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Solaris in alcune note introduttive di Artemev

Dopo aver ricavato le linee essenziali della poetica del musicista russo, chiamato a sostituire Ovčinnikov per la composizione della colonna sonora di Solaris43, indagheremo le partiture e le note di lavorazione scritti dopo la realizzazione e la registrazione di alcuni brani: l’autore ha formalizzato l’esito finale della condotta da lui definita per prove ed errori, che noi abbiamo assimilato ad una sorta di improvvisazione riconducendola alle pratiche maturate intorno all’ANS allo studio di Mosca, attuata però a partire dalle immagini e dai suoni concreti che dovevano costituire la soluzione sonora delle diverse sequenze.

Per l’interpretazione di questi fogli, i testi che appaiono più documentati sono senza dubbio quelli di Yegorova [1997 e 2007] e Suslova; soprattutto la monografia dedicata dalla prima delle due musicologhe all’autore concede largo spazio all’analisi dei pezzi realizzati per il film senza rinunciare a mettere in luce alcune note come quelle che sintetizzano le diverse situazioni acustiche presenti in Solaris44, che qui riportiamo per intero in traduzione.

1. Paesaggi (albe, acqua, nebbia)

2. Percezione individuale del “suono” (stato mentale) del personaggio

3. Suoni “reali” (di fatto suoni apparenti), il tema di Solaris. È, ovviamente, composto di suoni della vita terrestre come se fossero processati dall’Oceano. A parte questo, questi suoni sono sentiti dagli uomini

42 Purtroppo non possiamo completare la nostra ricerca con la consultazione dei diari di lavorazione del film di cui rimangono solo sparute tracce, benché molto interessanti, nel Martirologio. Contrariamente a quanto è accaduto per quelli dello Specchio, essi rimangono sepolti nell’archivio del regista. Non possiamo quindi studiare con la dovuta attenzione le richieste del regista, i suoi commenti al lavoro di Artemev, i ripensamenti e il piano generale con cui organizzare le combinazioni audiovisive più importanti. Benché nemmeno Tarkovskij appunti ogni passaggio, sarebbe stato comunque estremamente importante analizzare qualche sequenza disponendola esattamente tra il pensiero del musicista e quello del regista.

43 Molto si è scritto del cambio di musicista, ma le parole più significative sono senza dubbio quelle riportate da Bird: «By 1967 Tarkovskij had clearly tired of Viacheslav Ovchinnikov’s luscious orchestral scores, complaining that “Ovchinnikov must be held in check or else he’ll write not a soundtrack but a talented opera”». Bird, Andrei Tarkovsky, elements of cinema, cit. p. 158 e 236. Anche Artemev sottolinea la radicale diversità nella sua impostazione compositiva rispetto ad Ovčinnikov, che evidentemente era più utile a Tarkovskij come abbiamo cercato di evidenziare nel nostro percorso critico: «Nel film Rublev il compositore Ovčinnikov ha utilizzato soltanto un’orchestra sinfonica e i cori. Il compositore ha creato lo stupendo sound di questo film solo con questi mezzi, utilizzando soltanto l’ottima tecnica dell’orchestra e dei cori» (Comunicazione personale di Artemev a chi scrive nell'estate 2010).

44 Purtroppo, contrariamente ad altre partiture del musicista pubblicati dalla musicologa russa, delle note di

Solaris non resta che una piccola foto accompagnata da una generica didascalia che non precisa nemmeno di

quale pezzo si tratti. La complessità delle soluzioni adottate rende molto arduo isolare e riconoscere qualsiasi procedura. I sonogrammi possono contribuire a chiarire qualche passaggio, ma l’opera di de-missaggio senza tutte le note è destinata a rimanere incompleta.

43 con il loro udito limitato (essi non sentiranno certi suoni a causa delle naturali proprietà dell’orecchio umano che è limitato, alla pari delle cavallette non sentono il suono delle esplosioni, per loro sono infra-suoni). Nello stesso tempo, qualsiasi strano fenomeno è di solito percepito sulla base delle precedenti esperienze, e in questo caso specifico – questi sono i suoni dell’Oceano. I personaggi del film sentono (o provano ad ascoltare) i suoni sia simili a quelli terrestri , sia i suoni che sono come piccole cellule o isole rimaste dalla Terra, che essi provano ad identificare dalla massa di strani e ancora incomprensibili rumori. Questa è l’illusione che dovrebbe essere creata per lo spettatore.

