Motivazione culturale e categorie del reato
2. Motivazione culturale e fatto tipico
La giurisprudenza italiana in alcuni casi che vedono coinvolti autori culturali ha escluso la sussistenza del fatto tipico ricostruendo il fatto concreto in considerazione della motivazione culturale in base alla quale l’imputato aveva commesso il fatto.
Nel primo caso una cittadina somala veniva trovata in possesso di foglie di khat, ma considerate le particolari modalità con cui i somali consumano la sostanza (esclusivamente mediante masticazione), si è escluso che le foglie fossero destinate all’estrazione della catina.
Nel secondo caso un gruppo di giovani adepti del movimento religioso del Santo Daime veniva trovato in possesso di una bevanda euforizzante, l’ayahuasca, ma anche in questo caso si è escluso che la bevanda fosse volta all’estrazione della sostanza stupefacente, date le specifiche modalità di consumazione.
ma considerato che la sua religione autorizza il consumo di un’ingente quantità di sostanza al giorno, si è escluso il superamento della modica quantità e che la sostanza fosse destinata allo spaccio181.
Vi sono poi stati casi in cui la configurabilità del fatto tipico è stata impedita dal “giustificato motivo” per cui i fatti erano stati posti in essere, ossia il motivo religioso182.
Il primo caso, Tribunale di Cremona 13 gennaio 2009, riguarda un indiano che viene sorpreso in un centro commerciale con appeso al collo un coltello rituale, il kirpan, simbolo dell’appartenenza alla religione del sikhismo. L’art. 4, comma 2 della legge 18 aprile 1975 n. 110 vieta il porto d’armi od oggetti atti ad offendere, operando una distinzione tra le armi comuni e proprie da un lato, che possono essere portate fuori dalla propria abitazione solo previa autorizzazione amministrativa, e le armi improprie dall'altro, il cui porto è vietato in assenza di giustificato motivo. Secondo il tribunale il kirpan rientra nella seconda categoria proprio in ragione del significato che assume secondo la religione sikh; pertanto la motivazione che sta alla base della condotta dell’agente riceve una protezione giuridica assicurata sia dall’art. 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, sia dall’art. 19 della Costituzione che riconosce la libertà di professare la propria fede religiosa in qualsiasi forma.
Il tribunale afferma l’insussistenza del reato dal momento che il giustificato motivo risiede nell’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito. Un altro caso simile, Tribunale di Cremona, 27 novembre 2008, n. 78, vede imputata una donna, denunciata per la contravvenzione di cui all’art. 5 della legge n. 152/1975 per aver indossato il burqa in un’aula di tribunale. Il reato in questione punisce «l’uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona in luogo
181 Per una rassegna dei casi, v. Basile, Immigrazione e reati culturalmente
motivati, cit., p. 365 ss.
182 Per una più approfondita analisi dei casi, v. De Maglie, I reati culturalmente
pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo». Nel caso in esame il Tribunale di Cremona non riscontra una difficoltà nel riconoscimento della donna, in quanto essa, alla richiesta della Polizia di sollevare il velo per l’identificazione, aveva adempiuto immediatamente. Il burqa non è considerato mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento quando non abbia in concreto ostacolato il riconoscimento, data la collaborazione della persona a rendersi conoscibile. L’uso del burqa è giustificato da motivo religioso e non costituisce pertanto il reato di cui all’art. 5 l. n. 152/1975; la donna viene quindi assolta perché il fatto non sussiste.
Un'altra tipologia di casi riguarda invece reati nei quali la norma incriminatrice impiega un elemento normativo culturale (di cui si è già parlato nel Capitolo I); ciò rende inevitabile porsi la seguente domanda: in base alla cultura di chi si valutano gli elementi normativi della fattispecie? La dottrina non ha affrontato la questione in termini generali, ma si è pronunciata solo in relazione a singole fattispecie di reato che impiegano tali elementi (come ad esempio gli atti osceni).
