• Non ci sono risultati.

Arimanni ed arimannia nel privilegio imperiale dell’anno

CAP VI SIGNORIA VESCOVILE E ARIMANNI: TRIBUTI DI ARIMANNIA E DI FODRO

6.1. Arimanni ed arimannia nel privilegio imperiale dell’anno

[145] Nell’età postcarolingia, soprattutto nell’accentuato par- ticolarismo dei secoli XI e XII secolo, la tradizione arimannica venne progressivamente abbandonata nei territori e per le comu- nità ove non vi fu occasione di ricorrere alla qualifica di arimanni da parte dell’Impero nell’assegnarli ai signori, da parte dei conti, vescovi e signori per mantenere il loro dominio su gruppi di uo- mini, o da parte degli uomini liberi, per rivendicare la loro condi- zione giuridica di piena libertà o per contestare la sostanza e, spesso, le forme più oppressive o che essi ritenevano tali della giurisdizione signorile.

Gli arimanni agirono all’interno delle strutture signorili, in connessione con l’esercizio di una giurisdizione che si ricollega- va coscientemente nelle forme a quella esercitata dagli ufficiali pubblici: è sufficiente rilevare il ruolo che svolgeva il placitum

generale, con i connessi obblighi di ospitalità, a loro volta spesso

connessi con la disponibilità dei beni comuni, in prevalenza bo- schivi e pascolivi, per il cui sfruttamento sorgono frequenti con- troversie con i signori (1).

Gli arimanni di Sacco fanno la prima comparsa nel privilegio loro indirizzato da Enrico III nell’anno 1055 (2), coevi, questi arimanni, di quelli attestati nel privilegio per S. Zeno di Verona (3) – tre piccoli gruppi di quattro uomini in tre castelli, ceduti al monastero di S. Zeno (4) –, ma in una posizione di rilievo mag- giore, avvicinabili ad [146] altri destinatari collettivi di privilegi enriciani dello stesso anno, ancor più rilevanti: ci riferiamo, oltre

(1) Le brevi osservazioni del testo sono riprese dalle note conclusive di Castagnetti, Arimanni in ‘Langobardia’ cit., pp. 243-244.

(2) DD Heinrici III, n. 352.

(3) DD Heinrici III, n. 357, 1055 novembre 11.

e più che al privilegio indirizzato al populus di Ferrara (5), che ne regola e ne limita obblighi e carichi pubblici (6), a quello indi- rizzato ai cives-arimanni di Mantova (7), anch’essi, come i Sac-

censes, lamentanti le miseriae e le diuturnae oppressiones, alle

quali erano sottoposti (8).

Gli homines abitanti nel distretto di Sacco, «in valle que voca- tur Saccus», tramite l’intercessione di eminenti personaggi, quali l’imperatrice Agnese e il giovanissimo re Enrico, avevano invo- cato l’intervento imperiale per porre freno all’oppressione del vescovo di Padova, che li costringeva con la violenza a fornire prestazioni ingiuste, de iniuste servitutis oppressione, e che li a- veva costretti a stipulare cartae, che staranno a significare più che contratti, accordi e compromessi a loro sfavorevoli. I richie- denti non specificano ulteriormente la natura delle oppressioni, per loro illegittime: nel corso del processo di costituzione della signoria vescovile sull’intero distretto, processo cui abbiamo ac- cennato (9), erano stati, probabilmente, assoggettati ad obblighi già da tempo gravanti sugli uomini risiedenti sulle terre di pro- prietà della chiesa vescovile, costituite da quelle dell’antica curtis fiscale donata da Berengario I ed abitate da coltivatori dipenden- ti, alcuni o molti dei quali erano in origine di condizione servile. I tentativi vescovili non tenevano conto della condizione di libertà giuridica ed indipendenza economica dei Saccenses, che ora pre- sentano le loro proteste all’imperatore, indizio anche questo di una notevole capacità di azione.

L’imperatore, riallacciandosi alla tradizione del potere regio, che [147] tante volte era intervenuto, almeno in età carolingia – più sul piano legislativo, invero, che nella pratica quotidiana (10)

(5) DD Heinrici III, n. 351, 1055 agosto 24. (6) Castagnetti, Società e politica cit., pp. 44-49. (7) DD Heinrici III, n. 356, 1055 novembre 3.

(8) A. Castagnetti, I cittadini-arimanni di Mantova (1014-1159), in Sant’Anselmo, Mantova e la lotta per le investiture, Bologna, 1987, pp. 174- 176, ripreso da Castagnetti, Arimanni in ‘Langobardia’ cit., pp. 124-126.

(9) Cfr. sopra, par. 3.1.

