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I primi accordi per lo sfruttamento dei beni comuni (1079-1080)

CAP III SIGNORIA VESCOVILE E COMUNITÀ RURALI TRA XI E XII SECOLO

3.2. I primi accordi per lo sfruttamento dei beni comuni (1079-1080)

Il vescovo Odelrico, allontanate, almeno per il momento, e- ventuali difficoltà politiche e minacce di ostilità violenta da parte dei sostenitori dell’Impero, prima di intraprendere il viaggio ver- so Roma, nel corso del quale scomparve (24), si recò, alla fine dell’anno 1079, nella [63] Saccisica, con largo seguito di signori, di giudici e di clienti, in genere. Egli si propose di regolare i rap- porti con la popolazione locale, con quegli uomini liberi o ari- manni che tanta intraprendenza avevano mostrato due decenni prima, giungendo ad ottenere soddisfazione, almeno parziale, alle loro pretese dall’imperatore stesso, e che d’ora in poi dovevano trattare solo con il vescovo.

Un primo motivo di controversia era il riconoscimento dei di- ritti di proprietà della chiesa vescovile su ampie zone, probabil- mente in larga parte incolte e poco abitate, eccentriche nel distret- to rispetto a quelle gravitanti sui due centri di Piove e Corte: il primo, che appare il più antico, era favorito dall’essere sede della chiesa plebana e del castello, con una popolazione attiva anche

(22) Castagnetti, Le città cit., pp. 66-73.

(23) G. B. Borino, Odelrico vescovo di Padova (1064-1080) legato di Gregorio VII in Germania (1079), in Miscellanea in onore di R. Cessi, I, Roma, 1958, pp. 63-79, a pp. 73-76.

nel commercio; l’altro era stato, probabilmente, e sarà ancora il centro amministrativo dell’antica curtis regia, come appare dai documenti che ora consideriamo; gli stessi documenti mostrano che verso i due centri già gravitavano la maggior parte dei villag- gi della Saccisica, fino a che, nella seconda metà del secolo XII, si formeranno due distretti facenti capo a Piove e a Corte (25).

Il motivo principale sembra, invero, consistere nelle modalità di sfruttamento delle aree incolte, di quelle aree, cioè, che siamo soliti definire beni comuni. Enrico IV con il privilegio dell’anno 1079 aveva donato il tributo di sette lire alla chiesa vescovile, rinunciando probabilmente anche alle decimae che, ricordate nel privilegio dell’anno 1055, non vengono più menzionate. Secondo l’ipotesi prospettata più avanti (26), le decimae sarebbero state corrisposte dagli abitanti per lo sfruttamento delle terre incolte, come effettivamente altre comunità avevano nel passato pagato tributi, a volte condonati, per avere la disponibilità di silvae regie od anche di silvae in proprietà a signori, anch’esse, in genere, però, di origine fiscale. In questo caso l’abbandono completo dei diritti regi sulla Saccisica a favore della signoria vescovile avreb- be comportato anche la cessione dei rimanenti [64] beni fiscali, come le terre incolte spettanti al fisco regio e sfruttate, per con- cessione tradizionale, dagli abitanti dei villaggi ivi compresi o dei villaggi vicini, terre e diritti che un secolo dopo saranno definiti

regalia (27).

Tra il vescovo e le comunità della Saccisica dovette svolgersi una trattativa complessa e laboriosa, della quale sono rimasti gli atti finali.

Nel primo documento, rogato in villa Plebe (28), appare un folto numero di abitanti della Saccisica, fra i quali possiamo no-

(25) Cfr. sotto, par. 5.1.2.

(26) Cfr. sotto, t. c. note 15-20 di cap. VI.

(27) I beni comuni, posti sotto la giurisdizione signorile e sfruttati dagli arimanni (Pernumia) o dalla comunità locale (Este), sono definiti regalia: Castagnetti, Arimanni in ‘Langobardia’ cit., rispettivamente pp. 91-92 e p. 96.

tare numerosi ecclesiastici – preti, diaconi, accoliti – e un notaio, Ingezo: la maggior parte è dichiarata di legge longobarda; di leg- ge romana alcuni pochi, fra cui il notaio, e gli ecclesiastici. Tutti insieme donano alla chiesa vescovile un appezzamento in loco

effundo Cavaliulo, probabilmente assai esteso, che va dalla via

Curtisiana – la via, quindi, che dal centro plebano si dirige verso

Corte – al fiume Cornio. Redige la cartula offersionis il notaio Gumperto (29).

