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La nuova incriminazione delle pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili La legge 7/

LE MUTILAZIONI GENITALI (A SCOPO NON TERAPEUTICO)

2. Le mutilazioni genitali femminili

2.4. La nuova incriminazione delle pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili La legge 7/

Il 9 gennaio 2006 è stata varata la legge n. 7 contenente le “disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile”. La scelta effettuata dal legislatore è ricaduta sulla configurazione di una fattispecie autonoma, a differenza di quanto proposto dai previgenti disegni di legge, con l’introduzione, prevista dall’art. 6, nel codice penale degli artt. 583 bis e 583 ter.

L’art. 1 specifica le finalità della legge, che consistono nel prevenire, contrastare e reprimere le pratiche di mutilazione genitale femminile quali «violazioni dei diritti fondamentali all’integrità della persona e alla salute delle donne e delle bambine», in attuazione degli artt. 2, 3, e 32 della

Costituzione e di quanto sancito dalla Dichiarazione e dal Programma di azione adottati a Pechino il 15 settembre 1995 nella quarta Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle donne.

Segue poi la sezione di norme volte alla prevenzione delle pratiche, tramite attività informative e formative e all’assistenza e riabilitazione delle donne mutilate (artt. 2-5 e 7).

L’art. 3 prevede campagne informative rivolte agli immigrati provenienti dai Paesi in cui sono effettuate le pratiche al momento della concessione del visto e del loro arrivo alle frontiere italiane, in modo da diffondere la conoscenza dei diritti fondamentali della persona e del divieto delle pratiche di Mgf.

L’articolo promuove inoltre attività di sensibilizzazione delle comunità di immigrati, con il coinvolgimento di operatori sociali, sanitari e insegnanti delle scuole dell’obbligo.

L’art. 4 prevede la formazione del personale sanitario per realizzare un’attività di prevenzione, assistenza e riabilitazione delle donne e delle bambine già sottoposte a tali pratiche.

L’art. 5 istituisce un numero verde finalizzato a ricevere segnalazioni da parte di chiunque venga a conoscenza della effettuazione, sul territorio italiano, delle pratiche di cui all’articolo 583-bis del codice penale.

Alcuni hanno individuato in questa sezione “didascalica” la scelta ideologica di una forzata integrazione, non ispirata alla tolleranza e al rispetto della diversità culturale, che non prenderebbe in considerazione il dato che la Mgf possa essere una libera adesione della donna alla cultura d’origine132.

Non pare però essere questo il principale profilo problematico della normativa, che si pone obiettivi il linea di principio apprezzabili, senza i quali la parte sanzionatoria successiva sarebbe, da sola, insufficiente. Non vi è infatti alcun male nel porre in essere campagne informative, volte alla                                                                                                                

sensibilizzazione delle comunità di immigrati presso le quali sono diffuse le pratiche; la sanzione penale dovrebbe infatti essere l’ultima ratio, mentre dovrebbero essere potenziati altri strumenti giuridici alternativi di promozione, educazione, assistenza e controllo e soprattutto di informazione (importante è lo smascheramento di false credenze, come quella che le Mgf facilitino il parto, la fertilità o quella che siano imposte dalla religione islamica)133.

La prevenzione sembra quindi essere l’alternativa più efficace, a condizione che gli interventi non siano avvertiti come imposti, ma offerti come opportunità della quale la donna, se lo vuole, può avvalersi. Necessario è assumere il punto di vista delle donne africane e un approccio rispettoso della diversità culturale, che presti attenzione più alla sofferenza soggettiva nel singolo caso che all’applicazione di principi ritenuti universali e giusti; è essenziale che l’aiuto e la solidarietà offerti alle donne non si pongano come critiche alla loro cultura o come pretesa di superiorità della nostra cultura rispetto alla loro.

L’aspetto critico della parte non penalistica della legge consiste proprio nella parziale attuazione di simili attività, che rimangono piuttosto indeterminate.

E’ stato infatti osservato che le attribuzioni e le competenze dei vari ministeri rimangano confuse e che non è sufficientemente definito il ruolo delle Regioni.

Manca inoltre un vincolo temporale per la predisposizione dei programmi di intervento; non sono previsti monitoraggi costanti della situazione attraverso l’istituzione di un osservatorio volti a verificare la diffusione del fenomeno e l’efficacia della legge134. Ma soprattutto manca la concessione del diritto di asilo per le donne che, in caso di rimpatrio, rischiano di essere sottoposte                                                                                                                

133  Facchi, Politiche del diritto, mutilazioni genitali femminili e teorie femministe,

cit., p. 21.

134  Per queste critiche si veda l’intervento di Katia Zanotti, Camera dei Deputati,

alle mutilazioni genitali; il riconoscimento dello status di rifugiate avrebbe costituito un intervento effettivo di prevenzione e protezione. La sua mancata previsione, accompagnata all’astrattezza delle previsioni preventive, lascia trapelare il vero intento del legislatore, che non sembra quello di cercare una soluzione effettiva al problema, ma piuttosto quello di affermare dichiarazioni di principio che suonano come una giustificazione alla nuova fattispecie incriminatrice, con lo scopo di smorzarne l’impatto e il rigore sanzionatorio135.