4. Il tema di Bach con differenti interpretazioni (fino alle distorsioni)

5. Ricordi della Terra – (suoni, serie di suoni) che non sono sistemati in una melodia, ma organizzati rispetto a un principio dominante. Esso è di nuovo la percezione sonora individuale di una situazione. Questo può essere sia un singolo suono (qualsiasi) o anche un passaggio melodico (movimento)45.

Benché Artemev non si sia attenuto strettamente a questo schema, è importante notare come si sia interrogato sulle diverse situazioni acustiche in cui vengono a trovarsi i personaggi, ma anche lo spettatore. Queste considerazioni certificano la ricerca di soggettive sonore e la volontà da parte del musicista (e del regista) di rendere il problema della percezione uno degli elementi fondamentali della costruzione dell’immagine ben identificabile anche da chi guarda e ascolta, che assume così una parte attiva e consapevole nella costruzione del senso dell’immagine.

Finora questo aspetto si poteva ricavare soltanto da alcune sequenze del film che esplicitamente traducevano in immagine un’esperienza sensoriale con l’intenzione evidente di riprodurla cinematograficamente per l’osservatore/ascoltatore: prima che Hari appaia per la seconda volta, Kelvin si addormenta, su consiglio di Snaut, ascoltando il suono delle vento che agita le foglie degli alberi. In realtà la sequenza mette in scena la creazione di questo effetto sonoro: il cibernetico ritaglia delle striscioline di carta e le attacca al condizionatore della cabina del protagonista perché il loro agitarsi ipnotico gli concili il sonno. Snaut riesce ad evocare nel compagno terrestre il motivo conduttore delle notti terrestri e si comporta letteralmente come il musicista ha annotato nei suoi appunti per impostare la drammaturgia musicale del film.

La costruzione di intere sequenze intende tradurre ed evidenziare con i mezzi del cinema il problema dell’ascolto (oltre che della visione, ma su questo aspetto non possiamo dilungarci dettagliatamente, se non per particolari sequenze): la contemplazione da parte della protagonista femminile del quadro di Brueghel, come già anticipato dalle parole di Artemev doveva musicalmente essere la trasposizione «dell’atmosfera di questo luogo della terra, così come esso lentamente si rivelava alla coscienza di Hari».

La narrazione quindi si interrompe e spesso letteralmente finisce per arrestarsi o compiere lunghe digressioni sulla messa in scena delle esperienze sensoriali dei personaggi che divengono così parte integrante della trama del film spesso generando delle situazioni

44 incongrue rispetto alla dimensione generata dalla parola, dal monologare dei protagonisti: quando nel finale Snaut e Kelvin si ritrovano in biblioteca dopo la scomparsa di Hari nell’annichilatore – un ‘secondo’ suicidio che la riscatterà definitivamente dall’essere sempre e solo una parte della memoria di Kris – e la guarigione del protagonista, essi si interrogano sul desiderio di conoscere, di ipotecare il futuro per esoricizzare la paura della morte. La coscienza individuale, conclude Kelvin, non riesce a prefigurare da se stessa la propria fine, la propria compiutezza (se non immaginandosi nei panni dell’Altro) ed è quindi destinata a non conoscere mai pienamente il senso della felicità, della morte e dell’amore conservandone così intimamente il segreto, che però rampolla continuamente sotto forma di desiderio di conoscere e di sapere.

I suoni e i movimenti di macchina che accompagnano questi discorsi divergono e sembrano volutamente scollarsi dalle parole dei due dialoganti: nella prima inquadratura dal campo totale iniziale sulla biblioteca, dove avevano assistito alla levitazione dei due amanti nella piccola abside trasformata in un microcosmo dalle riproduzioni dei paesaggi brugheliani, la macchina da presa vira lontano dai protagonisti e chiude con una zoomata in avanti rivelando la presenza dello scialle di Hari. Il primo quadro termina sulla consistenza materiale dell’unico segno rimasto della donna amata da Kris che non è sparito con lei, o che il pianeta gli ha restituito: egli sembra così condannato a restare per sempre in un luogo che puntualmente corrisponde al suo immaginario, circondato dagli oggetti “che abbiamo toccato insieme”46.

