniche e dai contrappunti timbrici, che lo calano nel misterioso ambito solariano traducendolo in una salda impalcatura che sostiene e dà forma a quelle che possono apparire come delle sperimentazioni sonore del pianeta pensante. Nemmeno il paesaggio terrestre è immune dalla contaminazione dell’elettronica che «nascondendosi dietro i suoni della natura» produce la soggettiva sonora di Hari che osserva il quadro dei Cacciatori nella

neve di Brueghel.

All’elettronica e alle tecniche sperimentali, alle sue forme di composizione basate sull’improvvisazione, su metodi aleatori e sulla manipolazione dei rumori spetta non solo il compito di interpretare la vita degli strumenti tecnologici, delle macchine o degli ambienti creati dall’uomo per vivere nel cosmo lontano dalla terra, ma dissolve anche il confine tra il naturale e l’artificiale spesso attraverso la mediazione percettiva dei protagonisti.

La costruzione di quadri più che dei temi musicali, da realizzarsi lavorando a partire dal principio sonoro dominante di una sequenza (che può essere anche un unico suono) sia che appartenga all’interiorità dei protagonisti, sia che si possa rinvenire nei paesaggi cosmici, o nella stazione orbitante carica di senso la tessitura audiovisiva oltrepassando le denotazioni tipiche del genere fantascientifico per avviarsi nel lungo e tormentato viaggio di Kelvin verso l’ignoto spazio interiore.

La voce della terra, che nel filmato di Kris (ma girato per lo più dal padre) cederà il passo alla solennità liturgica del Preludio di Bach, apre la vicenda con i suoi silenzi e le sue lunghe pause. Nell’ultimo giorno prima della partenza il protagonista esplora per l’ultima volta il suo

50 giardino alla ricerca delle immagini e dei suoni da conservare nella sua memoria durante il viaggio: questa intenzione è però puntualmente elusa dalla macchina da presa che fugge le soggettive e finisce per assegnare alla natura il compito di circondare e avvolgere il malinconico psicologo, che in fondo intende riempire e ordinare la propria memoria di segni come il proprio sacco da viaggio o svuotare la propria camera dai documenti che non servono, bruciandoli in un rogo tra cui compare anche la foto di Hari, la donna amata e morta tempo prima per causa sua che il pianeta rimetterà al suo fianco nella stazione orbitante.

L’acqua è l’elemento che in forma audiovisiva rappresenta il filo conduttore del prologo: apre la prima soggettiva apparente di Kris subito dopo Bach inaugurando con il suo mormorio dal silenzio, con questo suono primigenio il dinamismo generativo della natura a cui il protagonista tenta di prendere parte e si prolunga poi visivamente nello scorrere lento e silenzioso della nebbia bianca del mattino per raccogliersi nel lago che sorveglia la casa.

Quando il padre di Kris sulla soglia esprime a Berton il proprio attaccamento viscerale alla tradizione segnata dagli avi contro la modernità e i suoi cambiamenti il tuono sottolinea e approva la sua affermazione: il temporale crea un muro d’acqua che materializza uno schermo, bagna i bambini che giocano e imbeve il terrestre in procinto di partire. Tre quadri sonori diversi della pioggia, corrispondenti ai tre soggetti di questo quadro idillico tutto al maschile (i bambini, il padre, Kelvin e lo spettatore dalla città, il pilota Berton) rappresentano l’evolversi dell’acquazzone. Come osserviamo pazientemente lo scorrere dell’acqua su Kelvin e sugli oggetti della tavola, così ci viene restituita la loro voce dalla pioggia che li riempie e li fa risuonare prima che un secondo tuono chiuda la sequenza e il tentativo di immersione nella natura da parte del protagonista, che però evita il problematico incontro con Berton, l’ex-astronauta che con la sua testimonianza vorrebbe farlo desistere dalla missione di liquidare la stazione orbitante su Solaris.