La giurisprudenza è oscillante e anch’essa dà risposte diverse a seconda del singolo elemento in questione: in alcuni casi valuta l’elemento culturale in base alla cultura maggiormente diffusa in Italia, mentre in altri lo valuta in base alla cultura del soggetto agente.
Un esempio è il termine “maltrattamenti” nel delitto di cui all’art. 572 c.p. che secondo alcuni sarebbe un elemento normativo culturale, la cui relatività suggerisce di «avere riguardo dell’educazione dei soggetti del rapporto di cui si tratta e alla sensibilità e alle altre condizioni personali del paziente183». Se un tale orientamento fosse applicato maltrattamenti “culturalmente orientati” si arriverebbe ad escludere il fatto valutandolo alla luce della cultura del soggetto agente, che è spesso anche la cultura della vittima184.
E’ proprio quest’ultima, secondo una sentenza della Cassazione, a ricoprire
183 Manzini, Trattato di diritto penale, vol. VII, V ed., Torino, 1984, p. 931 ss. 184 Basile, Immigrazione e reti culturalmente motivati, cit., p. 368
un ruolo determinante ai fini dell’integrazione della fattispecie, per la quale sarebbe essenziale la percezione delle vessazioni da parte della vittima185. Nel caso in esame la Cassazione aveva assolto dei genitori immigrati di origine slava, che avevano costretto i figli a mendicare per strada, dal reato di maltrattamenti, poiché non risultava che figli avessero avvertito sofferenze e sopraffazioni. La Cassazione, sia pure indirettamente, ha valutato l’elemento “maltrattamenti” alla luce dei soggetti coinvolti, in particolare dei soggetti passivi del reato186.
Nella maggior parte dei casi la giurisprudenza ha però dato un’interpretazione diversa, che respinge l’assunto difensivo che invoca la cultura d’origine dell’imputato, appellandosi invece a principi cardine del nostro ordinamento che costituiscono un limite invalicabile contro consuetudini e costumi che si pongono in contrasto con essi.
I reati in materia sessuale pongono sicuramente un problema analogo, vista la relatività del termine “atti sessuali”.
Si è già citato il caso Kargar (riguardante un afgano che aveva baciato il figlio sulle parti intime) in relazione alla rilevanza penale del fatto, la cui tipicità verrebbe meno in base alla sua cultura e sarebbe invece sussistente in base alla nostra.
Secondo alcuni sarebbe possibile, in un simile caso, escludere la tipicità del fatto attraverso il criterio dell’inoffensività in concreto, teoria secondo la quale ogni comportamento, per essere considerato reato, deve arrecare una effettiva lesione del bene tutelato187. Quando non vi è coincidenza tra tipicità e offesa, poiché il fatto, pur conforme alla norma, non arreca alcun pregiudizio al bene oggetto di tutela, si dovrebbe escludere la punibilità del fatto. Si tratta di una teoria che muove dall’idea che l’art. 49 c.p. non sia un mero doppione negativo dell’art. 56, ma una norma autonoma che esprime un principio di necessaria offensività dell’illecito. La stessa Corte
185 Cass. 7 ottobre 1992
186 Basile, Immigrazione, cit., p. 369
Costituzionale ha affermato che è compito del giudice accertare in concreto l’offensività della condotta, mancando la quale il fatto sarà penalmente irrilevante.
Questo orientamento fornirebbe un criterio attraverso cui risolvere alcuni casi di reati culturalmente motivati. In particolare, nel caso Kargar, nonostante la condotta del padre sia astrattamente riconducibile all’ipotesi prevista dall’art. 609 quater, sarebbe in concreto inoffensiva se valutata in base alla cultura del gruppo etnico dell'autore, secondo la quale l’atto non sarebbe sessualmente rilevante.