Ma ancora più sorprendente è l’inquadratura seguente che accompagna le conclusioni di Kris: stavolta la macchina da presa da un piano medio del protagonista zooma fino all’ingresso del suo condotto uditivo. L’attenzione dello spettatore, violentemente dirottata su questo dettaglio, si sposta dal suo ripiegamento malinconico sull’azione pura e semplice del sentire espressa metaforicamente dalla macchina da presa come un penetrare attraverso l’orecchio, ma non possono essere le parole di Kris ad avere una tale ‘forza visiva’. Si potrebbe trattare allora della rappresentazione visiva di un suono tattile, la cui frequenza è talmente bassa per l’udito umano che interferisce solo con le parti più interne del sistema (il vestibolo). Esso, insieme ad altre procedure tipiche dell’elettronica e del suono registrato,

46 La macchina da presa procede verso lo scialle dopo un falso raccordo: uno stacco di montaggio incongruo rispetto allo svolgersi dell’azione e della ripresa stessa che ci fa dubitare della consistenza di ciò che stiamo vedendo e ascoltando sul piano del racconto. Esso produce una marcata discontinuità visiva che sottolinea l’importanza dell’oggetto e del gesto visivo che lo rivela. Le parole che chiudono il paragrafo a testo appartengono al discorso conclusivo di Kris nella sequenza seguente che è accompagnato dalla visione delle nubi e della superficie del pianeta, come se si trattasse di un’inquietante quanto inspiegabile ripetizione del filmato iniziale di Berton.

45 mette in scena la presenza e l’inspiegabile azione del pianeta, il suo materializzare le immagini più segrete e inaccessibili dei tre scienziati della stazione orbitante, quelle sepolte nella coscienza (ed Hari era una di queste).

Grazie allo schema che abbiamo riportato in apertura, che s’interroga sulle caratteristiche dei suoni non percepibili dall’udito umano, assume un senso diverso l’apparizione sonora del pianeta nella notte solariana priva di stelle, trasformata in un abisso senza fondo, impenetrabile all’occhio di Kris appena giunto alla stazione e offerta dalle vibrazioni elettroniche più profonde dell’ANS compatibili con il sonoro cinematografico: pur non raggiungendo l’estremo inudibile, l’ammasso di frequenze con il livello più alto sta in un intervallo tra i 120 e i 50 Hz47. E la stessa presenza sonora oscura e profonda si ripete poco prima di ascoltare Bach dalla colonna sonora del filmato di Kris: prima di assistere al ricordo per immagini in movimento della Terra, la superficie del pianeta disegna una spirale e su quest’immagine dalla suggestione cosmica si riascoltano gli stessi profondi cluster di frequenze vibranti che hanno impressionato Kris al suo arrivo con le loro quasi impercettibili modulazioni d’ampiezza che ne vivificano la manifestazione.

Il riverbero applicato alla ‘voce del pianeta’ trasforma una parte di questa emissione sonora già particolarmente grave in un riflesso, in un contenuto sonoro virtuale che suggerisce la profondità dello spazio attraversato e la distanza abissale della fonte: grazie a queste combinazioni audiovisive i paesaggi alieni si intrecciano con quelli della terra alla ricerca di un comune principio fino a giungere musicalmente ad una soluzione che si rifà al cantus

firmus. E la missione di Kelvin, volta a chiudere l’inutile e improduttiva stazione orbitante, si

trasforma in un ripiegamento interiore nel quale dovrà affrontare la parti più segrete e inaccessibili della sua coscienza.

Tra gli appunti di Artemev spicca una grande quantità di notazioni riferite alla velocità del nastro sia per l’incisione che per l’ascolto (è la ri-registrazione) che sistematicamente dimezzano quelle di partenza eseguite a 38 cm/s: spesso Artemev lascia indicate ulteriori riduzioni a un quarto e persino ad un ottavo delle velocità di base. Scendendo ad ogni passaggio di un’ottava, le scale cromatiche o gli accordi annotati alle frequenze consuete letteralmente sprofondano indicando forse musicalmente soprattutto la vitalità misteriosa,

47 I rilievi quantitativi e qualitativi delle sequenze del film sono stati eseguiti sulla copia digitale prodotta dalla Criterion collection nel 2002 che presenta come unica colonna sonora la versione del 1972. Il programma con cui sono state studiate le diverse sonorità è iZotope RX 2 Advanced, i settings per l’analisi prevedono il type Regular STFT, la FFT size almeno da 32768, window Hann, la scala delle frequenze lineare e il grafico multicolor 1 per identificare soprattutto la maggior parte delle procedure di dissolvenza adottate per i suoni. Gli stessi valori sono stati adottati per le finestre per l’analisi spettrale di alcune sezioni spesso adoperando risoluzioni maggiori di quella indicata.

