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Di fronte alla impasse, dovuta all’inefficacia sia della pena sia dell’impunità, si è ipotizzata una legittimazione della scelta di tenere un atteggiamento meno rigoroso, facendo leva sul deficit cognitivo in ordine ai contenuti dei diritti da parte delle minoranze etniche presenti sul territorio; in mancanza di un impegno da parte dello Stato ad offrire la possibilità di conoscere il significato dei diritti, parrebbe invero più opportuna, limitatamente a fatti di lieve gravità, un’astensione dalla pena, che avrebbe il pregio di evitare un’esasperazione dei conflitti culturali298.

Il rischio di compromettere i beni giuridici irrinunciabili è superato tramite il bilanciamento tra il diritto alla cultura e gli altri diritti (v. § 1), che porta alla valorizzazione del primo purché non si scontri con i diritti fondamentali della vita, della salute, della libertà, dell’autodeterminazione sessuale ecc. Lo spazio di impunità riguarderà quindi fatti di limitata gravità, che non entrino in conflitto con gravi compromissioni dei diritti inviolabili, ma siano pur sempre espressione di un diverso orientamento socio-culturale299.

La difficoltà di delineare i confini di ciò che è “culturale” può essere superata adottando una nozione ristretta di reato culturalmente motivato e, precisamente, la nozione etnica che rapporta la condotta alla cultura non dell’individuo, ma del gruppo etnico di cui fa parte. Sarà necessaria la prova dell’esistenza del reato culturalmente motivato, che passa attraverso l’accertamento del motivo culturale che ha spinto il soggetto ad agire, della coincidenza di reazione, che prova la connessione tra il singolo e la sua cultura di riferimento, e infine della differenza rilevante tra la cultura dell’agente e quella del nostro sistema300.

Infine, l’argomento secondo cui la previsione di un trattamento                                                                                                                

298  De Francesco, Multiculturalismo, cit., p. 156 ss.   299 De Maglie, I reati culturalmente motivati, cit., p. 254.   300  De Maglie, Ivi, p. 253.  

favorevole per l’autore culturale determina una violazione del principio di uguaglianza sta in piedi a condizione che si faccia riferimento ad una concezione di eguaglianza strettamente formale, tale da non consentire in nessun caso trattamenti diversi in base al gruppo culturale di appartenenza. Un simile approccio trascura la dimensione sostanziale dell’uguaglianza, che non si fonda sulla negazione delle differenze, ma sul loro riconoscimento: un trattamento favorevole per l’autore culturale si porrebbe allora nell’ottica di una tutela rafforzata rispetto a situazioni che, se non fossero riconosciute nella loro diversità, subirebbero una discriminazione301.

Una volta individuata la soluzione nella categoria della non punibilità, resta da delineare in modo più chiaro la causa di non punibilità di cui è possibile avvalersi.

La non punibilità comprende infatti cause di estinzione del reato, ossia fatti indipendenti dal comportamento dell’agente successivi alla commissione del reato, cause sopravvenute di non punibilità, ossia comportamenti dell’agente successivi alla commissione del reato, e cause originarie di non punibilità, che consistono in situazioni che riguardano la posizione personale del soggetto attivo.

Parte della dottrina ha individuato proprio in queste ultime la risoluzione dei conflitti culturali302.

Le cause originarie di non punibilità sono costruite sullo status dell’autore. Un esempio è l’art. 649 c.p. che prevede la non punibilità per chi commetta delitti contro il patrimonio in danno di un familiare; la ratio della previsione risiede nella valutazione secondo cui l’applicazione della pena provocherebbe nella famiglia un turbamento e un danno maggiori di quelli che deriverebbero dalla mancata punizione del fatto.

Tali considerazioni sono utili nell’ambito dei reati culturalmente motivati. Anche in questo contesto il legislatore potrebbe decidere, per ragioni di opportunità, di lasciare uno spazio di impunità alle minoranze etniche in                                                                                                                

301  De Maglie, Ivi, p. 256 ss. 302  De Maglie, Ivi, p. 251 ss.  

modo da ridurre lo scontro tra culture minoritarie e cultura maggioritaria303. Si tratterebbe quindi di valorizzare il fattore culturale attraverso un intervento ad hoc, vista l’insufficienza delle categorie dogmatiche del reato e l’inopportunità di una loro forzatura. Una simile causa di non punibilità avrebbe un carattere pur sempre circoscritto, poiché concederebbe spazi di immunità solo in relazione a condotte qualificabili come “reati senza vittima” (o senza offesa ‘reale’), quali la bigamia, l’incesto, il gioco d’azzardo304; od, al più, anche a reati maggiormente afferrabili (si pensi alle

percosse o ai maltrattamenti), ma tuttavia posti in essere mediante condotte qualificate da un grado minimo di lesività.

