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Signoria vescovile e comune di Piove di fronte all’affermazione del comune padovano

ALLA GIURISDIZIONE DEL COMUNE CITTADINO 5.1 Il comitato di Sacco nell’età di Federico

5.5. Signoria vescovile e comune di Piove di fronte all’affermazione del comune padovano

La signoria della chiesa vescovile persistette su Piove almeno fino al terzo decennio del secolo, pur evolvendosi l’organiz- zazione della [136] comunità nella forma che possiamo definire, ora anche formalmente, del comune rurale.

Nell’anno 1223 il vescovo confermò ai rappresentanti della comunità di Piove l’elezione dei consoli locali (118), dei quali,

(114) G. B. Biancolini, Dei vescovi e governatori di Verona, Verona 1757, n. 11 e 12, 1136 giugno 28; n. 13, 1136 giugno 30. Il terzo documento è riedito in Castagnetti, ‘Ut nullus’ cit., app., n. 1, e Castagnetti, Le città cit., app. II, n. 2; cfr. ibidem, pp. 103-106.

(115) Castagnetti, Società e politica cit., app. II, n. 8, 1151 maggio 31 (riproposto in Castagnetti, Le città cit., app. II, n. 5); cfr. Castagnetti, Socie- tà e politica cit., pp. 66-76.

(116) Castagnetti, Le città cit., app. I, n. 4, 1140 febbraio 10. (117) Ibidem, app. I, n. 3, doc. 1140 gennaio 11.

(118) Dondi Dall’Orologio, Dissertazione settima cit., 1223 gennaio 7, Padova, palazzo episcopale. Va notato che il notaio rogatario è Rainaldino, colui che pochi anni prima ha redatto numerosi atti del processo Farisei e

tuttavia, non sono dati i nomi (119). Ai marici, attestati per tutto il secolo XII, sono subentrati i consoli del comune, secondo un processo di imitazione, anche formale, delle magistrature del co- mune cittadino.

Solo verso il quarto decennio del secolo XIII, in un periodo più tardo rispetto a quanto si era verificato in territori vicini, ap- paiono tentativi ad opera della comunità di Piove volti a sottrarre alla chiesa vescovile l’esercizio dei suoi diritti signorili.

All’inizio degli anni trenta un procuratore del vescovo pado- vano denunciò ai legati apostolici che gli uomini e il comune di Piove avevano spogliato il vescovo dei suoi diritti giurisdizionali, costituiti dalla detenzione di comitatus, iuridicio, marigancia, ed ancora dal diritto di porre marici, saltari, giurati, di stabilire regu-

lae e banna, e così via (120).

Poco tempo dopo, nell’anno 1236 (121), si svolse di fronte al vicario del podestà cittadino una controversia, di cui non cono- sciamo l’esito finale, fra il vescovo padovano e il comune di Pio- ve per l’elezione del podestà locale, effettuata di propria iniziati- va dal comune di Piove, che aveva scelto per questo ufficio un cittadino influente, Marsilio di Gualperto. L’azione del comune locale era conforme a quanto [137] aveva stabilito in un tempo precedente indeterminato, probabilmente non molto anteriore, il comune cittadino, che in una norma dello statuto, promulgata a- vanti l’anno 1236, aveva prescritto che gli uomini di un villaggio non potessero concedere ad alcun potente, magnus vel potens vir, la facoltà di porre i magistrati locali, di qualsiasi grado, dal pode- stà al marico, al decano ecc. (122). Il fatto che il divieto fosse impartito alle comunità rurali rientra in un aspetto della politica antimagnatizia del comune padovano, che tendeva a separare gli eseguito le copie del preceptum ai Farisei dell’anno 1186 e di altra docu- mentazione connessa.

(119) Già un secolo prima, secondo l’elenco dei diritti vescovili regi- strati nel secondo decennio del secolo XII, spettava al vescovo la conferma dei marici: cfr. sopra, t. c. note 81 ss. di cap. III.

(120) Sambin, Aspetti cit., doc. 2, databile intorno all’anno 1232.

(121) Pinton, Codice cit., p. 68, n. 333, 1236 gennaio 15, nel palazzo comunale di Padova.

interessi di queste comunità da quelli dei loro signori, ritenendo, evidentemente, che gli antichi rapporti fra loro potessero essere ancora vivi (123), così che le comunità, di loro volontà o per pre- venire ritorsioni eventuali, prendessero esse stesse l’iniziativa di richiedere podestà ai loro vecchi signori.

La norma statutaria si allineava a quanto era già praticato o si veniva attuando in altri comuni. Dalla fine del secolo XII, dap- prima nelle località più popolose e più importanti, poi anche in località di minore importanza, iniziarono ad essere inviati dal comune cittadino propri ufficiali, podestà e capitani, con compiti amministrativi e militari (124). Il mantenimento di costoro e del loro seguito di amministratori e soldati gravava sulle comunità rurali.

Iniziative analoghe furono attuate anche nel territorio pado- vano: nell’anno 1212 è attestato in Monselice quale podestà un cittadino padovano (125).

