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Le forme pubbliche tradizionali nell’amministrazione della giustizia: i placiti vescovili (1137-1140)

CAP III SIGNORIA VESCOVILE E COMUNITÀ RURALI TRA XI E XII SECOLO

3.4. Le forme pubbliche tradizionali nell’amministrazione della giustizia: i placiti vescovili (1137-1140)

Nell’anno 1137, il vescovo Bellino presiede in Piove, nella

laubia della chiesa plebana di S. Martino, un placito (68), che si

svolge secondo le forme pubbliche tradizionali. Al cospetto del

(64) CDP, II, n. 318, 1137 giugno 12, Piove.

(65) Il primo dei marici è Pietro di Roza, che assiste al placito di mag- gio, di cui sotto, nota 68, presente anche in altra documentazione.

(66) Citiamo, in modo solo occasionale, un atto della fine del secolo, nel quale agisce Enrigino dei Tadi, sindaco e procuratore del comune di Code- vigo per il comune di Sacco: Benasaglio, Per la continuazione cit., II, n. 70, 1199 maggio 13, Padova. Si noti la persistenza dell’interesse degli eredi di Giovanni di Tado per la Saccisica, ove possedevano, a vario titolo, ampi beni, e la persistenza dell’assunzione di incarichi per la comunità.

(67) Se ne vedano alcune esemplificazioni nei documenti dell’anno 1163 (citato sotto, t. c. nota 58 di cap. V), dell’anno 1188 (citato sotto, nota 98 di cap. IV) e dell’anno 1199 ( doc. citato sotto, nota 97 di cap. IV).

(68) CDP, II, n. 317, 1137 maggio 27, riedito in J. Ficker, Forschungen zur Reichs- und Rechtsgeschichte Italiens, voll. 4, Innsbruck, 1868-1874, IV, n. 107; regesto in R. Hübner, Gerichtsurkunden der Fränkischen Zeit. II. Die Gerichtsurkunden aus Italien bis zum Jahre 1150, «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Germanistische Abtheilung», 14 (1893), n. 1619.

collegio giudicante, presieduto dal vescovo – «Dum ... residebat dominus Bellinus ... episcopus ad singulorum hominum iusticiam faciendam ad deliberandas contenciones ...» – e con lui – «resi- dentibus cum eo» – da tre giudici, primo dei quali è Giovanni di Tado, e dall’avvocato dell’episcopio, Uberto da Fontaniva (69), assistiti, vescovo e copresidenti, da ben sei causidici, fra i quali Adamo di Sacco (70), e da un folto [75] gruppo di astanti, singo- larmente nominati, alcuni dei quali sono cittadini padovani, come Lemizo di Aica (71), e altri certamente abitanti della Saccisica, come Pietro di Roza (72), si presenta l’arciprete del capitolo cit- tadino, accompagnato dall’arcidiacono, da altri preti e dal causi- dico Enrico, suo avvocato, per chiedere giustizia per l’usurpazione di due massaricie della canonica, ma l’usurpatore non si presenta.

Il vescovo, udito il parere dei giudici, investe, per fustem, dei beni contestati i canonici e il loro avvocato con la procedura ad

salvam querelam, una procedura, quella dell’investitura salva

(69) Sui da Fontaniva si veda sotto, par. 4.2. (70) Per Adamo di Sacco si veda sotto, par. 6.2.

(71) S. Bortolami, Famiglia e parentela nei secoli XII-XIII: due esempi di ‘memoria lunga’ dal Veneto, in Viridarium floridum, Padova 1984, pp. 130-132 su Lemizo di Domenico di Aica, attivo nel periodo 1125-1167: fra i primi consoli del comune cittadino negli anni 1138, 1142 e 1147 (doc. dell’anno 1138, citato sotto, nota 48 di cap. IV; CDP, II, nn. 409 e 410, 1142 novembre 16; III, n. 1541, 1147 marzo 28; per la magistratura consola- re padovana dell’anno 1138 si veda Castagnetti, Le città cit., p. 113; ibidem, p. 121, per le magistrature degli anni 1142 e 1147); il padre, Domenico di Aica, attivo in città fin dall’anno 1109, nel terzo decennio del secolo assiste ad atti dei vescovi Sinibaldo e Bellino (Bortolami, Famiglia cit., p. 129). Per ulteriori considerazioni sulla famiglia si veda sotto, t. c. note 44 ss. di cap. XV. Non concordiamo pertanto con Rippe, Commune urbaine cit., p. 679, che porta la famiglia di Lemizo di Aica, con quella di Giovanni di Ta- do, quale esempio di famiglie di vassalli rurali della Saccisica, inurbatesi, usufruendo della condizione di vassalli vescovili, costituendo la condizione appunto di vassallità «un facteur d’urbanisation». Ma il fatto che Tadi e Lemizzi possiedano in Piove o che, in periodi più tardi, all’inizio del secolo XIII, possano anche risiedervi temporaneamente non è certo sufficiente a considerarli originari del distretto. Sulla tradizione urbana dei Lemizzi non ha dubbi Bortolami, che tuttavia non cita l’interpretazione del Rippe.

querela, le cui prime testimonianze si rinvengono nei placiti dalla

fine del secolo IX (73), e adoperata quando non si presenta in giudizio la parte convenuta. [76] Il vescovo, quindi, pone il ban-

num imperatoris di cento lire d’oro (74) sui due mansi e su tutti i

beni dei canonici situati nella Saccisica, una penalità da pagarsi metà alla pars publica, metà ai canonici. La causa finisce e viene redatta la noticia dal notaio per comando del vescovo e ammoni- zione dei giudici: «ex iussione episcopi et iudicum admonicio- ne».