La teoria della dissociazione tra fatto tipico e offesa è stata tuttavia contestata, poiché l’art. 49, collocato nell’ambito di disposizioni concernenti gli elementi della struttura del reato, stonerebbe in un simile contesto qualora affermasse un generale principio di offensività; tale principio sarebbe poi dissonante rispetto alla seconda funzione svolta dall’articolo in questione, ovvero quella di costituire un limite all’integrazione del tentativo per inesistenza dell’oggetto.
Quanto all’orientamento della Corte Costituzionale, alcuni riscontrano nel rimettere al giudice l’accertamento in concreto il rischio di una violazione del principio di legalità e di certezza del diritto.
Sarebbe possibile percorrere una strada diversa attraverso l’interpretazione teleologica della fattispecie, attraverso la quale è possibile ricostruire la vera ratio della norma incriminatrice e ricondurre ad essa solamente i comportamenti che esprimono il disvalore che la fattispecie si propone di incriminare; tali comportamenti dovranno essere caratterizzati da una omogeneità con il bene giuridico tutelato dalla norma188.
Pare quindi che il caso Kargar possa essere risolto con l’esclusione della tipicità del fatto poiché non sembra che la ratio della norma che incrimina gli atti sessuali con minore, a tutela della integrità sessuale e del sano sviluppo del minore, sia anche comprensiva di una innocua manifestazione
188 De Francesco, Diritto penale. I fondamenti, 2° ed., Giappichelli editore, Torino,
di amore nei confronti del figlio.
E’ indubbio che una simile soluzione sia indotta anche dalla considerazione del significato che il termine “atto sessuale” assume nella cultura dell’imputato, tenendo conto del contesto in cui si è realizzato il comportamento. Ma il fatto che nel caso di specie si sia giunti all’esclusione della tipicità dando rilievo al fattore culturale non equivale ad affermare che, in generale, gli elementi normativi culturali devono essere interpretati sempre in base alla cultura del gruppo etnico dell’imputato. L’intento di una simile soluzione sarebbe sicuramente apprezzabile e rispettoso dei gruppi etnici di minoranza, poiché eviterebbe il pericolo di una sopraffazione culturale del gruppo di maggioranza; tuttavia rischia di dar luogo ad un preoccupante relativismo che fa dipendere l’integrazione dell’illecito penale in base al fatto che il soggetto agente appartenga al gruppo etnico dominante o ad uno minoritario, escludendo a priori la tipicità del fatto anche in casi in cui la condotta rientri effettivamente nel relativo tipo criminoso. Ciò rischia di ripercuotersi anche sulla vittima del reato: pare infatti che la giurisprudenza sia più incline ad escludere la tipicità del fatto quando il soggetto passivo appartenga allo stesso gruppo etnico dell’agente (come nel caso Kargar) e meno incline a farlo quando la vittima appartenga ad una cultura diversa (come nel caso Jones, in cui la motivazione culturale aveva trovato spazio sul piano della colpevolezza, con esclusione del dolo per errore di diritto), determinando l’integrazione dell’illecito non solo in base alla cultura del soggetto agente, ma anche in base alla cultura della vittima, nel senso che se quest’ultima appartiene allo stesso gruppo etnico, il fatto sembra inoffensivo. La vittima si troverebbe così ad essere discriminata rispetto alle altre vittime dei reati “comuni” in ragione dell’appartenenza culturale.
Abbiamo visto come l’accoglimento di qualsiasi istanza culturale proveniente dal gruppo di minoranza (approccio suggerito dal comunitarismo) comporti il rischio di far prevalere le ragioni del gruppo su quelle del singolo, calpestando soprattutto i diritti dei soggetti più deboli, come donne e bambini.
Si ritiene dunque che il criterio da seguire per risolvere i casi che impiegano elementi normativi culturali sia l’interpretazione teleologica; laddove questa non conduca all’esclusione della tipicità del fatto, pare preferibile dare spazio al profilo culturale eventualmente in sede di colpevolezza, riconoscendo un errore di diritto che cade sull’elemento normativo (art. 47, comma 3 c.p.).