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Motivazione culturale e categorie del reato

4. Motivazione culturale e colpevolezza

4.1. L’imputabilità dell’autore culturale

Il primo elemento della colpevolezza, nella sua accezione normativa, è l’imputabilità dell’autore, che presuppone la capacità d’intendere e di volere, ovvero la capacità del soggetto di rendersi conto del significato dei propri atti e, di conseguenza, di poter orientare il proprio comportamento. In questo senso l’imputabilità è forse la categoria nella quale si può riscontrare più evidentemente la personalizzazione del rimprovero penale, in quanto tiene conto delle peculiari caratteristiche del singolo agente219. La questione dell’incapacità da parte del soggetto adulto di comprendere il carattere illecito del fatto incriminato dalla legge penale di un ordinamento ispirato a valori differenti da quelli della sua cultura è stata presa in considerazione già dalla dottrina italiana dei decenni passati: era spesso utilizzato l’esempio di scuola del fatto illecito commesso dal “selvaggio” che, giunto in contatto con la nostra diversa civiltà e non essendo capace di                                                                                                                

218  Ibidem  

219  De Francesco, Diritto penale. I fondamenti, 2° ed., Giappichelli editore, Torino,

comprenderne i valori, era considerato non imputabile220.

Tale opinione risentiva di un chiaro pregiudizio etnocentrico, diffusosi soprattutto nei confronti dei «sudditi coloniali» che, ritenuti «primitivi» e «appartenenti a civiltà inferiori», non erano considerati pienamente capaci di intendere e di volere221.

Si è però osservato come l’esempio del «selvaggio» non sia in realtà inerente alla problematica dei reati culturalmente motivati, quanto piuttosto ad una situazione di «arretratezza meramente individuale222» alla quale

l’autore culturale non può essere ri(con)dotto, in quanto portatore di una cultura diversa.

In tempi più recenti, parte della dottrina ritiene che l’appartenenza del soggetto ad una cultura diversa possa incidere sulla sua capacità di valutare il disvalore sociale della sua condotta e spingerlo ad attribuire a quest’ultima un significato diverso da quello attribuito dal nostro ordinamento. In particolare il dibattito verte sulla possibilità di risolvere la questione facendo ricorso al vizio di mente.

La giurisprudenza americana pare aver accolto, in alcuni isolati casi, un simile orientamento. Un esempio è il caso Kimura, riguardante una donna di origine giapponese immigrata in America che, dopo aver appreso il tradimento del marito, si getta nell’Oceano insieme ai figli, che muoiono. La donna, salvata da alcuni soccorritori, è chiamata a rispondere di omicidio di primo grado, punibile con la pena di morte, l’ergastolo o con la pena detentiva non inferiore a 25 anni. La difesa sostiene che la donna abbia tentato di realizzare l’antica pratica giapponese dell’omicidio-suicidio (oyako-shinju) per riscattare e salvare se stessa e i figli dalla vergogna e l’umiliazione derivanti dal tradimento del marito. La stessa comunità giapponese presenta una petizione con la quale viene chiesto un trattamento mite per la donna: la petizione sottolinea come la cultura giapponese abbia                                                                                                                

220  Basile, op. cit., p. 385, in relazione a quanto scrivevano Antolisei e Nuvolone. 221  Manzini, Trattato di diritto penale italiano, vol. I, II ed., Torino, 1926, p.400.   222  De Maglie, I reati culturalmente motivati, cit., p. 215.  

profondamente influenzato il suo comportamento, che pur essendo punito (in modo lieve) in Giappone, viene considerato un atto tutto sommato onorevole, dal momento che costituisce l’unico modo per risolvere una situazione intollerabile.

Anche la difesa si basa sull’argomento del retroterra culturale; potendo questo tuttavia costituire un’arma a doppio taglio, che potrebbe fornire all’accusa la prova dell’elemento della volontarietà dell’atto, la difesa sceglie di puntare non esclusivamente sul fattore culturale, ma anche sull’argomento della insanity defense, volto a dimostrare come la pressione della cultura d’origine avesse profondamente alterato le facoltà mentali della donna al momento del fatto.

La Corte, sentiti sei psichiatri che confermano il vizio temporaneo di mente, grazie anche al plea bargaining223 riduce l’imputazione di murder a voluntary manslaughter224 e condanna l’imputata ad un anno di reclusione e a cinque anni di probation, raccomandando inoltre una terapia psichiatrica. Questa decisione ha suscitato forti polemiche.