Il gocciolare che segue, proiettato sull’immagine delle placide acque del lago, è il rumore tipicamente tarkovskijano che si può ascoltare soltanto in profondo silenzio, in una condizione che spesso esclude la presenza umana dal paesaggio o la pone a margine immobile a contemplare: questo suono emerge grazie all’esclusione di tutti gli altri e il suo livello non è superiore ai precedenti suoni d’acqua, ma il suo riverbero è più sensibile e non corrisponde a quello che abbiamo sentito in precedenza, quando Kris ha immerso le mani nella acqua per lavarle (e forse con la terra del fondo ha riempito lo sterilizzatore).

Secondo Yegorova tutti i suoni naturali sarebbero stati rielaborati al sintetizzatore (ANS) per produrre dei cambiamenti nei loro elementi costitutivi e rafforzarne così il valore metaforico di polifonia dei rumori della vita reale. Dalle testimonianze di Artemev non risulta

51 che ci sia stata una richiesta di manipolazione timbrica degli elementi naturali in questa parte del film, anzi, Tarkovskij era decisamente orientato a mantenere dei suoni-evento rinunciando alle potenzialità dell’elettronica riservandola all’ambiente della metropoli e alla stazione sospesa sulla superficie del pianeta pensante. La testimonianza di Norman Mozzato, in una breve comunicazione personale con chi scrive del 2011, ricorda inoltre come Tarkovskij avesse speso molto tempo per la registrazione dei suoni d’acqua e di pioggia proprio per questa sequenza.

La soluzione della sequenza è affidata all’acqua nelle sue caratteristiche trasposizioni audiovisive e il canto degli uccelli o il volo della mosca punteggiano questo fluire audiovisivo di cui lo spettatore registra tutte le alterazioni. L’accentuazione del riverbero legato al gocciolio dell’acqua sembra volere raccogliere in un luogo diverso, tutto interiore come sembra voler suggerire l’evidenza della superficie-specchio del lago, l’immagine sonora di ciò che resta della pioggia, di una delle manifestazioni più evidenti della vita della natura.

Dall’involucro audiovisivo del giardino si passa stabilmente all’interno della casa di campagna: le ampie finestre la mettono in comunicazione diretta con l’esterno, con lo spazio della natura mediato dall’uomo che vive in armonia con la sua presenza, ma gli oggetti che la popolano sono i simboli del pensiero umano (i busti dei filosofi greci), della letteratura (ogni stanza trabocca di libri), delle scienze e tra questi figurano anche le prime rappresentazioni del volo aerostatico: il primo levarsi da terra si era ottenuto controllando il riscaldamento del fluido elemento aria contenuto in un pallone, o in un sacco (le conseguenze di questo atto sono adombrate già nel Rublev).

Berton proietta nel soggiorno per Kris e la zia (che ha evidentemente sostituito la madre di Kris in casa) il filmato dell’inchiesta sul suo volo sulla superficie di Solaris. Il film nel film è dominato dal dibattito: un continuo botta e risposta tra gli scienziati ritmato dal montaggio e dal bip elettronico ad ogni cambio di opinione (come se ogni personaggio chiedesse il permesso di parlare con il cicalino) non sembra voler lasciare spazio a nient’altro che lo scontro ideologico sul progresso orientato a disfarsi con ogni possibile mezzo dell’ignoto e dell’inconoscibile.

L’immagine tarkovskijana che si fa testimone di questo contenuto esibisce in questo ‘documentario’ il suo farsi: nel quadro, dietro ai parlanti si muovo delle comparse che fissano sistematicamente e insistentemente la macchina da presa rinviando così allo spettatore l’atto di un occhio che registra e che riesce a cogliere l’inatteso come il posarsi di un uccello sul davanzale della finestra senza che nessuno dei presenti lo noti perché intenti a osservare il filmato, il secondo film nel film con cui si dovrebbero dimostrare vere le parole di Berton.

