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5.3 – PRINCIPALI ARGOMENTI CONTRO L’APPLICABILITÀ AGLI ALTRI LIVELLI DI GOVERNO DEGLI STANDARD ELABORATI DALLA CORTE COSTITUZIONALE RELATIVAMENTE ALLE CAMERE

5.3.3 – ARGOMENTO ISTITUZIONALE

A questo ragionamento si potrebbe obiettare che esso era valido prima della riforma del 2001, la quale invece ha introdotto forti elementi di equiparazione proprio in punto di “importanza” tra tutti gli enti che “costituiscono” la Repubblica ex art. 114 Cost. tanto da indurre a pensare che, da quel momento in poi, ogni differenziazione fosse diventata incostituzionale. Il che, come è noto, è assai lontano dalla realtà, visto che lo Stato, pur equiparato a tutti gli altri enti locali, mantiene una posizione di innegabile supremazia rispetto agli altri enti, sia su un piano funzionale (basti pensare all’ elenco di competenze esclusive e

dei rinvii tra diversi corpi di norme, a proposito di elezioni regionali. Come è noto, l art. 1, u.c., della legge 17 febbraio 1968, n. 108, recante norme per la elezione dei consigli regionali delle Regioni a statuto ordinario, dispone che si osservano, salvo quanto stabilito dalla legge stessa e per quanto applicabili, le disposizioni del d.P.R. n. 570 del 1960, nelle parti riguardanti i consigli dei comuni con oltre 5.000 abitanti. Ciò comporta che per la disciplina penale valga in toto il capo IX di questo testo unico, e dunque anche il divieto contenuto nell'art. 102, ultimo comma. Al contrario, norme statali e norme regionali in vigore per le elezioni degli organi rappresentativi delle Regioni a statuto speciale rinviano in varia guisa alla disciplina contenuta nel tit. VII del testo unico n. 361 del 1957 e perciò, dopo la legge n. 933 del 1973, ad un art. 113, il cui ultimo comma risulta abrogato .... A questa ingiustificata disparità di trattamento, secondo che si partecipi alle elezioni per le regioni a statuto ordinario o per le regioni a statuto speciale, si aggiungono, sempre per effetto di multipli rinvii (tra leggi statali e tra leggi regionali e leggi statali), ulteriori differenziazioni prive di ogni razionale fondamento. Come è noto, secondo l'art. 51, primo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), le disposizioni penali, contenute nel titolo VII del testo unico per la elezione della Camera dei deputati, si applicano anche con riferimento alle disposizioni della legge sui referendum; quindi, lo jus superveniens del 1973, abrogando l'ultimo comma dell'art. 113, reagisce senza dubbio in tema di disciplina dei reati commessi in occasione di referendum, ripristinando le regole del diritto comune. Ma le leggi regionali sui referendum dispongono che per la tutela penale dei loro precetti si applichi l'art. 51 della legge statale sui referendum nazionali (si veda, ad esempio, per il Piemonte l'art. 39 della legge reg. 16 gennaio 1973, n. 4; per il Veneto l'art. 30 della legge regionale 12 gennaio 1973, n. 1 e per l'Emilia-Romagna l'art. 22 della legge regionale 13 maggio 1980, n. 34). Ciò fa sì che, nell'ambito di una stessa regione a statuto ordinario, per i reati elettorali commessi in occasione del rinnovo del Consiglio regionale valga ancora il divieto di applicare il beneficio della condizionale mentre per i reati occasionati da referendum regionali, il giudice possa disporre la sospensione condizionale dell'esecuzione della pena. E va pure ricordato che il divieto di applicare questi benefici non è stato introdotto nella disciplina per la elezione dei rappresentanti dell'Italia al Parlamento europeo (artt. 48 e 49 della legge 24 gennaio 1979, n. 18). Questa mancanza di coordinamento legislativo, derivante dalla legge n. 933 del 1973, è certo involontaria e dovuta alla complessità e farraginosità della normativa vigente: nondimeno essa dà luogo ad un grave difetto di congruità tra il motivo adducibile per la deroga al diritto comune e la disciplina dettata nella materia dei reati elettorali”. Sent. 121/80, Considerato in diritto § 6.

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concorrenti dell’art. 117, secondo e terzo comma), sia su quello gerarchico, tramite le disposizioni che permettono “lo scioglimento del Consiglio regionale e la rimozione del Presidente della Giunta che abbiano compiuto atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge”, nonché “per ragioni di sicurezza nazionale”351, in modo simile alle disposizioni di identico tenore contenute nel TUEL (artt. 141-143).