(10) Tabacco, I liberi cit., pp. 45-46; V. Fumagalli, Il Regno Italico, To- rino, 1978, pp. 104-107; V. Fumagalli, Le modificazioni politico- istituzionali in Italia sotto la dominazione carolingia, in Nascita

–, in difesa degli uomini liberi, oppressi dai potenti, stabilisce che il vescovo restituisca la documentazione che essi erano stati co- stretti ad accettare e che gli uomini di Sacco siano liberati dai gravami illeciti: «de iniusta servitute sint soluti»; concede altresì che essi possano in futuro qualificarsi come arimanni, usufruendo in tale modo di quella condizione sociale che è consuetudine pro- pria degli arimanni abitanti nel comitato di Treviso, senza che nulla sia detto per dare concretezza a tale condizione.

Nel comitato trevigiano la qualifica, indubbiamente presente e diffusa, non era certo ignota alla chiesa vescovile padovana, poi- ché Berengario I, all’inizio del secolo X, aveva donato a questa chiesa, fra altri beni e diritti, la giurisdizione sugli uomini liberi, in genere, e in particolare sugli arimanni risiedenti nella valle di Solagna, nel comitato di Treviso (11). Come osserva il Tabacco (12), negli arimanni della valle di Solagna vanno riconosciuti non tutti i liberi, ma quei liberi che, per condizioni economiche e sociali, sono tenuti all’assolvimento degli obblighi pubblici es- senziali, quali la custodia del placito e il servizio militare, ricol- legabili agli esercitali dell’età carolingia ed anche, aggiungiamo noi, agli esercitali dell’età longobarda, ma sotto l’aspetto delle condizioni sociali ed economiche e degli obblighi pubblici, non certo sotto l’aspetto della continuità etnica, certamente possibile, ma altrettanto certamente non da presupporre in modo necessario né generalizzato.

Il vincolo tra gli uomini liberi della Saccisica, che pretendono la qualifica di arimanno, e il potere regio viene ribadito dall’obbligo di [148] corrispondere all’imperatore, quando viene nel Regno Italico, il tributo pubblico, come da antica consuetudi- ne, consistente in sette libbre – non è detto di quale moneta – e nelle decimae, che debbono essere versate ogni anno.

Secondo il Brühl (13), il tributo di sette lire costituisce il fo-

drum regale, pur se il termine non viene impiegato; designò

dell’Europa ed Europa carolingia: un’equazione da verificare, Spoleto, 1981, pp. 311-315.

(11) DD Berengario I, n. 101, ante dicembre 915.

(12) Tabacco, I liberi cit., p. 141; cfr. Castagnetti, Il Veneto cit., p. 241. (13) Brühl, Fodrum cit., I, p. 556.

dall’età ottoniana le esigenze materiali del re e del suo seguito: dapprima esatto in natura (14), tra XI e XII secolo si trasformò in un contributo in denaro, un’evoluzione che sarebbe ora testimo- niata per la prima volta.

Le decimae, corrisposte annualmente, sulle quali il Brühl non si sofferma, non costituivano una decima ecclesiastica. Difficil- mente potevano corrispondere alle decimae provenienti dalla cur-

tis regia, secondo la consuetudine già carolingia di fare corri-

spondere ai coltivatori delle terre fiscali le decimae alla chiesa della curtis, non alla pieve (15), dal momento che sono dovute dagli arimanni. Potevano, probabilmente, costituire un censo che gravava sulle terre fiscali, coltivate ed anche, pare, incolte, che gli abitanti della Saccisica avessero avuto a disposizione; si trat- terebbe in questo caso di un censo analogo a quello altre volte è documentato come decimae dovute per lo sfruttamento di zone boschive, silvae regie o già fiscali (16), un censo [149] denomi- nato anche escaticum (17) o decima porcorum (18). Una relazio-

(14) Ibidem, pp. 541-542; cfr. anche i contributi in natura esatti dagli homines regis sui possessi della chiesa vescovile veronese intorno alla metà del secolo X: Castagnetti, La pieve cit., p. 112 e app., p. 181.

(15) C. E. Boyd, Tithes and Parishes in Medieval Italy. The historical roots of a modern problem, New York, 1952, pp. 82-83; P. Viard, Histoire de la dîme ecclésiastique principalement en France jusqu’au décret de Gra- tien, Dijon, 1909, p. 114; A. Castagnetti, Le decime e i laici, in La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, in Storia d’Italia. Annali 9, Torino, 1986, pp. 517-518. Ancor prima dei Carolingi e dell’introduzione dell’obbligatorietà della decima, già in un privilegio di Adelchi per il monastero di Farfa si tratta delle decime provenienti da una curtis regia: R. Brühl (ed.), Codice diplomatico longobardo, IV/1, Roma, 1981, n. 17, 763 luglio, Spoleto.