La donazione viene ripetuta con il secondo atto, redatto dal medesimo notaio, nello stesso giorno e luogo (30). Si aggiunge, alla descrizione dei confini, l’elenco delle villae, ivi comprese – S. Angelo, Celeseo, Saonara, Legnaro –, e dei loro territori fino al fiume Brenta, che delimita qui la parte occidentale della Sacci- sica, come ne delimita [65] la parte meridionale, a sud di Piove (31). Tutti gli uomini si impegnano a rispettare i diritti vescovili,

(29) Il notaio Gumperto è redattore, oltre che dei documenti di cui stia- mo trattando (CDP, I, nn. 261 a, b, c, e 262), di altri documenti posteriori di pochi anni, quasi sempre al servizio della chiesa vescovile: n. 287, 1085 maggio 29, Padova: un atto del vescovo Milone; n. 291, 1086 marzo 10, Padova: una vendita fra privati di un appezzamento in Padova; n. 293, 1087 aprile 5, castello di Celsano o Sossano: donazione dei de Celsano al mona- stero di S. Pietro di Padova; n. 295, 1088 settembre 8: donazione del vesco- vo Milone al medesimo monastero.

(30) CDP, I, n. 261 b, 1079 dicembre 30, Piove.

(31) Per i corsi dei fiumi Brenta e Retrone-Bacchiglione si vedano A. Gloria, L’agro patavino dai tempi romani alla pace di Costanza (25 giugno 1183), «Atti dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti», ser. V, VII (1881), pp. 609 ss. e pp. 622 ss., con la cartina storico-geografica annessa, sulla quale è stata impostata anche la nostra cartina in appendice, e P. Pin- ton, Idrografia e toponomastica dell’antica Saccisica, «Bollettino della So- cietà geografica italiana», XXXI (1894), pp. 556-570, 887-914, a pp. 560 ss. e a pp. 563 ss. Senza pretendere di addentrarci nella difficile questione del corso dei fiumi nel medioevo fino all’età comunale, ci limitiamo a segnala- re, per conferma del tracciato del corso del Brenta, come è stato delineato dal Gloria e da noi accettato, due documenti tra XII e XIII secolo, i quali mostrano come il corso del Brenta, a sud della Saccisica, lasciasse Codevigo sulla sua sinistra, Calcinara e Castel di Brenta sulla sua destra. Nel primo (CDP, III, n. 990, 1170 aprile, Chioggia) una fossa, Arzer Gastaldio, che divide il territorio di Chioggia da quello padovano, viene situata «ultra Brentam contra Calcinariam», quindi a fronte di Calcinara, che si trova a

a non agire, cioè, in giudizio contro la chiesa vescovile, pena il pagamento individuale di un’ammenda del valore elevato di venti lire in denari veronesi. A sancire l’atto, che ora viene definito propriamente quale cartula promissionis, ricevono il launechild dal vescovo, secondo la consuetudine longobarda per cui il bene- ficato deve a sua volta donare un oggetto, solitamente [66] un capo di vestiario, al donatore (32). Ma il ricorso al launechild da parte del vescovo, che non era invero prescritto per le donazioni a chiese e monasteri (33), suggella in questo caso, secondo una pratica già attestata nei placiti dall’età carolingia (34), la volontà di mantenere fede all’accordo raggiunto, come si trattasse di una donazione da parte di chi rinuncia ad un diritto già preteso. Così si era comportato lo stesso vescovo Odelrico, quando, a seguito di una sentenza a lui sfavorevole, emessa in un placito concer- nente se stesso e il capitolo dei canonici (35), aveva dichiarato con atto proprio all’arcidiacono e agli altri canonici di rinunciare ai diritti già pretesi, ricevendo appunto da loro il launechild (36). sud del Brenta; nel secondo (M. P. Benasaglio, Per la continuazione del Codice diplomatico padovano. Edizione di 100 documenti dal 1183 al 1225, tesi di laurea, Istituto di Storia medioevale e moderna, Università degli studi di Padova, a. acc. 1974-1975, II, n. 14, 1187 settembre 12, Padova, in domo episcopi), il vescovo, decidendo una controversia per la riscossione di deci- me, afferma che la cappella di S. Zaccaria di Codevigo ha diritto ad una metà del quartisium novalium (sui novalia si veda sotto, par. 7.3.) per terre- ni che sono situati nel territorio di Sacco presso il Castellum de Brenta, Ca- stel di Brenta, ora Brenta dell’Abbà, nella zona presso l’alveo del ‘fiume vecchio’, quindi del corso vecchio del Brenta: «in angulo inter alveum flu- minis veteris et fossatum navigii Paduanorum»; la motivazione, con la quale si giustifica l’assegnazione del diritto alla cappella, consiste nella constata- zione che le terre contese, pur essendo inserite nella circoscrizione della pieve di Piove, sono situate più vicine a Codevigo che a Piove: «... quod ipsa novalia sunt in plebatu Plebis et sunt proximiora Capitivici quam Plebi sic sunt ...».

