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1.5 Implementare le strategie organizzative di competenza culturale

1.5.3 Implementare e sostenere la CC nell’organizzazione: il ruolo delle pratiche partecipative

1.5.3.1 Barriere e facilitatori ai processi partecipat

L’implementazione di pratiche partecipative, quindi, sembra far fatica a superare le sfide del passaggio dalla retorica dell'empowerment e della partecipazione alla traduzione in pratica. La promozione di meccanismi partecipativi inclusivi richiede l'identificazione di strategie innovative, poiché l'uso di metodi standard sembra non essere in grado di sostenere la partecipazione di gruppi più lontani dai servizi e con bisogni diversi (De Freitas, 2014; Popay, 2014). In particolare, la partecipazione dell'utenza è un concetto politico, che viene interpretato in modo diverso tra gruppi sociali e culturali, e in base a culture organizzative e politiche (Snape et al., 2014).

Le evidenze sull’impatto delle pratiche partecipative non sono ancora chiare (Ocloo et al., 2016). Studi sull’efficacia di interventi di partecipazione comunitaria con minoranze etniche di “community coalition” (azioni collaborative di rappresentanti della comunità con organizzazioni multisettoriali pubbliche e private con l’obiettivo di identificare problemi di salute comuni, sviluppare servizi o politiche e produrre cambiamenti nella comunità che supportano la promozione della salute), mostrano che le pratiche di partecipazione mettendo in collegamento i servizi, i professionisti e le comunità portano benefici per l’utenza e per il sistema sanitario anche se si rilevano ostacoli che possono limitare l’efficacia dei processi (Anderson et al., 2015). In particolare, l’analisi compiuta trova da una parte evidenze a supporto di interventi di collaborazione intersettoriale e di collaborazione con persone appartenenti alle “comunità d’origine” per favorire accesso ai servizi e alle informazioni di salute. Dall’altra mostra però

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alcune dimensioni critiche che se non gestite possono produrre pratiche di “tokenismo” (ovvero un coinvolgimento solo formale), che ostacolano una reale partecipazione o che possono agire sulla motivazione delle persone nell’intraprendere e mantenere rapporti collaborativi. Il conflitto tra i diversi “saperi” e “prospettive” del personale sanitario, accademico e delle persone della comunità, e disparità nel processo decisionale e nel controllo dei fondi, reali o percepiti, possono far sentire svalutata la partecipazione dei membri della comunità. Inoltre, finanziamenti inadeguati che possono causare interruzioni all’implementazione, possono contribuire a creare un senso di abbandono nei partecipanti.

In particolare, secondo De Freitas (2014), due tipi di barriere possono influenzare i meccanismi partecipativi in un’ottica di equità: barriere che impediscono la rappresentatività di determinati gruppi e barriere che ostacolano la capacità dei rappresentanti di influenzare il processo decisionale. Per quanto riguarda il primo caso, gli ostacoli consistono nel rischio che i gruppi siano trattati come entità omogenee di persone, non considerando i diversi bisogni, valori e interessi e che le pratiche si rivolgano ai gruppi più organizzati.

Nel secondo, la partecipazione può essere limitata dal riferimento ad un approccio utilitaristico, di tipo top-down, che riduce la partecipazione al coinvolgimento individuale, invece che in un’ottica collettiva. Inoltre, i meccanismi partecipativi possono essere inefficaci da una parte perché gli utenti possono sentire il proprio ruolo come poco chiaro, riscontrare barriere linguistiche, non avere risorse per partecipare, non conoscere i propri diritti o non sentirsi pienamente legittimati nel fare “sentire la propria voce”.

A livello organizzativo i processi partecipativi possono essere ridotti per una carenza di risorse e di infrastrutture a supporto del processo, oppure per gli atteggiamenti negativi e resistenze da parte del personale sanitario e dei dirigenti (Ocloo et al., 2016).

Per facilitare l’implementazione di pratiche collaborative sembra necessario sviluppare un approccio proattivo alla partecipazione che riconosca, per i gruppi più vulnerabili, l’importanza di sviluppare fiducia e capacità di confronto e sviluppare strutture di “incentivi”. L’equità nel coinvolgimento richiede uno sviluppo di atteggiamenti, valori e strumenti specifici. Non significa semplicemente garantire la presenza di persone di diverse “origine” o comunità, ma sono necessari sforzi per raggiungere gruppi diversi e sviluppare processi differenti e contestuali. Soprattutto il coinvolgimento dei gruppi minoritari richiede la consapevolezza e il riconoscimento delle esperienze discriminatorie e del loro effetto sulle modalità di partecipazione (Faulkener et al., 2015).

1.6 Conclusioni

L’analisi della letteratura compiuta sul costrutto di competenza culturale ha permesso di delineare punti critici e questioni aperte, che riguardano le pratiche e gli approcci organizzativi che possono promuovere equità nell’accesso e nell’uso dei servizi per migranti e minoranze etniche.