(16) A decime, oltre che a diritti di capulum e ad omnis exactio, per lo sfruttamento della selva di Ostiglia viene fatto riferimento in un placito im- periale dell’anno 833: Manaresi, I placiti cit., I, n. 41, 833 gennaio 15, Man- tova.

(17) Nel noto placito in cui gli uomini di Flexo furono condannati a vantaggio del monastero di S. Silvestro di Nonantola, il censo, che avrebbe- ro dovuto pagare al fisco per l’uso della grande silva regia, viene definito scaticum vel datio: doc. citato sopra, nota 18 di cap. I.

(18) Sulla decima porcorum, da corrispondere per l’uso dei diritti di pa- scolo, già documentata per l’età merovingia (Niermeyer, Mediae Latinitatis

ne, d’altronde, tra arimanni ed allevamento dei porci è presente in modo esplicito in un privilegio imperiale di poco anteriore, diret- to alla chiesa vescovile di Cremona, con il quale viene concesso, fra altri diritti, quello dei porci arimannorum (19) ovvero il cen- so che gli arimanni dovevano all’episcopio per usufruire delle

silvae della chiesa, già di proprietà fiscale, poste presso la città

(20

).

Nel privilegio dell’anno 1055 l’imperatore precisa che gli a- rimanni non possono vendere la loro eremannia ad enti e persone potenti, a meno che costoro non garantiscano le prestazioni pub- bliche che, in forza della loro condizione di uomini liberi, stret- tamente connessa con [150] la loro condizione economica, gli abitanti del distretto debbono alla chiesa vescovile, anche questo per consuetudine (21). Tale è il significato dell’espressione debi-

tum eremanie, la quale esprime il nesso stretto che si è venuto a

formare fra le prestazioni degli uomini, di origine e natura pub- bliche, già dovute al potere regio e poi alla signoria vescovile, al cit., p. 307), si veda la menzione esplicita in un placito dell’anno 818: Ma- naresi, I placiti cit., I, n. 30, 818 gennaio 28; così la decima di quattrocento porci proveniente dalla selva, già regia, di Migliarina presso Carpi: A. Ca- stagnetti (ed.), Corte di Migliarina, in Castagnetti et alii, Inventari cit., p. 203; ed ancora la concessione da parte dei vescovi di Modena e di Parma della decima porcorum, rispettivamente, E. P. Vicini, Regesto della chiesa cattedrale di Modena, I-II, Roma, 1931-1936, I, nn. 143 e 144, 1033 gen- naio 10 e 13, e G. Drei, Le carte degli archivi parmensi dei secoli X-X, II, Parma, 1928, n. 87, 1049 gennaio 25. Cfr. Boyd, Tithes cit., p. 4; Viard, Histoire cit., p. 153; P. S. Leicht, Il diritto privato preineriano, Bologna, 1933, pp. 117-118; R. Grand, R. Delatouche, Storia agraria del medio evo, Paris, 1950, pp. 458 ss.; Castagnetti, La pieve cit., pp. 144-145. Non si sof- ferma sulle decimae Tabacco, I liberi cit., p. 158.

(19) DD Corradi II, n. 163, 1031 febbraio 27.

(20) Per le controversie fra chiesa vescovile e gli abitanti di Cremona ai fini dell’utilizzazione di pascoli e boschi si veda A. Castagnetti, La ‘campa- nea’ e i beni comuni della città, in L’ambiente vegetale nell’alto medioevo, voll. 2, Spoleto, 1990, I, pp. 167-169.

(21) Il ricorso alla consuetudine è una procedura ‘consueta’, quando si debbono risolvere controversie relative ai rapporti degli arimanni con i si- gnori e alla natura e quantità dei loro obblighi: sulla ‘consuetudine come fonte di diritto’ si veda, almeno, Calasso, Medioevo cit., pp. 192 ss.

primo subentrata, e il possesso dei loro beni, supporto imprescin- dibile per attestare la loro condizione di uomini liberi e permette- re l’adempimento dei loro compiti, fra i quali vengono ricordati quelli verso il Regno: il tributo in denaro, probabilmente il fodro regio, e una contribuzione in natura, le decimae. Gli obblighi pubblici vengono, quindi, trasferiti dagli arimanni ai loro beni, che ne rimangono gravati, anche in caso di alienazione: l’eremannia od arimannia viene ad indicare, oltre che la condi- zione della persona nei confronti del potere pubblico, Regno e chi

i trasformazione, quand’anche non fossero in via di dissoluzione.

di custodia del placito, di corresponsione del teloneo e altri tributi

esa vescovile, la terra della persona stessa.