(32) Edictus Rothari, in Bluhme, Edictus cit., cap. 175. Cfr. F. Calasso, Il negozio giuridico, Milano, II ed., 1967, p. 163-164.

(33) Liutprandi leges cit., cap. 73.

(34) Ad esempio, Manaresi, I placiti cit, I, n. 21, 807 febbraio 22, Rieti; n. 28, 814 febbraio, Spoleto; ecc.

(35) Ibidem, III/1, 1077 marzo 14, Verona. (36) CDP, I, n. 240, 1077 marzo 14, Verona.

Pochi giorni appresso, il 9 gennaio del seguente anno 1080 (37), di fronte al vescovo, che risiedeva in una sua casa solariata in Piove con largo seguito di giudici e signori del territorio pado- vano (38), si presentano nove persone, fra cui il gastaldo Leone (39), in rappresentanza dei vicini e consortes, che abitano nel mi-

nisterium Curtis ovvero di Corte, località che, come abbiamo

supposto, derivava probabilmente [67] il nome dall’antica curtis fiscale, i cui abitanti risultano ancora legati ad una condizione curtense, ministerium, che comportava certamente obblighi perti- nenti (40). Essi ottengono dal vescovo l’obbligazione che i suoi uomini, abitanti nelle località oggetto della precedente donazio- ne, non avrebbero esercitato verso la parte orientale, quindi lungo il fiume Cornio, ad est, o forse meglio a sud-est, verso Corte e il territorio posto sopra di essa, i diritti di raccolta della legna, ca-

pulum, e di pascolo, pasculum. Ancora, i consortes non avrebbe-

ro pagato pedaggio fluviale, transitura, su persone e beni al ve- scovo o ai suoi missi, se non di propria volontà. Essi avrebbero mantenuto, come era avvenuto per consuetudine da lungo tempo, la facoltà di raccogliere legna, pascolare e cacciare in ogni luogo nel territorio di Sacco e delle sue pertinentiae, fino al mare, senza alcun impedimento da parte del vescovo o di altri uomini: il rife- rimento, probabilmente, è agli abitanti di tutti i centri della Sacci- sica, compresi quelli di Piove e altri ivi gravitanti, come vedremo

(37) CDP, I, n. 262, 1080 gennaio 9, Piove. Il documento è conservato in una copia dell’anno 1212, fatta eseguire da un giudice del podestà citta- dino, probabilmente in relazione alle controversie sorte in quel periodo, co- me vedremo, fra chiesa vescovile e abitanti della Saccisica: cfr. sotto, capp. VII e XIII.

(38) Cfr. sotto, t. c. note 21-25 di cap. X.

(39) Il nome è diffuso nella Saccisica: un Leone gastaldo è presente in Piove fin dall’inizio del secolo (CDP, I, n. 91, 1010 agosto). Il nostro ga- staldo va identificato con un Leone gastaldo che, stando in Corte, aquista pochi anni prima un appezzamento con viti nella villa di Campo de Siplone: n. 253, 1078 dicembre 11.

(40) Cfr. sotto, par. 3.5., per la sopravvivenza alcuni decenni più tardi di prestazioni da parte dei coltivatori delle terre nella Saccisica verso i ministe- ria vescovili.

più avanti. Questi diritti spettano a loro come spettano a tutti quelli che godono dei pieni diritti nell’ambito della comunità lo- cale: «... ut boni homines et legitimi ... habeant et possideant hoc modo». Quindi il vescovo riceve una crosna per launechild, il che indica che l’atto viene considerato quale la conclusione com- promissoria di una controversia, come se il vescovo facesse una donazione ai consortes, in questo caso di diritti; si impegna, infi- ne, a rispettare i patti sotto la pena di cento lire d’oro.

L’atto dei vicini e consortes di Corte, con a capo il loro ga- staldo, è dettato dalla preoccupazione che la ‘donazione’ del grande appezzamento a nord-ovest del territorio, ovvero l’accordo raggiunto tra vescovo ed uomini della Saccisica in una zona che confina con i territori di Corte e dei villaggi vicini, po- tesse danneggiare i loro interessi connessi allo sfruttamento delle terre incolte (41): mentre [68] riconoscono, pertanto, il diritto agli uomini del vescovo, abitanti nella zona ad ovest e a nord- ovest, di potere esercitare tali attività sulle terre ad oriente solo con il loro consenso, ottengono il riconoscimento dei propri dirit- ti consuetudinari ad esercitare attività analoghe su tutto il territo- rio della Saccisica.

Le trattative fra chiesa vescovile ed abitanti della Saccisica riprendono sei giorni più tardi (42). Questa volta sembrano coin- volti sia i consorti dei due atti del 30 dicembre 1079, sia quelli dell’atto del 9 gennaio (43).