Quanto alla parte penalistica della normativa, l’art. 6, come anticipato, ha introdotto nel codice penale l’art. 583 bis, i cui commi 1 e 2 incriminano rispettivamente il reato di mutilazione genitale femminile e il reato di lesione agli organi genitali femminili.

Il primo comma dell’art. 583 bis punisce chiunque cagioni una mutilazione degli organi genitali femminili con la reclusione da quattro a dodici anni.

Presupposto negativo del fatto tipico è l’assenza di esigenze terapeutiche, ricorrendo le quali è esclusa la tipicità del fatto; per valutare la presenza o assenza di esigenze terapeutiche si dovrà tener conto della scienza medica italiana e non di quella straniera, dal momento che spesso chi sottopone la donna a Mgf lo fa nella convinzione di un beneficio alla salute della stessa136.

Il legislatore si preoccupa di definire il concetto di mutilazione specificando che per tali condotte si intendono «la clitoridectomia, l’escissione, l’infibulazione e qualsiasi altra pratica che cagiona effetti dello stesso tipo». E’ stato osservato che tali concetti, escluso quello di clitoridectomia che ha un significato chiaro, hanno un contenuto piuttosto indefinito; è quindi necessario far riferimento alla classificazione elaborata dall’OMS (alla quale la norma chiaramente si ispira), intendendo:

                                                                                                               

135  Brunelli, Prevenzione e divieto delle mutilazioni genitali femminili, cit., p. 579

ss.

a) per clitoridectomia l’ablazione totale o parziale del clitoride; b) per escissione l’ablazione del clitoride e delle piccole labbra; c) per infibulazione l’ablazione totale del clitoride e delle piccole labbra nonché della superficie interna delle grandi labbra e cucitura della vulva per lasciare soltanto una stretta apertura vaginale. Quanto alla clausola di chiusura “qualsiasi altra pratica che cagiona effetti dello stesso tipo”, nonostante la sua apparente indeterminatezza, si esclude una violazione del principio di determinatezza e del divieto di analogia, in quanto essa consiste in una esemplificazione di un insieme di casi già definito dalla legge; clitoridectomia, escissione e infibulazione consistono infatti nel mutilare gli organi genitali femminili, con menomazione permanente della funzionalità sessuale; in questo consisteranno le ipotesi rientranti nella clausola finale: ad esse potrà ricondursi qualsiasi altra pratica che cagioni la mutilazione, ma operata con modalità diverse (ad es. certe modalità indicate nel IV tipo di mutilazioni come la cauterizzazione, il raschiamento di tessuti ecc., purché produttive dell’effetto mutilante)137.

Il reato è considerato dai più plurioffensivo; sono infatti molteplici i beni giuridici che la norma si propone di tutelare: l’integrità fisica e la salute psico-sessuale della donna; la sua dignità e i suoi diritti sessuali e riproduttivi, dal momento che le pratiche hanno lo scopo di controllarne la sessualità; per alcuni anche il diritto del minore ad uno sviluppo armonico della propria personalità.

Quanto all’elemento soggettivo, si tratta di un reato a dolo generico, che richiede la coscienza e la volontà di cagionare una Mgf nell’assenza di esigenze terapeutiche; qualora manchi tale ultima consapevolezza, potrà applicarsi la fattispecie di lesioni colpose, considerato il rapporto di specialità che intercorre con il reato di Mgf 138.

                                                                                                               

137  Mantovani, Diritto penale. Parte speciale I. Delitti contro la persona, 5° ed.,

CEDAM, 2013, p. 159; Basile, La nuova incriminazione, cit., 687.  

138  Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte speciale. Volume II, tomo primo. I

Il secondo comma dell’art. 583 bis prevede il delitto di lesione, che consiste nel provocare, al fine di menomare le funzioni sessuali, lesioni agli organi genitali femminili diverse da quelle indicate al primo comma, da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente; il reato è punito con la reclusione da tre a sette anni, con diminuzione della pena fino a due terzi se la lesione è di lieve entità.

Le lesioni devono essere diverse da quelle indicate al primo comma: ciò significa che non dovranno comportare una mutilazione permanente, ma una lesione. La fattispecie di cui al secondo comma è quindi in rapporto di incompatibilità con quella precedente.

Data la non facile distinzione tra le due figure delittuose, alcuni ritengono che l’unico criterio di individuazione sia la permanenza della menomazione, che è presente nella prima fattispecie e assente nella seconda. L’evento consiste nel provocare una malattia nel corpo o nella mente, espressione che compare in modo identico anche nel reato di lesioni personali (art. 582): si rimanda quindi al concetto di malattia, come elaborato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, che si dividono in due orientamenti.

Il primo, di matrice tecnico-giuridica, considera malattia qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché localizzata e non influente sulle condizioni organiche generali. Ne consegue che viene considerata lesione ogni alterazione anatomica, anche di minima rilevanza e priva di qualsiasi menomazione funzionale (ad es. sarebbero lesioni le ecchimosi, le contusioni, le abrasioni ecc.).