Nell’anno 1140, al cospetto del vescovo Bellino, il quale, a- vendo costituito il tribunale in Piove, presso il campanile della chiesa di S. Martino, presiedeva un generale placitum (75), se- dendo in iuditio per amministrare la giustizia, «ad singulorum hominum iusticia facienda ac deliberanda», assistito dall’avvocato vescovile, Ariprando figlio di Uberto da Peraga (76), dal visdomino Giovanni di Tado, da iurisperiti e assessores suoi, alla presenza di molte persone, fra cui cittadini, come Lemi- zo di Aica, e Walperto, fratello del vescovo, ed abitanti della Saccisica, quali Pietro di Roza e i suoi fratelli, Iustino e il fratello Alberto di Iustino, si presentano due sorelle di Corte che recla- mano dall’abate del monastero veneziano di S. Nicolò al Lido il possesso di una massaricia in Corte, che era stata data in pegno dal loro avo materno. L’abate replica che la massaricia era pro-

(73) Diurni, Le situazioni cit., pp. 269 ss.; A. Padoa Schioppa, Aspetti della giustizia milanese dal X al XII secolo, in Milano ed il suo territortio in età comunale, «Atti dell’11° Congresso internazionale di studi sull’alto me- dioevo», Spoleto, 1989, pp. 486-488.

(74) Il bannum imperatoris di cento lire d’oro è già previsto nel privile- gio di Ottone I indirizzato al capitolo (DD Ottonis I, n. 143, 952 febbraio 9) e ripreso in privilegi successivi; un bannum di consistenza uguale appare anche nei due placiti dell’anno 1077 relativi al capitolo: Manaresi, I placiti cit., I, nn. 441 e 442, 1077 marzo 14, Verona (= CDP, I, nn. 239 e 241).

(75) Pinton, Codice diplomatico cit., p. 51, n. 278, 1140 febbraio 9; per il placitum generale si veda sotto, t. c. nota 91.

(76) Il padre di Ariprando, qui denominato Uberto da Peraga, è da iden- tificare con l’avvocato Uberto da Fontaniva (doc. dell’anno 1137, citato sopra, nota 68): cfr. sotto, par. 4.2.

prietà del monastero da più di cinquanta anni (77). I giudici, a- scoltate le parti, [77] chiedono alle due sorelle di presentare testi per provare che quella massaricia era stata data in pegno. Poiché i molti testi prodotti non furono in grado di provare quanto richie- sto, i giudici emettono un ‘giudizio di prova’, una sententia, che consiste, secondo una prassi risalente ancora all’età longobarda e carolingia, nel chiedere all’accusato un ‘giuramento purgatorio’ (78): l’abate giura che nessun contratto di pegno era stato con- cluso né che il bene costituiva un pegno. La controversia si con- clude con la remissione da parte delle due donne alla prosecuzio- ne dell’azione e l’accettazione dei diritti della proprietà monasti- ca.

Atti processuali tra XII e XIII secolo, quelli relativi ai proces- si da noi chiamati dei Giustini (79) e dei Farisei (80), mostrano che di numerose controversie, soprattutto quelle che avevano per oggetto la trasgressione dei bandi, relativi, ad esempio, allo sfrut- tamento dei boschi, e quelli che avevano per oggetto risse tra gli abitanti, non venivano redatte per iscritto le sentenze. La giustizia

(77) Il riferimento al periodo dei cinquanta anni richiama le norme della legislazione longobarda, solitamente riferita al periodo di trenta anni e più, norme riprese in età carolingia, dirette a tutelare una situazione di fatto, re- lativamente alla condizione della persona, servo o aldio, ovvero al possesso dello status libertatis, e al possesso di beni, immobili e mobili – casae, fa- miliae e terrae – , norme che indicano appunto nella detenzione per un tale periodo una prova dei diritti del possessore: Grimualdi leges in Bluhme, Edictus cit., capp. 1, 2 e 4, ripreso da Liutprandi leges cit., cap. 54, con rife- rimento generico alle res. Cfr. Diurni, Le situazioni cit., pp. 132-133, nota 34, 135-137, 186-190 e 236-240, per l’evoluzione giuridica in età carolin- gia, con riferimento anche ad alcuni placiti, nei quali viene fatto ricorso, appunto, all’elemento temporale; C. Wickham, Land disputes and their so- cial framework in Lombard-Carolingian Italy, 700-900, in W. Davies, P. Fouracre (a cura di), The Settlement of Disputes in Early Medieval Europe, Cambridge, 1986 e 1992, p. 110, che sottolinea come queste norme ripren- dano una consuetudine risalente al secolo IV.

(78) Bruyning, Il processo cit., p. 143; Diurni, Le situazioni cit., pp. 88 e 101, che fa riferimento alla legislazione longobarda.

(79) Cfr. sotto, par. 12.3.

veniva amministrata [78] direttamente e con pochi impedimenti, a meno che gli accusati non vantassero privilegi di immunità, in quanto vassalli vescovili. I processi potevano essere presieduti dal vescovo, solitamente nel corso dei placita generalia; spesso, tuttavia, agivano in sua vece l’avvocato e poi il visdomino, assi- stiti da personale tecnico, quali giudici e notai. Per cause di mi- nore importanza agivano direttamente anche gli amministratori locali: massarii, vilici, nuncii, gastaldii.