In primo luogo, è stato messo in evidenza come il costrutto sia diffuso e sottoposto a rivisitazioni mostrando l’intreccio delle implicazioni teoriche e pratiche nei tentativi definitori della CC e la dipendenza dal contesto socioculturale e politico in cui le definizioni sono proposte. Attraverso l’analisi della letteratura abbiamo guardato al modo in cui le diverse concezioni di cultura e diversità hanno influenzato le definizioni e gli approcci organizzativi alla competenza culturale e sensibilità alle differenze evidenziando il passaggio da un approccio categoriale ad

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uno “intersezionale” e il passaggio dal focus sull’adattamento alla diversità culturale alla sua integrazione con il concetto di centralità della persona. Ciononostante, nella letteratura permane confusione dovuta alla moltiplicazione delle etichette, utilizzate in modo interscambiabile, che si ripercuote sulle possibilità di implementazione e valutazione dell’efficacia degli interventi. Se molti studi hanno portato evidenze sulle pratiche CC, l’eterogeneità degli interventi, dei contesti e degli scopi, non permette di proporre considerazioni generalizzate. Soprattutto alcune ricerche che hanno interrogato gli attori organizzativi hanno mostrato che i significati attribuiti alla CC variano fra i contesti e fra i ruoli organizzativi, e che permangono una mancanza di chiarezza sulla traduzione della CC in pratiche e, in alcuni casi, visioni categoriali alla CC.

Un altro punto importante evidenziato da questa analisi è che lo sviluppo di pratiche di competenza culturale, sembra richiedere l’attenzione alle dimensioni politiche e strutturali che determinano le disuguaglianze e la relazione fra i servizi e l’utenza di diversa origine. Dal punto di vista delle strategie organizzative, la letteratura sempre più porta a concepire lo sviluppo di pratiche di competenza culturale attraverso un approccio sistemico che considera i diversi livelli organizzativi, e allargandosi al contesto più ampio, guarda all’interdipendenza con i fattori politici e sociali in cui le organizzazioni sono inserite.

Alcuni framework pongono la partecipazione con l’utenza e la comunità come elemento centrale della CC: il tema della partecipazione dell’utenza e della relazione degli stakeholder è emerso come principio di sviluppo delle pratiche CC, insieme all’importanza di tutelare nell’organizzazione l’integrazione fra le pratiche manageriali e le pratiche dei servizi e dei professionisti a favore del supporto. Tuttavia, gli studi e le pratiche dei servizi appaiono focalizzate sul livello formativo e meno esplorate sono le pratiche organizzative, in particolare, le pratiche che intervengono sul sistema esterno (azioni di advocacy, collaborazioni interoganizzative sui determinanti sociali).

Guardando ai diversi approcci che caratterizzano la CC e ridefinizioni, riprendendo Hankivsky (2014), si può evidenziare il passaggio da un approccio unitario alla diversità, che usa una sola categoria della differenza (i.e la differenza culturale), ad un approccio multiplo che aggiunge fattori di differenza fino a giungere ad un approccio intersezionale che considera le reciprocità dei fattori di differenza. In Europa tale passaggio si evidenzia come un abbandono del termine competenza culturale per promuovere “equità” e “sensibilità alle differenze”.

Contrastare le disuguaglianze per migranti e minoranze etniche richiede di tenere conto di aspetti individuali, culturali e sociali alla base delle barriere alle cure e che determinano “diversi” bisogni, mentre il dibattito è attraversato da alcune controversie che indicano la difficoltà di trovare un punto di equilibrio che permetta di massimizzare i vantaggi e minimizzare gli svantaggi delle diverse posizioni, senza cadere in trappole dicotomiche. Una dicotomia che attraversa il dibattito attuale sulla CC è quella che contrappone l’approccio focalizzato ai bisogni individuali, piuttosto che a quelli legati all’appartenenza ai gruppi sociali (Seeleman et al, 2015). Infatti, l’approccio che pone enfasi alle caratteristiche collegate all’appartenenza socio-culturale, se da una parte permette di riconoscere le specificità dei bisogni di salute dei migranti, rischia di non essere efficace, rinforzando stereotipi e stigmatizzazione collegate all’appartenenza culturale, sia alla costruzione dell’altro come vulnerabile. Al contrario un approccio individualistico legato al concetto di centratura sulla persona, nel suo estremo, può condurre ad una sottovalutazione delle differenze che non favorisce il riconoscimento delle disuguaglianze legate all’appartenenza a gruppi sociali. Discorso simile vale per il focus sui bisogni culturali. Ma mettere in luce i rischi della cultura, allo stesso tempo, non vuol dire abbandonare tout-court il concetto. Come sostenuto da Ingleby è necessario trovare una via di compromesso (2011, p. 236):

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“Between the “static” and the “dynamic” views of culture a pragmatic middle way has to be found. Migrant cultures are undoubtedly more complex than the “textbook” approach suggests; nevertheless, migrants are likely to appreciate a health worker who knows and respects their traditions and shows an informed interest in their country of origin. In addition, although a huge variety of cultural and ethnic groups can be found across Europe, large migrant communities tend to gravitate to specific locations, making it possible for service providers to focus on the needs of particular groups without necessarily pigeon-holing them into rigid stereotypes”.

