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Aree di miglioramento per lo sviluppo di servizi culturalmente competenti e sensibili alle differenze

3.2.3.6 Barriere all’implementazione di pratiche CC

3.2.4.6 Aree di miglioramento per lo sviluppo di servizi culturalmente competenti e sensibili alle differenze

Le aree di miglioramento indicate nelle interviste per ridurre il gap di implementazione riguardano il coordinamento a livello regionale e le pratiche organizzative per sostenere il commitment dei servizi. Inoltre, si fa ampiamente riferimento allo sviluppo delle competenze professionali.

Il coordinamento regionale consentirebbe di accedere a strategie condivise per migliorare l’accessibilità e la qualità nei servizi, sostenendo un sistema di valutazione e di raccordo fra il livello regionale e locale. In particolare, si prefigura un dispositivo regionale dell’equità che lavori trasversalmente sulle fasce di popolazione vulnerabile per costruire interventi specifici.

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Ci dovrebbe essere a livello regionale... un settore dedicato, non per forza sono le politiche di equità nei confronti dei migranti eh, perché poi quando si parla di equità ci sono i minori, ci sono i pazienti anziani, ci sono i pazienti fragili perché hanno delle patologie.. La Regione dovrebbe, secondo me, riflettere sulla... possibilità di differenziare e supportare la popolazione con interventi come dire, mirati al tipo di handicap che intende annullare con la politica di equità... per cui... anche banalmente, non so, prevedendo una riorganizzazione anche dei servizi (I.15, Servizi Sanitari, Piemonte)

Qualche partecipante propone un maggior investimento per una presenza della mediazione culturale più strutturale, sia attraverso direttive regionali sulla sua implementazione e formazione, sia attraverso l’assunzione diretta e diffusa nell’azienda per superare il modello “a chiamata”. In aggiunta, per favorire l’equità da un punto di vista organizzativo, si propone di sviluppare pratiche di ricerca valutativa per mostrare i benefici e l’efficacia degli interventi CC, come l’utilizzo della mediazione culturale.

Sul versante delle pratiche professionali, molti intervistati, a fronte delle barriere rilevate sull’accesso e sulla qualità dei servizi ritengono importante sviluppare processi formativi diffusivi sulla salute dei migranti, sulla normativa e i temi dell’interculturalità. Ancora, nell’ottica di promuovere interventi sistematici, l’implementazione di una formazione obbligatoria nei corsi di laurea o accreditata dagli ordini professionali. Alcuni non si limitano a citare la formazione degli operatori, ma anche quella delle direzioni.

3.2.4.7 Barriere alle pratiche di partecipazione

Le barriere all’attivazione dei processi partecipativi sono da alcuni ricondotte alla questione della rappresentatività, ovvero alla frammentazione e alla molteplicità di gruppi sociali e di provenienza che rende complesso identificare soggetti e interlocutori, da altri ad una più generale “asistematicità” e “frammentarietà” delle politiche socio-sanitarie sui temi dell’immigrazione. Da una parte si riconosce una maggiore distanza dai processi partecipativi delle persone di origine straniera per la sfiducia e mancanza di informazioni, dall’altra si evidenzia una incapacità di riconoscere le persone migranti come interlocutori con competenze che riguardano le scelte dei servizi. C’è chi sottolinea la difficoltà nel raggiungere i gruppi più distanti per i servizi e la mancanza di una cultura organizzativa che sostiene la partecipazione diretta.

Pertanto, i processi partecipativi sembrano bloccarsi al primo step: “quando dico devo prendere un rappresentante delle comunità immigrate ma chi prendo?” (I.18 Servizi Sanitari, Piemonte).

3.2.4.8 Aree di miglioramento per favorire pratiche partecipative nella produzione delle politiche e nello sviluppo dei servizi

Vista la percezione di bassa diffusione di pratiche partecipative, i partecipanti pensano sia utile iniziare a investire in modo più strutturale sui temi della partecipazione, sia attraverso processi di confrontazione che di alfabetizzazione sanitaria con le “comunità” straniere e con i diversi stakeholder. Ci si riferisci a processi di partecipazione dal basso e al bisogno di sviluppare interventi a lungo termine per favorire l’instaurarsi di relazioni di fiducia fra i servizi sanitari, gli operatori, e persone o gruppi con un background migratorio, ostacolate, invece da politiche o progetti frammentari.