Ed è proprio la sent. 1/14, che si vorrebbe applicare indistintamente a tutte le assemblee rappresentative, a stabilire una differenziazione chiara tra il livello nazionale e quello sub-nazionale: la Corte specificò che il premio di maggioranza, come configurato dalla l. 270/05, era

incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della «rappresentanza politica nazionale» (art. 67 Cost.), si fondano sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare, ed in virtù di ciò ad esse sono affidate funzioni fondamentali, dotate di «una caratterizzazione tipica ed infungibile» (sentenza n. 106 del 2002), fra le quali vi sono, accanto a quelle di indirizzo e controllo del governo, anche le delicate funzioni connesse alla stessa garanzia della Costituzione (art. 138 Cost.): ciò che peraltro distingue il Parlamento da altre assemblee rappresentative di enti territoriali.352

Inoltre, nella già citata sent. 275/14, che fotografò una situazione ben successiva alla riforma del Titolo V, si dichiara esplicitamente che “la normativa statale … riguarda l’elezione delle assemblee legislative nazionali, espressive al livello più elevato della sovranità popolare in una forma di governo parlamentare. La legge regionale impugnata riguarda gli organi politico-amministrativi dei Comuni, e cioè il sindaco e il consiglio comunale, titolari di una limitata potestà di normazione secondaria e dotati ciascuno di una propria legittimazione elettorale diretta”.

È evidente che qui la Corte introduce una differenziazione tra le leggi elettorali nazionali, a cui è affidato un compito costituzionale più importante, e quelle locali, che devono solo garantire agli organi – non a caso definiti politico-amministrativi (come a dire, espressione della volontà popolare sì, ma essenzialmente diretti a prendere singole decisioni e ad eseguirle, non a sviluppare una dialettica profonda tra maggioranza e opposizione) – una legittimazione che non pregiudichi la loro efficienza.

Un’ulteriore obiezione all’equiparazione tra gli enti locali e lo Stato è stata fornita dalla Corte nella sentenza 50/15, in cui, su ricorso in via principale di varie Regioni, si esaminava la costituzionalità della complessa riforma delle Province (l. 56/14), ed in particolare l’istituzione delle Città metropolitane in sostituzione delle Province di Torino, Milano, Genova, Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Reggio Calabria. La Corte, dichiarando infondate e/o inammissibili tutte le censure presentate dalle ricorrenti, ebbe a stabilire che, innanzitutto, l’elezione indiretta degli organi provinciali (che godono, secondo il nuovo Titolo V, del medesimo status dei Comuni e delle Regioni) è perfettamente legittima353.

351 Art. 126, primo comma, Cost.

352 Sent. 1/14, Considerato in diritto § 3.1, enfasi aggiunta. Lo nota bene D. Girotto, “La Corte si pronuncia sulla legge del Trentino-Alto Adige per l’elezione del sindaco e del consiglio comunale: un'infondatezza prevedibile ma non scontata nelle motivazioni”, Le Regioni, 2015. Si veda, più in generale, G. Perniciaro, “I premi di maggioranza previsti dalle leggi elettorali regionali alla luce della sentenza n. 1 del 2014 della Core costituzionale”, Italian Papers on

Federalism, 3/2014, nonché M. Massa, “Dopo il premio di maggioranza nazionale, quello regionale?”, Quaderni costituzionali, Rivista italiana di diritto costituzionale 1/2014.

353 Questo anche di fronte alla Carta Europea delle Autonomie Locali, citata supra, che la Corte considera “documento di mero indirizzo”, incapace di attivare l’art. 117, primo comma, Cost. Si veda sent. 50/2015, Considerato in diritto § 3.4.3: “A prescindere dalla natura di documento di mero indirizzo della suddetta Carta europea, che lascia ferme «le competenze di base delle collettività locali […] stabilite dalla Costituzione o della legge», come riconosciuto nella sentenza di questa Corte n. 325 del 2010, al fine, appunto, di escludere l’idoneità delle disposizioni della Carta stessa ad attivare la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., è comunque decisivo il rilievo che l’espressione usata dalla