Il dibattito non solo investe l’uso della cultura ma si allarga, quindi, alla possibilità dell’uso delle categorie sociali e al rischio che il loro utilizzo conduca a forme di discriminazione. Sembra interessante la proposta di Ingleby6 di utilizzare il termine “underserved” per definire i gruppi

destinatari di interventi a favore dell’equità per sottolineare che la diversità, non è una caratteristica ascritta dell’individuo ma è “inerente alla relazione fra gli utenti del servizio e l’organizzazione” (Cattacin et al., 2013). Il tema della categorizzazione tocca un punto centrale della logica dei servizi: quello della standardizzazione. Dal punto di vista della logica organizzativa, la standardizzazione rappresenta la soluzione al problema delle differenze e il meccanismo da adottare per segmentare l’utenza in categorie omogenee e facilitare il coordinamento. Dal punto di vista della logica della fruizione dei servizi, la standardizzazione permette da un lato di garantire l’eguaglianza di trattamento, dall’altro si pone come ostacolo al rispetto dell’unicità della domanda dei clienti (Bruni, Fasol e Gheradi, 2007). La seconda dicotomia, infatti, che attraversa il dibatto sulla competenza culturale vede, secondo Seeleman et al., (2015) la contrapposizione fra discriminazione e sensibilità alle differenze, ovvero la contrapposizione fra il principio di uguaglianza e il principio dell’equità. Il primo richiede che i pazienti siano trattati allo stesso modo, il secondo prevede di differenziare fra i pazienti se rilevante per migliorare il processo di cura. Se tale dilemma si presenta con tutti i pazienti (Hogget, 2006), si è visto, in particolare, che in caso di pazienti migranti la paura di discriminare o di essere accusato di discriminazione (legata al rischio di “cultural mistakes”) può portare a preferire un approccio egualitario che può condurre ad un trattamento inadeguato. Sembra quindi difficile sia a livello di definizione dell’approccio che in quello delle scelte pratiche capire quando porre enfasi sulla differenza e quando no. Benché si sia portati a leggere il tema in termini dicotomici, gli antropologi hanno proposto di considerare la diversità come una dialettica fra universale e particolare che indica che i gruppi sociali sono attraversati da caratteri di somiglianza e differenza costruiti nelle relazioni storico-sociali, gli psicologi dell’organizzazione hanno sottolineato che la tensione fra l’universalismo e il particolarismo è irrisolvibile e inerente alla natura conflittuale dei servizi : “The problem for the public official is precisely that s/he must be both a universalist and a particularist at the same time” (Hogget, 2006 p. 180). Seeleman et al., (2015) suggerisce di approfondire il tema della discriminazione nell’assistenza come via per sostenere le organizzazioni nell’affrontare questo dilemma. Tuttavia, diversi studi riportati nell’analisi qui svolta hanno messo in mostra la difficoltà dei servizi nel porre al centro tale tema. Dal punto di vista organizzativo, poichè le differenze e le disuguaglianze sono il frutto di processi

6 Si specifica che tale opinione è stata espressa nella comunicazione orale parte del convegno “La

globalizzazione della salute mentale: un progetto neoliberale” tenutosi a Torino il 16 Ottobre 2016, ma non ritrovata in successive pubblicazioni scientifiche.

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relazionali, da ricercare nelle pratiche interattive e discorsive della vita organizzativa quotidiana (che sono in relazione con il contesto socioculturale più ampio), la cultura organizzativa e le pratiche di servizio diventano elemento chiave per capire in che modo i servizi, a secondo della propria idea di diversità, elaborano le proprie “soluzioni ottimali” a fronte dei dilemmi evidenziati.

L’analisi della letteratura ha messo in evidenza studi che hanno approfondito la letteratura attraverso l’analisi sistematica, o l’analisi comparativa delle politiche e dei framework proposti, dall’altra, in modo minoritario si sono interrogati i professionisti attraverso delphi o interviste (Alizadeh e Chavan, 2016). Carente è il focus manageriale rispetto a quello professionale, che appare essere di rilievo se, come illustrato, un approccio organizzativo alla CC risulta essere maggiormente efficace nel miglioramento di accessibilità e qualità delle cure. Restano pertanto da approfondire come le prospettive del management sostengano valori e pratiche connesse al tema della diversità, e i fattori che facilitano l’integrazione delle CC nelle pratiche di gestione organizzativa e nell’implementazione. (Aries, 2004; Dogra et al., 2009; Irizarry e Gallant, 2006; Dotson e Nuru-Jeter, 2013). Infine, si è mostrata l’utilità di indagare in modo sistematico le barriere e i facilitatori all’implementazione.

Sulla base dell’analisi della letteratura compiuta sembra utile assumere una prospettiva intersezionale del costrutto, a cui accostare una prospettiva sistemica, che vede la CC come interazione di fattori macro, meso e micro-organizzativi, e pone al centro il tema della partecipazione dell’utenza e della comunità, avendo come obiettivo la promozione dell’equità (Fung et al., 2012).

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CAPITOLO 2.

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