Il secondo orientamento, di matrice medico-legale, dà invece un’interpretazione più restrittiva di malattia, definendola come processo patologico, acuto o cronico, localizzato o diffuso, che determini un’apprezzabile menomazione funzionale dell’organismo. Non sarà quindi sufficiente un’alterazione anatomica priva di implicazioni funzionali (in tal caso infatti si configurerà il reato di percosse).

Quest’ultimo orientamento è sostenuto dalla dottrina prevalente e accolto anche dalla giurisprudenza di legittimità, poiché pare più aderente alla

disciplina del codice che, nel distinguere le fattispecie di lesione in base alla loro durata, dimostra di accogliere la nozione di malattia non come stato, ma come processo morboso che ha un inizio e una fine139.

Potranno quindi rientrare nel fatto tipico del delitto di lesione degli organi genitali femminili alcune delle pratiche classificate dall’OMS nel IV tipo, come ad esempio quelle che consistono nel forare o trapassare il clitoride (vi potrebbe quindi rientrare la sunna).

L’elemento soggettivo consiste nel dolo specifico, poiché è richiesto, oltre al dolo generico, anche il fine di menomare le funzioni sessuali. Secondo alcuni tale fine vanificherebbe l’applicazione della norma, poiché solitamente il soggetto attivo non agisce allo scopo di menomare le funzioni sessuali della vittima, ma per un fine socio-culturali, come quello di preparare la giovane al suo ruolo di donna, moglie e madre e di esaltarne la femminilità e la fertilità140.

Altri escludono che sussista un rischio di inapplicabilità della fattispecie, poiché basterebbe la presenza, tra i vari fini, anche del fine del contenimento della sessualità femminile; inoltre si potrebbe superare il rischio riferendo il fine non ai fini ultimi culturali, ma all’effetto provocato dalle pratiche, intendendo il fine come sinonimo di «al fine di provocare la lesione genitale»141.

Ci si è chiesti se sia possibile ricondurre ai delitti dell’art. 583 bis la deinfibulazione e la reinfibulazione.

La prima consiste nella rimozione della sutura con riapertura del canale vaginale e viene praticata solitamente poco prima del matrimonio o del parto. Nonostante la deinfibulazione sia ricompresa nel rituale delle Mgf, secondo alcuni è possibile ritenere che essa venga comunque praticata per esigenze terapeutiche che dovrebbero escludere la tipicità del fatto                                                                                                                

139  Mantovani, Diritto penale, cit., p. 139.

140  Basile, La nuova incriminazione, cit.; Fiandaca-Musco, Diritto penale, cit.; De

Maglie, I reati culturalmente motivati, cit.

(mirerebbe infatti a ripristinare le funzioni sessuali della donna)142.

Diversa è la reinfibulazione, che consiste in una nuova sutura effettuata sulla donna infibulata e deinfibulata. Si ritiene che, non provocando alcuna mutilazione, non sia riconducibile alla fattispecie di cui al primo comma, bensì a quella prevista dal secondo comma, poiché produce una riduzione di funzionalità degli organi genitali143.

L’art. 8 della l. 7/2006 apporta una modifica al d. lgs. 231/2001 inserendovi l’art. 25-quater.1. (pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili), che prevede una responsabilità da reato per l’ente nella cui struttura è commesso il delitto, che comporta l’applicazione delle pene pecuniarie e interdittive previste dagli artt. 9, comma 2 e 16, comma 3. L’art. 583 ter prevede che all’esercente una professione sanitaria, condannato per taluno dei delitti previsti dall’art. 583 bis, sia applicata la pena accessoria dell’interdizione dalla professione da tre a dieci anni.

L’art. 4, comma 1, lett. f), della L. 1 ottobre 2012, n. 172 ha inserito il comma 4 dell’art. 583 bis, che stabilisce le pene accessorie della decadenza dall’esercizio della potestà del genitore e dell’interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela e all’amministrazione di sostegno, per il genitore o il tutore che abbiano commesso il reato di mutilazione genitale femminile.

Il comma 3 dell’art. 583 bis prevede per entrambi i reati previsti dai due commi precedenti le circostanze aggravanti, con aumento della pena di un terzo, che scattano quando le pratiche sono commesse a danno di un minore ovvero per fini di lucro.

Per effetto del “pacchetto sicurezza 2009” sono inoltre estese al delitto di Mgf tutte le circostanze aggravanti previste dall’art. 585; pertanto la pena sarà aumentata se ricorrono le circostanze aggravanti previste dall’art. 576 o dall’art. 577 o se il fatto è commesso con armi o con sostanze corrosive, ovvero da persona travisata o da più persone riunite.

                                                                                                               

142  Basile, La nuova incriminazione, cit. p. 688. 143  Ibidem  

Il comma 4 dell’art. 583 bis estende i limiti di applicabilità della legge penale italiana nello spazio, stabilendo che le disposizioni dell’articolo si applicano anche quando il fatto è commesso all’estero da cittadino italiano o da straniero residente in Italia, ovvero, se l’autore è uno straniero non residente in Italia, in danno di cittadino italiano o di straniero residente in Italia, sempreché vi sia la richiesta del Ministro della Giustizia.