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LE MUTILAZIONI GENITALI (A SCOPO NON TERAPEUTICO)

2. Le mutilazioni genitali femminili

2.5. Profili giurisprudenzial

Ad oggi ci è noto un solo caso in relazione al quale i giudici italiani si sono dovuti confrontare con l’applicazione del nuovo reato previsto dall’art. 583 bis.

Si tratta per l’esattezza di due casi distinti, ma legati dal vincolo della continuazione e accomunati a livello fattuale da caratteristiche simili. La vicenda in primo grado è stata decisa con la sentenza di condanna del Tribunale di Verona del 14 aprile 2010.

Entrambi gli episodi vedono come imputati: la cittadina nigeriana Obaseki, accusata di aver effettuato pratiche riconducibili alla fattispecie di cui al comma 2 dell’art. 583 bis su bambine di età inferiore ad 1 anno; la madre della minore X nata da due mesi al momento del fatto; il padre della minore Y nata da due settimane al momento del fatto. Tutti gli imputati sono cittadini nigeriani appartenenti all’etnia degli Edo-bini, presso la quale risulta essere diffusa la c.d. aruè, una pratica consistente in una incisione superficiale del clitoride.

E’ infatti proprio questa la pratica che i genitori avevano richiesto che la Obaseki effettuasse sulle bambine. In entrambi i casi erano state le intercettazioni telefoniche a portare a conoscenza degli inquirenti gli accordi per effettuare gli interventi al prezzo concordato di 300 euro.

Nel primo episodio gli inquirenti venivano inoltre a conoscenza, tramite intercettazione telefonica, della ormai avvenuta operazione. Veniva quindi effettuata da parte dei consulenti tecnici nominati dal PM una visita,

all’esito della quale si attestava la presenza di una minuta cicatrice lineare della lunghezza di 4 mm e a decorso lungitodinale sulla faccia antero- superiore del clitoride della bambina. Si riscontrava una lesione agli organi genitali da cui era derivata una malattia, ma non anche, non essendovi riscontro in tal senso, un indebolimento permanente della sensibilità clitoridea, in quanto non era stato possibile stabilire la profondità della lesione.

Il fatto viene ritenuto pacifico nella sua materialità, perché risulta sia dal contenuto delle intercettazioni, sia dagli accertamenti tecnici effettuati, sia dalle dichiarazioni della stessa imputata. Inoltre, data l’assenza di esigenze terapeutiche e la ritenuta presenza del fine di menomare le funzioni sessuali, il fatto rientra nella fattispecie di lesioni agli organi genitali femminili (art. 583 bis, comma 2).

Nel secondo episodio, attraverso le intercettazioni, gli inquirenti venivano a conoscenza anche del giorno in cui la Obaseki si sarebbe recata presso l’abitazione della minore per compiere l’intervento. Venivano quindi predisposti dei servizi di appostamento presso l’abitazione e nel momento in cui la donna suonava il campanello intervenivano gli agenti e bloccavano la donna, trovata in possesso di una borsa contenente gli attrezzi per eseguire la aruè.

Esclusa la configurabilità del reato consumato, la questione verte sulla configurabilità della fattispecie tentata.

La difesa eccepisce, richiamando sia la giurisprudenza costituzionale, sia quella di legittimità, che gli atti posti in essere sarebbero meri atti preparatori non punibili, in quanto per “atti idonei” potrebbero intendersi solo gli atti esecutivi.

Il giudice respinge tale argomento difensivo osservando che il delitto tentato non prevede una distinzione tra atti preparatori ed esecutivi e non richiede che l’azione esecutiva sia già iniziata; richiama dunque una pronuncia della Cassazione, che aveva affermato che «anche gli atti preparatori possono integrare gli estremi del tentativo allorché essi rivelino, sulla base di una valutazione ex ante e indipendentemente dall’insuccesso determinato da

fattori estranei, l’adeguatezza causale nella sequenza operativa che conduce alla consumazione del delitto e l’attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto al bene protetto, dimostrando contemporaneamente l’intenzione dell’agente di commettere il delitto144». La difesa aveva inoltre sostenuto che la predisposizione delle forze di polizia escluderebbe in modo assoluto la messa in pericolo del bene protetto e quindi l’idoneità dell’azione. Il giudice osserva invece come la predisposizione della forza di polizia possa avere rilevanza solo ammettendo la rilevanza di un giudizio ex post nella figura del reato impossibile ex art. 49, comma 2; tuttavia la Cassazione ha più volte affermato che l’idoneità dell’azione, per aversi reato impossibile, deve essere valutata con un giudizio ex ante e deve essere assoluta: l’azione è inidonea se assolutamente inadeguata in sé e per sé, «indipendentemente da ogni fattore estraneo che in concreto abbia impedito la lesione dell’interesse giuridico protetto145». Di conseguenza il dispositivo delle forze di polizia non vale di per sé ad escludere l’idoneità dell’azione.

Il Tribunale conclude quindi che l’azione era idonea e ha concretamente messo in pericolo il bene protetto, per cui è configurata la fattispecie di delitto tentato.