46 subconscia del pianeta pensante, che ai terrestri della stazione orbitante appare ostile, spregevole fino alla nausea.

La ricerca di sonorità che contengano un ampio spettro di basse frequenze è testimoniata anche dalla sequenza in cui Berton attraversa le autostrade della metropoli: il dinamismo incessante e ottundente di questo organismo creato dal progresso umano, a cui si contrappone la stasi pressoché assoluta del paesaggio campestre e idillico della dacia dove soggiorna Kelvin prima della partenza, trova il suo corrispondente sonoro prima in uno sfondo coerente con il visivo, con il caotico ambiente autostradale ma poi progressivamente si trasforma in una densa stratificazione di rumori incongrui troppo gravi, densi e fittamente intrecciati: si dovrebbe distinguere tra gli altri «una colonna di carro armati in transito»48, ma il fattore decisamente più rilevante è il passaggio progressivo e inarrestabile da un’atmosfera sonnolenta ad una stordente e opprimente costituita ancora da rumori carichi di basse frequenze che, invadendo lo spazio alla pari degli infrasuoni senza che l’ascoltatore possa orientarsi rispetto alla loro provenienza, generano un senso di fastidio, di ansia e quindi connotano lo stato di tensione in cui si trova immerso Berton. Dallo spazio esterno della metropoli tentacolare e in movimento senza fine si passa quindi senza soluzione di continuità alla condizione interiore di uno dei protagonisti con una serie di trasformazioni del tessuto sonoro percepibili anche dallo spettatore.

Le parole di Artemev con cui abbiamo aperto questo capitolo denotano l’interesse specifico del musicista per i limiti dell’udito umano: dagli infrasuoni le sue riflessioni schematiche si spostano al problema più generale della percezione nel quale deve essere considerato in prima istanza il percepente, il personaggio che nella narrazione o nella sequenza fa da necessario intermediario agli eventi sonori a cui lo spettatore dovrà attribuire senso nel proprio immaginario.

Nel caso estremo, ma per questo ancor più significativo, di un suono che fisicamente non può essere sentito come nell’esperienza comune, il visivo si accolla buona parte del compito di rappresentarlo anticipando l’ascolto attraverso immagini tattili: Tarkovskij evidenzierà così alcuni snodi cruciali di Stalker non solo quando la guida si sdraia poggiando a terra l’orecchio

48 Yegorova, Edward Artemiev’s musical universe, cit. p. 71. La musicologa russa considera la traversata della città di Berton all’interno della più ampia sequenza in cui Kris si congeda dalla terra e la spiegazione di una scena così lunga spesso non risulta chiara soprattutto quando si elencano timbri, suoni campionati e altre sonorità. A nostro parere, ma non sembra così chiaro dalla monografia su Artemev, si condensano solo nel viaggio del vecchio pilota e non in quello di Kelvin verso la stazione orbitante altri rumori che esprimono il corpo ‘tecnologico’ della metropoli: sono il rombo di una turbina d’aereo, un esplosione di ammonal, l’eruzione di un vulcano, campane a martello e così via. A questi vanno integrati il rumore bianco, le cui irruzioni nel tessuto sonoro saranno prese in considerazione a tempo debito, le registrazioni di altri strumenti musicali (ben poco riconoscibili, forse si tratta di percussioni), il rinforzo del coro e il grido disperato del soprano (opportunamente distorto tanto da essere reso evidentemente incomprensibile).

47 per ‘comunicare’ con la Zona, ma anche quando Martiska nel finale adagia l’orecchio sul tavolo per sentire le vibrazioni prodotte dal passaggio del treno prima che si senta il suo frastuono.