Il problema si pone innanzitutto sul piano sistematico: la coerenza del sistema penale rischia di essere compromessa da una corrosione delle categorie tradizionali; in particolare è la colpevolezza che rischia di essere «forzata» per includere la motivazione culturale e, ancor più nello specifico, le aporie riguardano l’istituto della insanity225. Alcuni autori hanno                                                                                                                

223  Si tratta di un accordo-patteggiamento, che si svolge in fase dibattimentale, con

cui l’imputato si dichiara disposto a riconoscersi colpevole e il prosecutor promette in cambio alcuni benefici, quali la derubricazione del reato, la diminuzione dei capi d’accusa, una pena mite, ecc.

224  Si tratta di due distinti reati rientranti nella categoria dell’omicidio. Il murder,

più grave, si distingue in murder di primo grado (caratterizzato dalla

premeditazione e da altre circostanze oggettive, quali la particolare crudeltà o violenza o la concomitanza con un altro grave reato) e murder di secondo grado (figura residuale che comprende i casi di omicidio non rientranti nel murder di primo grado); il manslaughter, meno grave in considerazione delle circostanze in cui viene commesso, si distingue in manslaughter volontario (realizzato in un particolare stato d’ira determinato dall’altrui provocazione) e involontario (corrispondente all’omicidio colposo).  

affermato che la Kimura non fosse affetta da un vizio di mente, ma che comprendesse perfettamente il significato e le conseguenze delle sue azioni. Non è detto che l’individuo, il cui agire sia fortemente determinato dalle regole di un differente sistema di valori, sia solo per questo malato di mente. Ricorrere alla categoria dell’insanity significa confondere la cultura dell’imputata con la malattia mentale, dimostrando un’incapacità di cogliere il profondo significato delle radici culturali dell’autore.

Tale soluzione si dimostra essere inadeguata anche dal punto di vista ideologico, in quanto offensiva per la dignità dell’accusato, che si trova ad essere etichettato come «malato» e «anormale».

Il tentativo di operare una valorizzazione del fattore culturale finisce piuttosto per generare una stigmatizzazione e degradazione della cultura, che non può certo essere assimilata ad un fattore che crea una condizione di infermità mentale226.

Si è cercato di obiettare che non può escludersi a priori che il conflitto culturale possa provocare gravi effetti sull’equilibrio psichico del soggetto. La letteratura riporta infatti le conseguenze che lo scontro tra culture può scatenare nell’individuo: disagio esistenziale, instabilità emotiva, frustrazione, depressione. Sellin, come si è già visto (Cap. I, § 1), aveva riscontrato simili disagi nella seconda generazione di immigrati, in bilico tra la cultura dei loro avi e quella del Paese di accoglienza, e aveva individuato in tale conflitto interiore una causa di malattia mentale e di criminalità. E’ indubbio il ruolo che l’emarginazione sociale ricopre nel generare ostilità, rabbia e psicosi nei soggetti che la subiscono e spetterà al giudice valutare se nel caso di specie il conflitto possa aver inciso sulla capacità di intendere e di volere. Va però osservato come questa sia una tematica estranea al fenomeno dei reati culturalmente orientati, che non concerne i conflitti interni, che appartengono al singolo, bensì quelli esterni, che si                                                                                                                

226  In tal senso, v.  De Francesco, Multiculturalismo e diritto penale nazionale, in

Multiculturalismo, diritti umani, pena, a cura di Bernardi, Giuffrè Editore, 2006, p.

realizzano quando il soggetto ha ormai interiorizzato la cultura d’origine e ha conformato il suo comportamento ai dettami di essa227.

Va quindi esclusa l’idoneità della categoria dell’imputabilità a dar spazio alla motivazione culturale. Tale conclusione sembra peraltro essere condivisa dalla giurisprudenza di legittimità italiana, che, chiamata a valutare l’imputabilità di un minore cresciuto in ambiente nomade in relazione ad un delitto contro il patrimonio, ha escluso che l’appartenenza ad un determinato ambiente socio-familiare potesse escludere la consapevolezza del disvalore dell’azione e l’imputabilità del minore228.

Del resto, anche in casi non riguardanti imputati stranieri, la Cassazione è restia a riconoscere l’ambiente culturale e socio-familiare come un fattore in grado di escludere l’imputabilità del soggetto229.

4.2. Reati culturali e dolo