Mentre un’intervistata sottolinea il focus sulla continuità dell’assistenza come mezzo per costruire processi partecipativi, un’altra richiama l’importanza di prevedere incentivi e risorse anche materiali, per favorire l’“avvicinamento” ai gruppi più vulnerabili. Fondamentale, per altri, sarebbe il coinvolgimento dei leader di comunità per diffondere informazioni sull’accesso ai servizi.

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Sul versante organizzativo si propone a livello manageriale l’investimento a favore di una maggiore inclusività dei dispositivi di partecipazione aziendale e a livello regionale si propone la costituzione di tavoli stabili con gli attori del terzo settore.

Lo dico e lo stradico, formare professionisti chiave, quelli che devono decidere, quelli che devono costruire, quelli che devono presenziare dove c'è l'afflusso dei migranti. Poi forma un elenco di professionisti che lavorano sull’immigrazione, tra cui il mediatore interculturale, crea un target di riferimento oppure degli strumenti di comunicazione. Un tavolo di concertazione.

(I.16, Terzo Settore, Piemonte).

3.2.5 Discussione

Lo studio si prefigge di esplorare la percezione dell’implementazione della CC da un punto di vista macro, guardando la prospettiva di diversi stakeholder sulle politiche regionali e l’implementazione della CC e di pratiche partecipative nei contesti sanitari. I risultati portano evidenze sulla disomogeneità nella percezione delle politiche regionali che possono sostenere i servizi sanitari nello sviluppo di pratiche CC e nell’implementazione di pratiche nei servizi sanitari, mostrando che la diffusione di pratiche CC secondo una logica sistemica e partecipativa rimane una sfida nelle Regioni, nonostante la presenza di buone prassi e politiche che supportano un approccio migrant-sensitive. Il dato della disomogeneità regionale, tuttavia, non stupisce così come quello del gap dell’implementazione, documentato da diversa letteratura precedente (Mladovsky, 2009; Rinaldi et al., 2013; MIPEX, 2015). Anche i nostri dati sembrano ribadire la preoccupazione dei partecipanti del passaggio dalla politica alla pratica e la percezione di un gap fra il dichiarato e la realtà dei servizi. Più interessanti sembrano i risultati che mostrano i tentativi delle Regioni, ma anche del Terzo Settore, di favorire uno sviluppo dei servizi verso pratiche di CC e sensibilità alle differenze e una maggior uniformità di pratiche fra le aziende sanitarie regionali. In particolare, i risultati sui dispositivi di coordinamento regionale contribuiscono alla comprensione dell’implementazione di pratiche CC nell’interfaccia tra il livello macro e il livello meso-organizzativo.

Il confronto sulla percezione delle politiche regionali

Quanto alla percezione di sostegno nelle politiche regionali per lo sviluppo di servizi sanitari secondo pratiche e modelli organizzativi, i risultati hanno mostrato disomogeneità fra le Regioni e all’interno delle Regioni. In particolare, maggiore divergenza è apparsa presente fra gli intervistati dell’Emilia-Romagna, dove una visione maggiormente critica è portata dagli stakeholder del terzo settore. Tale disomogeneità è in parte relativa al tipo di politiche cui gli intervistati fanno riferimento: le politiche sull’accesso formale ai servizi (es. Accordo Stato- regioni) o politiche di programmazione (es. Piani Socio-Sanitari) o di coordinamento regionale.

In tutte e tre i contesti, gli intervistati hanno riconosciuto un’attenzione e un commitment delle Regioni sul tema dell’equità e/o della salute delle persone straniere, anche se questo sembra attraversare momenti diversi della storia delle politiche regionali. In Emilia-Romagna è stato riconosciuto un attuale commitment regionale sul tema dell’equità che può sostenere il contrasto alle disuguaglianze, anche per le persone straniere (seppur in modo “indiretto”): c’è chi ha sottolineato in passato un maggior ruolo di coordinamento e supporto per le pratiche dei servizi sanitari per rispondere ai bisogni sanitari delle persone di origine straniera. In Toscana sembra esserci la percezione di un miglioramento della guida regionale, in modo particolare attraverso la recente costituzione del centro regionale dedicato alla salute dei migranti e le politiche socio-

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sanitarie su richiedenti asilo e rifugiati. In Piemonte è apparsa più presente, per qualcuno, la percezione di un’“epoca d’oro”, di un passato recente in cui maggiore è stata la priorità politica attribuita al tema, visibile in particolare con l’allineamento delle politiche regionali all’accordo Stato-Regioni o l’implementazione dei Centri ISI. A differenza delle altre regioni il riferimento a politiche regionali recenti specifiche è relativo alla prevenzione piuttosto che all’organizzazione dei servizi.