Il senso di paura e di timore, dipinto sui volti dei familiari di Gorčakov nel sogno che in

Nostalghia prefigura la sua morte e insieme il suo ritorno, si può associare alla cupa

vibrazione di fondo che imbeve il paesaggio e circonda i personaggi, che non possono stabilirne la provenienza. Poi il paesaggio sonoro, arricchendosi del riverbero di un motivetto tipicamente italiano suonato in una piazza vociante e risonante di traffico, non è meno indeterminato, carico di riflessi sonori che non possono che rimandare vagamente a una fonte di provenienza, ma non stabilire precise direzioni, orientare lo spazio in cui si trovano immersi i familiari finché la sirena dell’alba (altro suono cupo e profondo), per quanto incongrua, risolve la tensione dell’intera scena scuotendo e accordando i movimenti e la presenza delle comparse del quadro. Solo dopo questo apice sonoro l’acqua mormorante avvia il racconto del percorso penitenziale del protagonista.

Da questa breve rassegna sull’importanza della percezione dei suoni nelle opere tarkovskijane, messa in luce dai tentativi di ascolto delle onde inudibili dall’orecchio umano, non possono essere esclusi gli aerei da guerra che in Sacrificio alludono alla catastrofe bellica planetaria. Il loro passaggio sconvolgerà la famiglia ingabbiata nella casa sull’isola e avvierà il tortuoso percorso di dissoluzione individuale del protagonista, ma per noi è ora decisivo segnalare come il rombo dei reattori che rompe la barriera che separa il reale dal sogno, dalla prefigurazione complessa ed enigmatica di una realtà più alta, è introdotto dalle vibrazioni non percepibili dall’orecchio che anticipano ai protagonisti il terribile evento.

Svensson, ricordando che in questa sequenza il particolare del soffitto e dei bicchieri tremanti è stato voluto proprio dal regista che vi dedica almeno due inquadrature (proprio perché non c’è altro modo di rappresentare questi momenti che precedono la catastrofe e tendono l’atmosfera allo spasimo), sottolinea indirettamente come a Tarkovskij stia a cuore la riproduzione dell’esperienza dell’ascolto in tutte le sue fasi, in tutti i suoi dettagli che consentono così allo spettatore di riviverla interamente attraverso la combinazione audiovisiva, piuttosto che evidenziare soltanto il valore metaforico che il suono viene spesso ad assumere nelle immagini dei suoi film.

Prima di ascoltare e di entrare nell’armonia delle sfere dettata dalla musica di Bach, o di prendere parte alla comunità che s’interroga sul divino, o sull’esistente chiamandolo Creato, come stanno ad indicare i frammenti della Nona in Stalker, o, infine, prima di immergersi nella contemplazione della voce della natura, come lo Stalker nella Zona, lo spettatore deve

48 ricostruire tutto il processo con cui avviene l’interiorizzazione di questi eventi sonori. Egli deve quindi ‘leggere’ tutto l’intreccio di suoni, rumori, parole e pause di silenzio che corredano la fruizione dell’evento ed essere consapevole che ne orienteranno il giudizio persino in misura maggiore del frammento musicale stesso, che solitamente è la parte del complesso sonoro più riconoscibile e didascalica.

Lo schema di Artemev trova quindi nel cinema di Tarkovskij una pressoché perfetta corrispondenza e il musicista, dopo essersi interrogato sugli infrasuoni per trovare del materiale sonoro che potesse oggettivamente orientare la rappresentazione dell’assoluta alterità del pianeta pensante, che farà da specchio all’interiorità dei protagonisti rovesciando i loro desideri e la loro domanda di conoscenza in un’esplorazione tutta interiore, si sofferma sulle reazioni che i protagonisti dovranno manifestare all’ascolto delle risonanze che attraversano la densa atmosfera solariana per giungere fino alla stazione orbitante che ne scruta i continui e incomprensibili mutamenti.

L’ignoto non può essere che commisurato con il noto, quindi non solo il tema di Solaris («la voce del pianeta») dovrà essere composto di suoni terrestri («l’idea era che ci sarebbero stati soltanto fruscii e rombi»49) come se fossero processati dal pianeta, che diventa così un gigantesco sintetizzatore, ma all’interno della massa sonora incomprensibile agli orecchi dei personaggi si formeranno delle ‘isole’ riconoscibili verso le quali rivolgeranno la loro attenzione (non sfugga la suggestione isomorfica suggerita dall’immagine dell’oceano solariano al musicista): il sonoro deve avviare nei protagonisti e poi soprattutto nello spettatore, un processo di reminescenza dove l’attività dell’immaginario sia ridotta a favore dell’emersione incontrollabile di brani di realtà. Ancora una volta non si può non rinviare alla sequenza di Hari davanti a Brueghel, ma stavolta soprattutto dal punto di vista delle soluzioni

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