Le due vicende si incentrano inoltre su altre due importanti questioni. Quanto al primo episodio, si pone la questione circa l’insussistenza dell’elemento soggettivo del reato per mancanza del dolo specifico, cioè del “fine di menomare le funzioni sessuali”, espressamente richiesto dall’art. 583 bis comma 2.

La norma non richiede che l’azione abbia cagionato una menomazione delle funzioni sessuali, ma solo che l’agente abbia cagionato le lesioni con l’intenzione e il fine di menomare le funzioni sessuali.

Nella sentenza si ricostruisce brevemente la ratio della norma incriminatrice che è quella di scoraggiare le pratiche di Mgf che, tra i vari significati socio-                                                                                                                

144  Cass. Pen. Sez. VI, 20 maggio 2008, n. 27323. 145  Cass. Pen. Sez. VI, 6 giugno 2008, n. 3699.

culturali, comprendono anche la finalità di controllare la sessualità femminile.

A questo proposito la difesa aveva fatto sentire dei testi qualificati che avevano spiegato che nel gruppo etnico degli Edo-bini la pratica non è finalizzata a compromettere le funzioni genitali femminili, ma è un rito di passaggio necessario affinché l’individuo sia riconosciuto dal proprio gruppo.

Tuttavia il giudice ritiene configurabile, sia pur solo a livello simbolico, anche la funzione di controllo della sessualità, come si evince dall’ammissione degli stessi imputati durante l’interrogatorio146 e come si desume dal fatto che l’incisione è effettuata proprio sulla parte della donna di maggiore sensibilità sessuale.

Il giudice esclude poi che si possa invocare una causa di esclusione dell’elemento soggettivo sulla base del fatto che la condotta è stata posta in essere in forza della necessità di adeguarsi alle proprie tradizioni culturali, poiché una simile interpretazione finirebbe con lo svuotare il senso della norma, introdotta nell’ordinamento proprio per scoraggiare pratiche confliggenti con i diritti della persona. Si conclude quindi che nei reati culturalmente motivati «il fatto di realizzare la condotta obbedendo ad una propria tradizione culturale, non accettabile alla luce dei valori e dei principi del nostro ordinamento, lungi dal costituire una scriminante costituisce proprio la ragione della incriminazione e della punizione».

Inoltre il fatto che gli imputati abbiano agito non per fare del male ai propri figli, ma per un atto d’amore volto a impedire la loro emarginazione dal gruppo di appartenenza, non vale ad escludere la sussistenza del dolo, che                                                                                                                

146  La madre della bambina aveva detto che «in Nigeria si fa così perché le donne

devono accontentare il loro uomo e inoltre non devono desiderarne altri, e che coloro le quali non si sottopongono all’intervento non si possono sposare e inoltre vengono considerate sporche».

Il padre dell’altra bambina aveva affermato che senza subire la pratica la donna «prova un desiderio sessuale anche eccessivo che può portarla a desiderare altri uomini oltre al proprio» e che «chi non l’avesse subita in tenera età sarebbe comunque obbligata a sottopor visi prima del matrimonio».

non va confuso con i motivi dell’agire, che restano al di fuori del reato. Come si vedrà in seguito, è sul piano della commisurazione che i giudici hanno valorizzato la motivazione culturale delle condotte.

La seconda questione, relativa al secondo episodio, riguarda l’ignoranza inescusabile della legge penale.

I difensori avevano rilevato che la nuova fattispecie era stata introdotta agli inizi del gennaio 2006 e che i fatti erano stati commessi nel marzo 2006, dopo poco tempo dall’entrata in vigore della legge. Inoltre nonostante la legge avesse previsto delle campagne informative rivolte agli stranieri, era stato provato dalla difesa che nessuna campagna era stata effettuata a Verona. Gli imputati avevano poi sostenuto di non sapere che quella pratica, del tutto normale nel loro paese, fosse vietata in Italia.

Il giudice afferma però che per escludere l’elemento soggettivo non è sufficiente la mera non conoscenza della legge, ma è richiesto «un fattore positivo esterno che abbia indotto il soggetto in errore incolpevole»; inoltre non sussiste ignoranza inevitabile se il soggetto non ha adempiuto con diligenza al dovere di informazione per conoscere la legge vigente.

La mancata adozione di campagne informative non può aver rilievo, in quanto rivolta esclusivamente agli immigrati all’arrivo alla frontiera e non agli stranieri che vivono ormai da tempo in Italia.

Un’ultima questione riguarda il capo relativo al reato di cui all’art. 348 c.p.

La Obaseki viene riconosciuta colpevole di tale reato per aver esercitato abusivamente la professione medica, poiché l’intervento in questione viene considerato pacificamente atto chirurgico.

Tutti i reati contestati alla Obaseki vengono considerati avvinti dal vincolo della continuazione; concessa l’attenuante speciale della lesione di lieve entità prevista dall’art. 583 bis, comma 2, ritenuta prevalente sulle aggravanti di cui al comma 3 e considerate altresì le motivazioni culturali che hanno spinto gli imputati ad agire, le pene irrogate dal Tribunale sono piuttosto miti.

la madre della bambina X viene condannata a 8 mesi di reclusone e il padre della bambina Y a 4 mesi di reclusione. Per entrambi i genitori, oltre all’attenuante di lieve entità, sono riconosciute anche le attenuanti generiche prevalenti sull’aggravante del comma 3 dell’art. 583, stante l’incensuratezza, le ragioni culturali della condotta e il buon comportamento processuale.