In Emilia-Romagna e in Toscana, a sostegno dell’equità nei servizi sanitari, è stata riconosciuta la qualità del sistema sanitario e il riferimento ad un modello sanitario attento alla promozione della salute, alle cure primarie e ai bisogni del territorio, mentre tale orientamento è percepito come meno presente in Piemonte, nonostante la presenza di un servizio di epidemiologia regionale rinomato per gli studi sulle disuguaglianze sanitarie con un’attenzione alla salute dei migranti.

Le critiche poste alle politiche regionali sembrano mettere in risalto la complessità già riportata della letteratura che riguarda l’eterogeneità dei bisogni di salute e dei sottogruppi (Mladovsky, 2009; Pottie et al., 2017). In Emilia-Romagna, alcuni intervistati hanno discusso di questo tema facendo riferimento alle politiche sull’equità che permettono di guardare al problema delle disuguaglianze d’accesso e nella salute considerando le diverse caratteristiche collegate all’essere migrante, superando un’identificazione a priori con il gruppo vulnerabile di appartenenza. I partecipanti del terzo settore hanno, a tal proposito, denunciato una minor tutela delle politiche per l’accesso proprio per i gruppi più vulnerabili degli irregolari.

È stata posta poi l’attenzione sul rischio di “frammentazione” dovuto ad un focus limitato alla salute dei richiedenti asilo e rifugiati, nonostante l’attenzione sul tema sembra aver favorito un nuovo investimento sulla salute dei migranti e permesso di mettere in luce aree critiche presenti. Altre aree critiche riguardano la “tenuta” delle politiche sanitarie regionali a fronte dei mutamenti politici nazionali seguiti all’approvazione del cosiddetto “decreto sicurezza”, che rendono più saliente il problema dell’accesso ai servizi sanitari delle persone “irregolari”.

Solo in Emilia-Romagna alcuni intervistati discutono dell’approccio all’equità per le aziende sanitarie basato sull’uso di strumenti di Equity Assessment, del quale sono stati messi in luce oltre i vantaggi, già citati, anche alcuni limiti, quali il rischio di un’interpretazione scorretta di tipo universalistico, limitando le capacità di rispondere in modo appropriato a bisogni specifici dei gruppi o il rischio che tale approccio non renda visibile un’azione di tutela verso i migranti fra i diversi stakeholder.

È stato posto come problema anche la limitata sinergia tra la governance sociale e sanitaria per rispondere ai problemi di salute in un’ottica di riduzione delle disuguaglianze. Questo appare in linea con i diversi orientamenti politici internazionali che sottolineano l’importanza di politiche intersettoriali (OMS, 2014).

La partecipazione di migranti e stakeholder alla produzione e allo sviluppo di politiche e programmi regionali nella percezione dei partecipanti intervistati rimane debole, scarsamente visibile e strutturale. Pur riconoscendo la presenza di qualche esperienza sviluppata dai servizi, il tema della partecipazione, trasversalmente, appare lontano dall’essere strutturale e in alcuni casi non sono riconosciute nei documenti di programmazione dei servizi sanitari politiche specifiche di sostegno alla partecipazione delle persone straniere. In riferimento alla partecipazione degli stakeholder sono emerse diversificazioni regionali. Meccanismi più formalizzati di partecipazione sono presenti nelle politiche regionali dell’Emilia-Romagna e della Toscana: nel primo caso è promossa lo co-progettazione con le politiche dei community lab - criticate in parte per un’assenza di focus specifico sul target migranti - e con la costituzione di un tavolo con il terzo settore sugli ambulatori medici (al momento della raccolta dati allo stato di approvazione); nel secondo caso gli intervistati hanno citato passati tavoli di concertazione, mentre attualmente un collegamento è presente fra il Centro di Salute Globale e il GRIS.

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Il coordinamento fra il livello macro e il livello meso-organizzativo

Altro tema importante è la capacità delle politiche di poter essere tradotte in pratiche e ridurre il gap di implementazione. Seppur il tema della disomogeneità territoriale rimane presente, i dati mostrano lo sforzo di costruire dispositivi che permettano una maggior condivisione delle pratiche e sostengano i servizi sanitari all’implementazione. Questi hanno forme e posizioni nel sistema dei servizi sanitari differenti nelle tre regioni.