Rimarrebbero quindi esclusi i delitti di violenza sessuale e di atti sessuali con minore.

Quanto alle pratiche di mutilazione genitale femminile, si sono già esposti i dubbi sull’utilità della norma che ha introdotto la nuova figura di incriminazione.

La legge pare inutile, innanzitutto perché non è in grado di sradicare la pratica, che come abbiamo visto rappresenta il tipico esempio di condotta culturalmente orientata che non è fondata tanto su un’incapacità di comprendere il disvalore dell’offesa, quanto su un’ostinata adesione alla norma culturale che impone di effettuarla; inoltre perché non colma un vuoto di tutela, essendo la pratica già riconducibile al delitto di lesioni, ma punisce di più di quanto si punirebbe in base all’art. 583.

Sia chiaro che anche l’applicazione di quest’ultima fattispecie si era rivelata fallimentare; ma evitava almeno di esasperare i confitti culturali e di discriminare l’autore in base alla sua appartenenza culturale.

In questo senso, infatti, la fattispecie di cui all’art. 583 bis, nel suo carattere meramente simbolico, diventa ancor più imbarazzante se si raffrontano le pratiche di mutilazione genitale femminile con le moderne e (da un punto di vista fisico) analoghe pratiche di intervento sui genitali femminili che in                                                                                                                

303  Ibidem   304  Ibidem  

Occidente vanno ora di moda; anch’esse comportano rischi operatori, ma vengono accettate e addirittura pubblicizzate305.

Considerazioni simili (che erano peraltro già state affrontate nel Cap. III § 3) riguardano la circoncisione maschile rituale, nei confronti della quale si registra un atteggiamento di tolleranza.

Un altro aspetto critico della legge, già evidenziato nel corso della trattazione, sta nell’atteggiamento paternalistico che priva anche le donne adulte, capaci e consenzienti della libertà di sottoporsi alla modificazione genitale. Sembrerebbe allora più ragionevole la scelta dell’ordinamento statunitense, che ha introdotto la MGF come crimine, punendo tuttavia solo chi la effettui nei confronti di una persona minore degli anni 18, lasciando la donna adulta libera di autodeterminarsi.

Pur escludendo le adulte dal novero dei soggetti passivi del reato, rimane il problema dell’inefficacia della norma incriminatrice, essendo soprattutto le bambine ad essere sottoposte alla pratica.

Per le minori il discorso è ovviamente diverso e pare quindi condivisibile l’esigenza di tutela di tali soggetti deboli; del tutto inammissibile sarebbe legittimare interventi lesivi e spesso irreversibili sul corpo delle bambine. Pare però che la strategia più “rigorosa”, di divieto assoluto anche del più limitato intervento, non sia la strada più adatta a limitare il fenomeno. Condivisibile è allora la proposta del rito alternativo (c.d. sunna, v. retro, Cap. III, § 2.4.1), che, nella sua limitatissima (se non nulla) lesività e nella sua collocazione in un ambiente sicuro e controllato, potrebbe offrire un’alternativa all’infibulazione per i genitori che siano determinati a sottoporre le figlie alla pratica.

Una simile proposta, così come quella della non punibilità dei reati di modesta gravità, si pone in un’ottica di mediazione culturale.

Sembra infatti questa l’unica via che lo Stato deve intraprendere, se vuole prendere seriamente in considerazione il problema dei conflitti culturali.                                                                                                                

Se la norma penale vuole comunicare valori, deve dimostrarsi disponibile a condividere anche ‘il’ valore del pluralismo culturale attraverso la ricerca di un incontro; in tal modo, pur continuando a preservare i diritti inviolabili della persona, sarà possibile aprirsi a ‘mondi’ diversi evitando o riducendo il pericolo di conflitti.

BIBLIOGRAFIA

Dizionario Garzanti della lingua italiana;