Il termine arimannia, che appare, per quanto ci consta, per la prima volta nella Langobardia in questo privilegio, come in quel- lo coevo per i Mantovani, nel significato duplice di obblighi e tributi pubblici e di terra di un uomo, arimanno o meno, soggetto a tali obblighi, è già documentato un secolo prima in un placito nella regione della Romania, in territorio cesenate, per indicare, in correlazione con publica functio, prestazioni e redditi fiscali, non precisati, dovuti, anzi pretesi dai conti (22). Esso ha, quindi, trovato il suo primo impiego, forse è stato coniato, proprio nella zona di ‘importazione’, nella quale [151] il nome di arimanno e l’istituto arimannico si presentavano in qualche modo già cristal- lizzati, anche se assunti con modalità divergenti da quelle origi- narie presenti nella Langobardia, anche qui, del resto, in via d

Un riscontro alla situazione degli arimanni di Sacco proviene dal privilegio del 1065 per gli uomini di Vigevano, ai quali il re concede di potere «exire de arimannia», il cui contenuto viene specificato negli obblighi di ospitalità per gli ufficiali pubblici e

(22) Castagnetti, Arimanni in ‘Romania’ cit., p. 35, ripreso in Casta- gnetti, Arimanni in Langobardia cit., pp. 160-161. Si confronti per lo stesso periodo la concessione della publica functio corrisposta dagli arimanni al conte Aleramo: L. Schiaparelli (ed.), I diplomi di Ugo e di Lotario, di Be- rengario II e di Adalberto, Roma, 1924, n. 53, 940(?) febbraio 6; cfr. Ta- bacco, I liberi cit., pp. 142-143.

pubblici, publica functio (23): arimannia intesa come gravame e ‘limitazione della pienezza della libertà’ (24).

Nello stesso anno 1055 Enrico III concede ai cittadini manto- vani o arimanni la protezione imperiale per le loro persone, i loro dipendenti, servi e liberi, risiedenti sulle loro terre (25); ancora, per l’eremania, intendendosi probabilmente, oltre ai beni indivi- duali degli arimanni, i beni collettivi, pur essi goduti ereditaria- mente dagli arimanni (26), un significato sostanzialmente positi- vo, come sostanzialmente positiva rimarrà per i cittadini manto- vani la qualificazione di arimanni fino alla metà del secolo XII, una situazione unica in quanto concernente una società urbana, non rurale (27).

Gli abitanti della Saccisica tornano dopo oltre due decenni in un altro privilegio imperiale, non più destinatari diretti. Nell’anno 1079, il tributo di sette lire, ora specificate in moneta veneziana, che i [152] Saccenses dovevano al fisco regio, viene ceduto, co- me abbiamo notato, dall’imperatore al vescovo di Padova (28), il filoimperiale Milone (29). Gli ultimi legami diretti fra la comuni- tà rurale e il potere regio, già ribaditi dal padre Enrico III, sono ora dal figlio sciolti, rendendo vano, in ogni caso più difficile il ricorso alla protezione regia. Non è detto, tuttavia, che si tratti di un peggioramento delle condizioni dei Saccenses (30): essi si mostrano subito assai attivi, come potremo ampiamente verifica- re.

(23) DD Heinrici IV, n. 170, anno 1065.

(24) Tabacco, I liberi cit., pp. 156-157, che pone questo privilegio in re- lazione diretta con quello per i Saccenses.

(25) DD Heinrici III, n. 356, anno 1055.

(26) Tabacco, I liberi cit., pp. 178-179, particolarmente nota 610. (27) Castagnetti, I cittadini-arimanni cit., ripreso in Castagnetti, Ari- manni in ‘Langobardia’ cit., pp. 117-148.

(28) DD Heinrici IV, n. 312, 1079 luglio 23, Ratisbona. (29) Cfr. sotto, t. c. note 13 ss. di cap. X.

(30) Tabacco, I liberi cit., p. 159, si lascia sfuggire un commento in me- rito, sottolineando che la concessione di Enrico IV rappresenta una “supre- ma ironia” per i Saccenses.

Gli atti svoltisi tra la fine dell’anno 1079 e l’inizio del succes- sivo, con la promessa dei Saccenses, sancita sotto forma di dona- zione, di non molestare il vescovo per il possesso della zona nord-occidentale della Saccisica e la regolamentazione tra signo- re e comunità rurale circa l’uso degli spazi incolti potevano rap- presentare il compromesso necessario dopo che tutti i tributi do- vuti al Regno erano stati devoluti alla chiesa vescovile. Le deci- me non vengono menzionate, né di esse abbiamo trovato traccia in seguito: se erano state corrisposte per le terre incolte, come abbiamo supposto, l’obbligo potrebbe essere decaduto dopo gli accordi degli anni 1079-1080.