La Toscana si distingue per un tavolo permanente specifico per la salute dei migranti (come organo tecnico dell’assessorato alla salute), mentre i dati mostrano un cambiamento nelle scelte regionali dell’Emilia-Romagna dove è apparsa interrotta l’esperienza di un coordinamento regionale specifico sulle pratiche dei servizi sanitari per rispondere ai bisogni di salute dei migranti, e un investimento attuale è presente per il coordinamento per i referenti aziendali dell’equità, all’interno dell’Agenzia Sanitaria e Sociale Regionale. In Piemonte, benché partecipi personale delle aziende ospedaliere e delle aziende sanitarie, il coordinamento è più limitato alle pratiche dei Centri ISI e quindi all’accesso dei migranti irregolari.

In particolare, i dati mostrano che i diversi tavoli di coordinamento assolvono alcune funzioni: una funzione di “condivisione e monitoraggio”, una funzione di “supporto all’implementazione” e una funzione di “advocacy”, che in modo diverso informano le pratiche di coordinamento nei contesti regionali.

La prima funzione è stata nominata “condivisione e monitoraggio”. I dispositivi svolgono una funzione di monitoraggio - in modo più o meno formalizzato - dell’implementazione delle pratiche relative all’accesso formale ai servizi, monitoraggio delle pratiche sviluppate dai servizi sanitari (si veda il report prodotto dal tavolo di coordinamento in Emilia-Romagna) e di definizione di “linee-guida” per l’accesso e l’accessibilità su temi specifici (mediazione culturale, l’accertamento della minore età per richiedenti asilo, i controlli sanitari), come citato per la Toscana.

La seconda funzione è stata definita di “supporto all’implementazione al livello locale” e prevede da una parte la promozione e il coordinamento di azioni di promozione della salute specifiche (come progetti di alfabetizzazione o fundraising), dall’altra di favorire l’implementazione e lo sviluppo dei servizi sanitari attraverso la formazione (come citato per la Toscana), o la “consulenza” (come discusso in Emilia-Romagna). La terza funzione individuata riguarda il collegamento con il livello politico attraverso un’azione di advocacy, come discusso in Toscana e in Piemonte o il coinvolgimento degli stakeholder esterni, come presente in Toscana, attraverso il collegamento con il GRIS locale o la costituzione di un Osservatorio.

Mentre il centro regionale della Toscana sembra potenzialmente svolgere attività collegate a tutte le funzioni, quello dell’Emilia-Romagna, nel momento attuale, sembra ricoprire maggiormente una funzione di supporto all’implementazione locale di pratiche organizzative a tutela dell’equità; in Piemonte i dati sembrano mostrare un focus maggiore su una funzione di condivisione, monitoraggio e di advocacy sugli aspetti di accesso collegati alla normativa. Tuttavia, solo in Emilia-Romagna appare tutelata una funzione di consulenza specifica alle singole aziende che richiede anche una “supervisione” in loco per co-progettare pratiche che rispondano alle politiche sull’equità e l’ancoraggio agli obiettivi del piano socio-sanitario per sostenere il commitment delle aziende sanitarie, mentre solo in Toscana è previsto un collegamento con la rete di stakeholder, che i dati mostrano essere ancora in fase di costruzione. In particolare, i dati sembrano evidenziare l’importanza di una collaborazione fra gli stakeholder dei diversi ambiti, pena il rischio di creare frammentazione o “antagonismo”, e di azioni di

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monitoraggio formalizzato che rendano visibili l’implementazione nelle diverse realtà locali (es. report citato poco sopra).

Uno dei problemi emersi per il coordinamento sembra rimanere il passaggio da un adeguamento formale alla promozione di un cambiamento organizzativo (Pottie et al., 2017). Questo si può leggere per esempio nell’insoddisfazione espressa in Toscana per un coordinamento basato unicamente su linee-guida, senza considerare i limiti di una cultura organizzativa che sappia mettere in pratica strategie che rispettino la diversità dell’utenza. In questo senso alcuni dati sembrano porre in primo piano il ruolo della funzione organizzativa ricoperta dai referenti che partecipano ai tavoli di coordinamento; un punto critico evidenziato sembra riguardare l’equilibrio fra direttività delle disposizioni regionali e la necessità di considerare la flessibilità dei singoli contesti aziendali. L’implementazione può essere limitata da una posizione periferica all’interno del funzionamento aziendale (che determina il riconoscimento di quote tempo e la formalizzazione di una funzione specifica) o da un ruolo amministrativo piuttosto che sanitario o in sovrapposizione con altre figure aziendali. In aggiunta sembrano poter incidere sulla capacità di favorire l’implementazione nei servizi le risorse stesse dedicate a questi dispositivi di coordinamento e il riconoscimento regionale in termini di deleghe.