Con la cautela dovuta al fatto che stiamo oltrepassando di mezzo secolo il periodo fissato per il contributo presente, pos- siamo utilizzare la normativa statutaria, elaborata dopo la fine del dominio ezzeliniano, in un periodo nel quale vanno prevalendo le forze ‘popolari’ (126), che accentuarono la politica di controllo del [138] contado (127).

Un gruppo di disposizioni degli anni sessanta e settanta del secolo XIII, inserite negli statuti cittadini (128), prescrisse le modalità per la scelta dei podestà locali, i cui stipendi erano a

(123) Cfr. sopra, t. c. note 104 ss.

(124) Menant, Campagnes lombardes cit., pp. 522-523. (125) Bortolami, Monselice cit., p. 120.

(126) Zorzi, L’ordinamento cit., pp. 65 ss.; per un inquadramento in una prospettiva più ampia si vedano Castagnetti, La Marca cit., pp. 120-124; Varanini, Istituzioni, società cit., pp. 344-351.

(127) A. I. Pini, Dal comune città-stato al comune ente amministrativo, in G. Galasso (a cura di), Storia d’Italia, IV, Torino, 1981, pp. 490-493; G. Chittolini, Signorie rurali e feudi alla fine del medioevo, ibidem, pp. 603- 605.

(128) Gloria, Statuti cit., pp. 105-107, XXVIII: «De potestatibus villis dandis». Cfr. Sambin, Aspetti cit., pp. 4-5, che accenna anche all’intervento del comune urbano per contenere l’espansione dei comuni rurali.

carico delle comunità rurali: sono nominati espressamente fra i villaggi della Saccisica anzitutto Piove, poi Corte e Campolongo Maggiore (129); un’altra norma prevedeva la presenza continua di due podestà in Piove, eguagliata in questo solo da Monselice (130), diversamente degli altri villaggi, ai quali veniva inviato un solo podestà (131).

Le forme di amministrazione della giustizia ad opera del co- mune cittadino e dei suoi magistrati, allontanandosi da quelle tra- dizionali del placito (132), incisero fortemente sulla struttura so- ciale delle popolazione rurale: il placitum generale, sottoposto alla giurisdizione superiore del comune cittadino, perse progres- sivamente il suo valore di segno tangibile della detenzione e dell’esercizio del potere e alla fine scomparve; con la sua deca- denza o scomparsa vengono meno anche le forme tradizionali pubbliche, ove erano persistite, di amministrazione della giusti- zia; non si parla più di placita generalia e di obblighi di ospitali- tà, ai quali erano legati soprattutto gli arimanni, [139] in quanto liberi e in quanto non inseriti in rapporti vassallatici; e, per con- verso, l’esenzione dal placito era uno dei privilegi che caratteriz- zava la condizione dei vassalli.

Il processo delineato è coevo a quello generale della crisi del- la signoria rurale (133), che si avverte anche nel territorio pado- vano, sia pure in modi e tempi più rallentati rispetto ad altre zone, ad esempio rispetto a quello che avviene nel territorio veronese, cui abbiamo testé accennato. Forse anche per questo, il comune padovano all’inizio del Duecento avviò una politica antimagnati- zia, che avrebbe dovuto portare a risultati più decisivi (134).

(129) Gloria, Statuti cit., n. 331. (130) Ibidem, n. 332.

(131) Si vedano anche le disposizioni impartite ai comuni rurali per quanto riguardava il mantenimento dei ponti (ibidem, nn. 1040-1042) e de- gli argini dei fiumi (ibidem, n. 993).

(132) Padoa Schioppa, Aspetti cit., pp. 503 ss.; per il pieno periodo co- munale si veda Pini, Dal comune cit., pp. 529-532.

(133) Chittolini, Signorie rurali cit., pp. 605-610 e passim; Menant, Campagnes lombardes cit., pp. 481-482.

La scelta del comune di Piove di eleggere a podestà Marsilio di Gualperto, senza ottenere il consenso preventivo del vescovo, provocò, inevitabilmente, la reazione del secondo. Non si trattava solo di reagire ad una scelta autonoma, che eliminava radical- mente il diritto del vescovo di nominare gli ufficiali locali o, al- meno, di approvarne e ratificarne l’elezione, diritto ancora eserci- tato un decennio prima, come mostra l’atto dell’anno 1223, tutta- via presto contestato, secondo la denuncia vescovile ai legati a- postolici, ma di minare più a fondo la signoria vescovile, desi- gnando quale podestà un cittadino padovano. Ancora, si passava da un regime comunale consolare, per adoperare le espressioni usate solitamente per i comuni cittadini, ad un regime podestarile, assai più efficace non solo e non tanto perché eliminava gli in- convenienti di funzionamento connessi alla collegialità, ma, so- prattutto, perché esso era affidato ad un personaggio politicamen- te rilevante. Il fine eventuale di una maggiore funzionalità ammi- nistrativa, invero, era solo apparente, considerato il momento po- litico tanto difficile, come subito constatiamo: il nuovo podestà si sarebbe occupato di ben altro che dell’amministrazione di un co- mune rurale, sia pure fra i maggiori del contado padovano.