52 Nonostante le immagini riprese dal pilota siano a colori e rappresentino quindi una copia in apparenza sufficientemente fedele degli eventi e del reale raccontato dal pilota, l’interruzione della continuità del bianco e nero del documentario rinvia lo spettatore alla consistenza opaca dell’immagine il cui contenuto si rivela per altro irrilevante. Solo le parole di Berton possono testimoniare la sua esperienza ed esse creano subito dei rimandi con quanto abbiamo già visto nel prologo: la nebbia, l’acqua, gli alberi, la natura raccolta in un giardino ma plastificata e molle come in un quadro surrealista di Dalì dove le forme si distinguono quando sono sul punto di disgregarsi in una materia liquida e gelatinosa. I rimandi, gli echi nella narrazione tarkovskijana sono continui e ‘verticali’: non riguardano solo il sonoro ma coinvolgono tutta la vicenda: Kelvin si troverà proprio nel giardino quando nel finale annuncerà di voler tornare sulla terra e le fluide forme dell’oceano salariano, pronte a soddisfare il suo immaginario, avranno l’aspetto dell’ultima esposizione del tema, o del quadro sonoro dedicato alla presenza del pianeta.

Il documentario registra il turbamento e l’instabilità del personaggio che non ha superato lo schock del volo sulla superficie di Solaris: un segno di questo sconvolgimento interiore è rappresentato dal tremito che lo scuote nell’ascoltare il rintocco di una tazzina posata sul piattino alle sue spalle. Lungi dall’interrompere la tensione del racconto di questo personaggio questo rumore la esaspera indicando allo spettatore la sua instabile condizione psichica.

La lite tra Berton e Kelvin chiarisce perfettamente il punto di vista dello psicologo e lo allinea agli scienziati che hanno imposto le loro ragioni nel dibattito: interrogarsi sull’ignoto, sui limiti della conoscenza umana è una perdita di tempo e di energie ed esiste pur sempre la scorciatoia di poterlo togliere di mezzo. A queste parole, lo sfondo sonoro dell’idillio in cui Kris vive gli istanti prima della partenza si incupisce, Berton rinuncia a discutere con il suo interlocutore, pur non avendo svelato la parte più importante del suo racconto: lo farà soprattutto al padre, mentre rientra in città, di nuovo attraverso la mediazione di uno schermo, dalla sua automobile che sembra perfettamente insonorizzata, isolata dal caotico ambiente esterno che scivola via dietro le sue spalle.

Facendo valere le ragioni della narrazione, che esige il completamento dell’episodio di Berton per disporre di una microstoria che prepari lo spettatore a quello che succederà nella stazione orbitante, il pilota trasmette la propria comunicazione senza interferenze, come si dialogasse ancora nel soggiorno della dacia da cui è partito. Le ultime parole di Berton sono importanti non solo perché chiariscono come l’episodio dell’inchiesta non potesse essere il frutto di un’allucinazione, una rielaborazione dell’immaginario del pilota, ma raccontassero invece ciò che era apparso sulla superficie, nonostante le riprese dall’elicottero fossero state

53 giudicate insignificanti, ma anche perché consolidano il passaggio al bianco e nero dell’immagine quando la comunicazione termina e il personaggio si chiude in se stesso. Nel visivo rimane infatti questa impronta e difficilmente lo spettatore nota che l’intera realtà attorno all’abitacolo, dove si trova il vecchio pilota, è diventata in bianco e nero come nell’ultima video telefonata alla casa di campagna. Finora questa particolare ‘coloritura’ della pellicola era stata associata alla rievocazione dell’episodio solariano, ma ben presto si osserva che la scelta di rinunciare al colore non ha ragioni di carattere narrativo.