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Anche il modello di governo di secondo grado adottato dalla legge n. 56 del 2014 per le neoistituite Città metropolitane supera il vaglio di costituzionalità in relazione a tutti i parametri evocati dalle quattro ricorrenti. Il tentativo delle difese regionali − di ricondurre l’utilizzazione del termine “sovranità” al concetto di sovranità popolare, di cui al secondo comma dell’art. 1 Cost., e di identificare la sovranità popolare con gli istituti di democrazia diretta e con il sistema rappresentativo che si esprime anche nella (diretta) partecipazione popolare nei diversi enti territoriali − è già stato, infatti, ritenuto «non condivisibile» da questa Corte, nella sentenza n. 365 del 2007. La natura costituzionalmente necessaria degli enti previsti dall’art. 114 Cost., come «costitutivi della Repubblica», ed il carattere autonomistico ad essi impresso dall’art. 5 Cost. non implicano, infatti, ciò che le ricorrenti pretendono di desumerne, e cioè l’automatica indispensabilità che gli organi di governo di tutti questi enti siano direttamente eletti.354

Sempre in quella sentenza la Corte non si è limitata semplicemente ad ammettere che un organo rappresentativo costituzionalmente necessario sia eletto indirettamente; essa ha completamente smentito il concetto stesso di equipollenza tra livelli di governo differenti, richiamando parte della sua recente giurisprudenza (va detto, non riferita alla materia elettorale) e dichiarando che “con la sentenza n. 274 del 2003 e la successiva ordinanza n. 144 del 2009355, è stata, del resto, esclusa la totale equiparazione tra i diversi livelli di governo territoriale e si è evidenziato come proprio i principi di adeguatezza e differenziazione, nei ricorsi in esame più volte evocati, comportino la possibilità di diversificare i modelli di rappresentanza politica ai vari livelli.” Inoltre, “nella già richiamata sentenza n. 365 del 2007, è stato ribadito che «né[anche] tra le pur rilevanti modifiche introdotte dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) può essere individuata una innovazione tale da equiparare pienamente tra loro i diversi soggetti istituzionali, che pure tutti compongono

norma sovranazionale, nel richiedere che i membri delle assemblee siano “freely elected”, ha, sì, un rilievo centrale quale garanzia della democraticità del sistema delle autonomie locali, ma va intesa nel senso sostanziale della esigenza di una effettiva rappresentatività dell’organo rispetto alle comunità interessate … Né, infine, sussiste la denunciata incompatibilità della normativa impugnata con l’art. 3, comma 2, della Carta europea dell’autonomia locale, invocata dalle ricorrenti − come parametro interposto ai fini della violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. − nella parte in cui prevederebbe [sic] che almeno uno degli organi collegiali sia ad elezione popolare diretta.”, e anche sent. 325/10.

354 Sent. 50/15, Considerato in diritto § 3.4.3.

355 Per la cronaca, la sent. 274/03, in merito ad una legge sul pubblico impiego della Sardegna, stabilì che “è decisivo rilevare come, nel nuovo assetto costituzionale scaturito dalla riforma, allo Stato sia pur sempre riservata, nell’ordinamento generale della Repubblica, una posizione peculiare desumibile non solo dalla proclamazione di principio di cui all’art. 5 della Costituzione, ma anche dalla ripetuta evocazione di un’istanza unitaria, manifestata dal richiamo al rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, come limiti di tutte le potestà legislative (art. 117, comma 1) e dal riconoscimento dell’esigenza di tutelare l’unità giuridica ed economica dell’ordinamento stesso (art. 120, comma 2). E tale istanza postula necessariamente che nel sistema esista un soggetto – lo Stato, appunto – avente il compito di assicurarne il pieno soddisfacimento. Lo stesso art. 114 della Costituzione non comporta affatto una totale equiparazione fra gli enti in esso indicati, che dispongono di poteri profondamente diversi tra loro: basti considerare che solo allo Stato spetta il potere di revisione costituzionale e che i Comuni, le Città metropolitane e le Province (diverse da quelle autonome) non hanno potestà legislativa. In conclusione, pur dopo la riforma, lo Stato può impugnare in via principale una legge regionale deducendo la violazione di qualsiasi parametro costituzionale.”, Corte cost., sent. 274/2003, Considerato in diritto § 2.1. L’ord. 144/09 invece dichiarò manifestamente infondata una questione in merito alla non esenzione per Regioni, Province e Comuni dall’imposta ipotecaria, esenzione prevista invece per lo Stato.

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l’ordinamento repubblicano, così da rendere omogenea la stessa condizione giuridica di fondo dello Stato, delle Regioni e degli enti territoriali»”356.