[140] Gli scopi del comune di Piove, oltre che rispondere alle direttive dallo stesso comune cittadino, erano probabilmente più complessi. La designazione a podestà locale di un cittadino pa- dovano non va scissa dalla scelta concreta.

Marsilio era figlio di Gualperto, figlio a sua volta del visdo- mino Tanselgardino e fratello del visdomino Forzaté. Gualperto era stato attivamente interessato al distretto della Saccisica, ove possedeva beni in allodio e ove aveva concesso, con i suoi fami- liari, beni in feudo (135). La posizione politica di Marsilio era certamente elevata: lo conferma il fatto che proprio fra gli anni 1236 e 1237 venne eletto fra i sedici potestates designati a regge- re il comune cittadino di fronte al pericolo rappresentato dalla politica di Federico II e di Ezzelino III (136).

(135) Cfr. sopra, nota 73 di cap. IV.

(136) Si veda l’elenco dei sedici potestates, con alcuni cenni sulle loro famiglie, in Castagnetti, Famiglie di governo cit., p. 237.

Se si voleva un ufficiale che potesse, all’occorrenza, difende- re validamente le ragioni del comune locale, in altre parole un protettore politico, la scelta fu indubbiamente accorta: essa face- va sperare in una difesa efficace degli interessi della comunità locale. Uno degli obiettivi, in quel momento, consisteva nel sot- trarsi alla soggezione signorile del vescovo per porsi sotto la giu- risdizione diretta del comune cittadino, il quale, di fatto, già con- trollava il contado da lungo tempo. La giurisdizione del comune avrebbe comportato l’eliminazione della duplicazione di assol- vimento di gravami e di obblighi, una meta che per le comunità rurali si configurava come il conseguimento o un accrescimento di autonomia e di ‘libertà’, un processo che riflette quello genera- le in atto nei contadi comunali (137).

Non conosciamo le vicende successive. La situazione genera- le divenne particolarmente difficile per il comune padovano, con la resa [141] alle forze di Federico II e di Ezzelino III; il lungo e sempre più dispotico dominio ezzeliniano (138) lasciò poco spa- zio all’evoluzione normale delle situazioni locali, compresi i rap- porti fra città e contado. Ciò non toglie che indagini sistematiche della documentazione inedita possano svelarci dati ed aspetti ul- teriori.

Sottoposto ormai ad un controllo diretto dai magistrati inviati dalla città, il comune rurale (139) si venne a trasformare sempre più da un organo di rappresentanza della comunità locale, con capacità, sia pure limitata, di esprimere una propria volontà di azione, amministrativa e a volte anche politica – il che pure era potuto accadere in certe zone padane fra XII e XIII secolo, nel momento della liberazione dalla soggezione signorile –, in uno

(137) Pini, Dal comune cit., p. 484; Chittolini, Signorie rurali cit., pp. 611-612; Menant, Campagnes lombardes cit., p. 558; Castagnetti, Arimanni in ‘Langobardia’ cit., p. 236.

(138) Per le vicende di Padova nel periodo ezzeliniano si veda S. Borto- lami, ‘Honor civitatis’. Società comunale ed esperienze di governo signorile nella Padova ezzeliniana, in Cracco, Nuovi studi ezzeliniani cit., I, pp. 179 ss.; per un inquadramento in una prospettiva più ampia, Castagnetti, La Marca cit., pp. 77-81, ed ora Varanini, Istituzioni, società cit., pp. 315-332.

strumento al servizio del comune cittadino allo scopo di garantire il gettito tributario, il mantenimento e l’esecuzione delle opere pubbliche, la partecipazione all’esercito (140), nonché la sicurez- za della proprietà dei cittadini. A questi obblighi si [142] aggiun- se anche quello di fornire le derrate alimentari e le materie prime indispensabili alla sussistenza della popolazione urbana e allo sviluppo della sua economia: ne derivò la comparsa dei provve- dimenti diretti ad assicurare alla città il controllo delle derrate alimentari, che sfoceranno nella seconda metà del secolo XIII in una organica politica annonaria (141).

(140) In alcuni atti processuali dell’anno 1211 concernenti il villaggio di Gorgo, per sottolinearne l’autonomia dal vicino più grosso ed antico vil- laggio di Bovolenta, fra altri aspetti, viene specificato che gli abitanti di Gorgo “fanno” alla città di Padova hostes et publica et dathiam: Destro, Dominio politico cit., app., nn. 34 e 35, 1211 agosto 5. Valga un confronto significativo perché concernente un villaggio abitato da persone in preva- lenza già di condizione servile. Nell’ottavo decennio del secolo XII il co- mune veronese aveva imposto sugli abitanti della curia di Parona, che erano in larghissima maggioranza di condizione servile e costituivano la macinata Sancti Zenonis (torneremo sulle vicende sotto, par. 9.4.), alcuni essenziali obblighi pubblici, senza distinzione, a quanto pare, tra liberi e famuli, se non quella costituita dall’entità del possesso: «facere publicum et exercitum» e «solvere dathias comunis civitatis»: Castagnetti, La Valpolicella cit., pp. 103-104.

PARTE II