L’advocacy del terzo settore si pone come meccanismo che favorisce il collegamento fra le pratiche dei servizi e il livello regionale delle politiche, nonostante le difficoltà e le barriere collegate all’“impopolarità” del tema salute migranti. In particolare, le azioni di advocacy rilevate, in molti casi, hanno favorito l’accessibilità economica dei servizi, con la riduzione di barriere burocratiche, ma anche lo sviluppo dei servizi in un’ottica di integrazione fra pubblico-privato, innovazione delle pratiche, e coordinamento.

L’implementazione di servizi sensibili alle differenze ed equi nel territorio regionale

La percezione della diffusione di pratiche CC e di servizi orientati alla sensibilità alla diversità in modo sistemico e partecipativo è apparsa disomogenea fra le regioni e internamente alle regioni, fra gli intervistati, e voci più critiche sono state portate dai partecipanti dal terzo settore, che hanno riportato episodi di barriere all’accesso e all’accessibilità soprattutto per i gruppi più vulnerabili. Un dato che accomuna la percezione dei partecipanti è il bisogno di ulteriore investimento per rendere i servizi CC.

Trasversalmente c’è la percezione di un investimento tradizionale su pratiche per ridurre la barriera linguistica attraverso la mediazione culturale, materiale informativo in lingua, o la barriera culturale attraverso la formazione degli operatori sanitari, mentre più rari sembrano gli esempi di aziende con un investimento strutturale in termini di pratiche di commitment organizzativo e di partecipazione e coinvolgimento dell’utenza. Solo in Emilia-Romagna e Toscana sono riportati esempi di pratiche di commitment organizzativo, in linea con le rispettive politiche regionali. Per le diverse aree esaminate le pratiche delle aziende dell’Emilia-Romagna appaiono nei casi di buone prassi più strutturali o presenti da diversi anni e si è dimostrata importante la collaborazione fra pubblico e privato.

Nonostante ciò i partecipanti hanno comunque riportato la percezione di un accesso ai servizi limitato da un uso non diffuso del servizio di mediazione culturale e da una presenza ridotta della figura del mediatore culturale nei servizi, soprattutto nel contesto Piemontese.

Nello specifico delle pratiche di partecipazione i dati hanno mostrato un maggior sviluppo di pratiche con figure di “prossimità” o di collaborazione fra pubblico e privato, piuttosto che di pratiche di co-progettazione. Alcuni dati contribuiscono al dibattito sui servizi dedicati mostrando differenze regionali (Ingleby, 2011). Nessuno dei partecipanti in Piemonte ha messo in discussione il modello dei centri ISI pur riconoscendone una limitata capacità di risposta, mentre

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in Toscana è stata valorizzata la scelta di un approccio “integrativo” che non prevede servizi dedicati. In Emilia-Romagna sono emerse posizioni differenziate evidenziando non solo il rischio di favorire pratiche ghettizzanti, come discusso classicamente dalla letteratura, ma anche conflitti organizzativi e percezioni negative “nell’opinione pubblica”, ovvero di favoritismo verso le persone straniere, da parte dell’utenza italiana. Gli argomenti a favore dei servizi dedicati gestiti dalle aziende pubbliche riguardano l’alta accessibilità e la specializzazione delle pratiche dei servizi e sono state talvolta lette come segno di commitment delle aziende a tutela della salute dei migranti irregolari, piuttosto che di delega al terzo settore.

Infatti, nel caso di integrazione con il privato sociale, è emerso il ruolo, rappresentato dal terzo settore, di controcultura e “critica interna” che, anche in modo conflittuale, può sostenere il cambiamento e pratiche maggiormente sensibili ai bisogni sanitari delle persone straniere in un’ottica di equità.

Le barriere allo sviluppo di servizi culturalmente competenti, equi e sensibili alle differenze

Per tutti i contesti regionali la dimensione politica collegata al tema salute e migrazione si è rivelata un fattore che incide sull’apertura dell’agenda politica regionale e sulla sostenibilità delle politiche sanitarie.

Se il clima politico sempre più negativo è stato un tema ricorrente nelle interviste in Emilia- Romagna citato anche in relazione alle elezioni regionali, in Piemonte la dimensione politica sembra aver avuto un ruolo importante di barriera alla CC con il cambiamento del governo regionale e nell’accrescere un vissuto di minaccia rispetto alle politiche e alle pratiche sviluppate.

Un altro tema trasversale riguarda la difficoltà cui sono sottoposti i sistemi sanitari attuali, ovvero una carenza o una riduzione di risorse strutturali che sposta la priorità su altri temi.

La mancanza di meccanismi di controllo fra il livello regionale e l’implementazione locale

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