Tutti gli imputati beneficiano della sospensione condizionale della pena e della non menzione.

Tale esito processuale viene ribaltato dalla sentenza della Corte d’Appello di Venezia 23 novembre 2012 (dep. 21 febbraio 2013), n. 1485147. La madre della minore X e il padre della minore Y presentano ciascuno tre motivi di appello, di cui due motivi comuni (insussistenza del dolo specifico e ricorrenza di un’ignoranza inevitabile) e uno diverso: la madre sostiene che non vi sia “malattia”, il padre che non sia configurabile il tentativo. Entrambi i motivi vengono respinti dalla Corte d’Appello per le stesse ragioni evidenziate dalla sentenza di primo grado.

Quanto al motivo concernente il dolo specifico, questo viene accolto dalla Corte proprio in ragione delle motivazioni culturali che sostengono la tradizione della aruè presso gli Edo-bini.

Il giudice di primo grado aveva ritenuto che i genitori avessero sottoposto le figlie alla pratica per perseguire la finalità di menomare le funzioni sessuali, sia pur “a livello simbolico”.

Secondo il giudice di appello l’assenza di una tale finalità emergerebbe invece dalle deposizioni dei testi qualificati che avevano illustrato le motivazioni per cui gli Edo-bini sottopongono le figlie ad aruè, quali la finalità di soddisfare una “funzione di umanizzazione” (riconoscimento di un individuo all’interno della comunità degli umani), una “funzione identitaria” ( riconoscere l’appartenenza alla comunità degli Edo-bini) e una                                                                                                                

147  Per un commento, v. Basile, Il reato di “pratiche di mutilazione degli organi

genitali femminili” alla prova della giurisprudenza: un commento alla prima (e finora unica) applicazione giurisprudenziale dell’art. 583 bis c.p., in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 24/2013.

“funzione di purificazione”.

Il giudice di primo grado sarebbe incorso in un errore nell’accertare il dolo specifico, in quanto ha attribuito «valori simbolici allo scopo dell’azione che sono propri della rappresentazione dell’interprete e non dell’agente». In secondo luogo il dolo specifico non sussiste in quanto «nessun riferimento all’aver agito allo scopo di menomare le funzioni sessuali è desumibile (…) dalla natura dell’intervento richiesto e concordato, assolutamente inidoneo, per la sua consistenza, a palesare una intenzione in tal senso».

Secondo la Corte infatti nei reati a dolo specifico la finalità perseguita dal soggetto non deve appartenere solo al mondo delle “cattive intenzioni”, ma deve essere perseguita attraverso atti concretamente idonei; diversamente il reato a dolo specifico sarebbe uno «strumento per punire una mera volontà anche quando questa non si sia materializzata in atti capaci di minacciare il bene giuridico148».

La Corte, escludendo la sussistenza del dolo specifico, assolve gli imputati perché il fatto non costituisce reato.

Sul secondo motivo d’appello comune ad entrambi gli imputati, l’ignorantia legis, la Corte decide di non soffermarsi, poiché esso è già assorbito nella formula assolutoria.

E’ però interessante analizzare le argomentazioni della difesa a riguardo; oltre a quelle già proposte in primo grado, la difesa risponde alla sentenza di condanna ricordando un precedente della Cassazione in cui si afferma che

«il fondamento costituzionale della “scusa” della inevitabile ignoranza della legge penale vale prima di tutto per chi versa in condizioni soggettive di sicura inferiorità; l’ipotesi di un soggetto sano e maturo di mente che commetta fatti criminosi ignorandone la antigiuridicità è concepibile soltanto quando si tratti di reati che, sebbene presentino un generico disvalore sociale, non siano sempre e

                                                                                                               

148  Basile, Il reato di “pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili”,

dovunque previsti come illeciti penali (…).

In relazione a tali reati possono essere prospettate due ipotesi: quella in cui il soggetto si rappresenti effettivamente la possibilità che il suo fatto sia antigiuridico, e quella in cui tale possibilità non si rappresenti neppure (…). Nella seconda ipotesi è riservato al giudice il compito di una valutazione attenta delle ragioni per le quali l’agente, che ignora la legge penale, non si è neppure prospettato un dubbio sulla liceità del fatto e, se la assenza di simile dubbio risulti discendere – in via principale – da personale ed incolpevole mancanza di socializzazione dello stesso, la ignoranza della legge penale va, di regola, ritenuta inevitabile149».

Considerati altri precedenti in materia di reati culturalmente motivati150 in cui era stato escluso il dolo perché ritenuta sussistente l’ignoranza inevitabile, e applicate le motivazioni ivi espresse, secondo alcuni è probabile ritenere che anche nel caso di specie sarebbe stato possibile riconoscere l’ignoranza inevitabile nei confronti dei due genitori151.