(41) Sull’importanza e sul ruolo degli spazi incolti nell’alto medioevo si veda Montanari, L’alimentazione cit., pp. 82 ss.

(42) CDP, I, n. 261c, 1080 gennaio 15. senza luogo, probabilmente in Piove.

(43) Rinunciamo ad elencare puntualmente i riscontri effettuati, invero non numerosi: tralasciando le omonimie dei nomi propri senza specificazio- ne ulteriore, ci limitiamo a segnalare per il primo gruppo Giovanni di Gero- nimo, Giovanni di Ato, Vitale di Bonello, il notaio Ingezo, in questo docu- mento definito di Rosara (il suo interessamento per Rosara è ampiamente attestato), Martino di Maniverga, anch’egli di Rosara (CDP, I, n. 254, 1078 dicembre 12); per il secondo gruppo del 9 gennaio, assai meno numeroso, il gastaldo Leone e, probabilmente, Ardemanno (il nome non è altrimenti atte- stato in questo periodo), ai quali possiamo aggiungere Martino di Sicherio

L’avvocato della chiesa vescovile, Uberto, mostra i documen- ti precedenti, concernenti la donazione della terra – i documenti, dunque, del 30 dicembre 1079 –, chiedendo se vi erano alcuni che non ritenessero veritiero il loro contenuto; ottiene l’approvazione dei presenti e la dichiarazione che non avrebbero agito in giudizio contro la chiesa vescovile, sotto la pena di venti lire di denari veronesi per ciascuno. Gli abitanti ricevono dall’avvocato vescovile per questa loro promessa il launechild.

A questo punto apprendiamo che il vescovo aveva convocato una seduta giudiziaria, un placito, potremmo dire, anche se il termine non è impiegato, poiché egli sedeva in giudizio, «reside- bat in iudicio», assistito, «residentibus cum eo», da tre giudici e da due iurisprudentes, da tre notai, fra i quali Ingezo, il notaio già presente nel primo [69] atto (44), e da altre persone, fra le quali si trovavano alcuni abitanti della Saccisica: tali erano Balduino di Codevigo, Iustino, Maginardo. A nome del vescovo, l’avvocato pose il bandum ovvero il bannum del re (45), che comminava per i trasgressori una multa di duemila mancosi d’oro, metà alla ca- mera regia, metà all’episcopio e ad altre parti lese. Con ciò la causa finisce e viene redatta una noticia pro securitate, scritta dal notaio Gumperto per ordine, ex iussione, del vescovo e ammoni- zione dei giudici.

Le parti finali dell’atto ci mostrano, dunque, che i momenti della vicenda costituiscono momenti di una controversia, che si svolge, dapprima, in modi irrituali, per concludersi, alla fine (46), con il ricorso ad una procedura processuale ancora incerta. di Campolongo, villaggio compreso nell’area dell’antica curtis, e Leone di Campo Cepolone, località gravitante su Corte (cfr. sopra, nota 39).

(44) Doc. citato sopra, nota 28. Il notaio Ingizo o Ingezo va identificato con il notaio omonimo di Rosara: cfr. nota precedente.

(45) Sul bannum regis si veda G. Diurni, Le situazioni possessorie nel Medioevo. Età longobardo-franca, Milano, 1988, pp. 305-311; per il ban- num regis imposto dai marchesi e duchi di Canossa, M. G. Bertolini, I Ca- nossiani e la loro attività giurisdizionale con particolare riguardo alla To- scana, in P. Golinelli (a cura di), I poteri dei Canossa. Da Reggio Emilia all’Europa, Bologna, 1994, p. 199.

(46) CDP, I, p. 289: «Finita est causa et hac noticia pro securitate de suprascripto episcopato fieri ammonuerunt. Quidem et ego Gumbertus nota-

Un rapido raffronto con i placiti del periodo mostra l’analogia di comportamento con i maggiori ufficiali del Regno, marchesi e duchi, dinasti o meno che fossero nel frattempo divenuti, da quel- li che operarono nella Marca Veronese (47) a quelli che furono attivi nelle altre regioni del Regno Italico (48). Ma appare evi- dente anche [70] la difformità della redazione della notitia, ter- mine tecnico impiegato più frequentemente di quello di placitus o placitum. Per motivazioni varie, che in larga parte ci sfuggono, ma forse anche perché si trattava della prima seduta ufficiale, pubblica e solenne, che tendeva a riallacciarsi alle forme della tradizione pubblica di amministrazione della giustizia, risalente al processo franco-longobardo di età carolingia (49), la redazione della notitia è effettuata in modi contratti e carenti, mentre nel secolo seguente si presenterà più completa, frutto, probabilmente, di una conoscenza giuridica più approfondita (50).