È ben nota l’avversione di Tarkovskij per la pellicola a colori e ne è testimone innanzitutto il suo uso estremamente parco da parte del regista che, prima di Solaris (1972), gira a colori soltanto il suo saggio d’esame (Il rullo compressore e il violino) e il ‘documentario’ sulle icone che chiude il Rublev (1966). Per quanto riguarda il finale di questo film le ragioni della scelta sono evidenti: il passaggio al colore è giustificato dalla mutata dimensione del racconto cinematografico che dalla vita del pittore, immersa nella tormentata storia del popolo russo e tratteggiata con una raffinata gamma di grigi, era passata alla rappresentazione della sua opera, che per essere offerta allo spettatore in modo convincente doveva essere a colori. Questo passaggio era quindi ‘logico’ nell’economia del racconto ed era per di più necessario per comprendere appieno nell’epilogo del film i codici e le convenzioni della pittura d’icone rivisitati dalla macchina da presa che ne esplora per frammenti la superficie.

Ma nel film seguente queste ragioni vengono a mancare e il colore rivela subito agli occhi di Tarkovskij un carattere artificiale dovuto soprattutto alla sua ‘invadenza’ nel visivo difficilmente arginabile se non ricorrendo a composizioni di carattere pittorico (o teatrale), che il regista intende evitare ad ogni costo. Alla difficoltà di gestire questo elemento dell’immagine in modo originale si aggiunge l’abitudine ormai consolidata nello spettatore di assistere allo spettacolo cinematografico a colori: la realtà rappresentata per gamme tonali in bianco e nero ha assunto una serie di denotazioni che la legano soprattutto al racconto del passato e impediscono a chi guarda di percepirla altrimenti.

Per ovviare al carattere artificiale del colore rispettando l’abitudine ormai stabilmente diffusa di vedere sullo schermo un mondo colorato, Tarkovskij non si limita alla produzione di semplici ‘shock’ contrapponendo in modo netto la ricerca sulle tonalità a quella sui timbri, ma riesce a condurre il colore verso il bianco e nero con un sapiente lavoro di ‘missaggio’, impone un controllo rigidissimo sulle gamme cromatiche e sulla saturazione, rende manifesti i grigi ed opera un continuo allontanamento dell’attenzione dello spettatore dalla presenza del colore nell’immagine. Il regista russo si oppone alla chiassosità del colore e non gli consente mai di occupare il primo piano nella fruizione dell’immagine.

54 Così i passaggi dal colore al bianco e nero quasi non si notano nella sequenza che stiamo analizzando: come spesso accade per i suoni, la cui presenza nell’immagine si nota solo molto tempo dopo la loro comparsa e sorge spontanea nello spettatore la domanda su quando ciò che sente sia iniziato, così il passaggio dai colori, per esempio dal blu che avvolge le pareti della dacia di Kelvin, alla gamma di grigi dell’auto di Berton risulta quasi inosservato e quando lo spettatore percepisce che la realtà in cui è immerso dalle lunghe camera car sulla metropoli tentacolare è in bianco e nero essa trascorre senza alcuna ragione contenutistica ad una gamma cromatica controllata e ribassata, dove sembra ancora dominare il grigio prima che la notte delimiti la lunghezza del viaggio e trasformi le autostrade in arterie di un gigantesco organismo, che ha ingoiato il vecchio pilota e che lancerà nello spazio l’epigono della solaristica, lo psicologo Kris Kelvin.

Le raffinate strategie per il controllo del colore si fondano sulla volontà del regista di attivare la riflessione dello spettatore innanzitutto verso la sua stessa attività percettiva, che non si può eludere e soprattutto precede qualsiasi forma di interpretazione: i mutamenti timbrici e tonali dell’immagine che abbiamo registrato in questa sequenza non hanno alcun riferimento al procedere della narrazione, che rischierebbe di congelarli in significati convenzionali, ma scandiscono il divenire esclusivamente cinematografico del tempo nell’immagine con le sottili, quasi impercettibili alternanze della sua tessitura. Questa impostazione sembra intuita e trasposta musicalmente dal pezzo che Artemev ha realizzato per il ritorno di Berton.

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