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4. La violenza sessuale e il fattore culturale

4.3. La violenza sessuale intraconiugale

La violenza sessuale commessa dal marito ai danni della moglie è rimasta sostanzialmente impunita fino all'inversione di rotta della Cassazione con la pronuncia del 1976. Prima di tale svolta, nonostante la legge incriminasse la                                                                                                                

62  Bundesgerichtshof 24 giugno 1998, causa 5 StR 258/98; Bundesgerichtshof 22

violenza sessuale indipendentemente dallo status della vittima, la giurisprudenza concedeva una sorta di immunità al marito, purché si fosse limitato a compiere atti secondum natura.

Non si trattava altro che di uno dei tanti aspetti che rispecchiavano la cultura sessista legalizzata e diffusa fino a pochi decenni fa. La logica che legittimava la violenza maritale era la stessa rinvenibile nel riconoscimento al marito dello ius corrigendi sulla moglie, eliminato nel 1956 con una pronuncia della Cassazione.

Non diversa era poi la logica sottostante ai delitti per causa d'onore, per i quali il codice Rocco prevedeva pene esigue (dai 3 ai 7 anni), spesso per altro non irrogate; solo nel 1981, grazie alla consapevolezza già maturata nella giurisprudenza degli anni Sessanta e Settanta dell'anacronismo della disciplina, il legislatore è intervenuto per espellere la "causa d'onore" dal codice penale.

Espressivo della pretesa inferiorità della donna rispetto all'uomo era anche la disciplina riguardante l'adulterio e il concubinato, discriminatoria nei confronti della moglie che, se fedifraga, era punita anche per il singolo episodio di adulterio, e permissiva nei confronti del marito, purché questi non tenesse l'amante nella casa coniugale. Tale disciplina fu mantenuta fino alla declaratoria di incostituzionalità della Corte Costituzionale con la sentenza 3 dicembre 1969, n. 147.

Tornando alla violenza sessuale, vi era una norma, l’art. 544 c.p., che prevedeva una causa speciale di estinzione del reato, il c.d. matrimonio riparatore, che consentiva l'impunità al violentatore qualora avesse sposato la vittima. Un istituto che suonava come una beffa imposta alla donna violentata e come una conferma di quale fosse il vero disvalore sotteso alla violenza sessuale: non la lesione della libertà sessuale della donna, ma l’oltraggio alla morale.

Da questa breve analisi storica si capisce come l'impunità della violenza intraconiugale fosse coerente con il contesto culturale e normativo dell'epoca che concepiva la moglie, priva di autodeterminazione sessuale, come oggetto di possesso del marito.

Il cammino verso il riconoscimento dell’integrazione del delitto di violenza carnale non è stato agevole, complice il fatto che l’unione fisica tra coniugi era – e tutt’ora secondo alcuni è - considerata un diritto–dovere derivante dal contratto matrimoniale che, se inadempiuto, può comportare conseguenze giuridiche. Infatti vi è un affermato orientamento dottrinale e giurisprudenziale che considera il rifiuto prolungato e ingiustificato all’intrattenimento di rapporti sessuali una violazione degli obblighi matrimoniali che può determinare l’addebito della separazione.

Ma mentre oggi il rifiuto produce conseguenze che si ripercuotono esclusivamente sul piano civilistico, in passato esso autorizzava il marito ad ottenere il rapporto sessuale con la forza.

Si tratta peraltro di una tendenza non esclusivamente italiana, in quanto in alcuni ordinamenti di common law fino a pochi decenni fa il c.d. marital rape non era punito, o era punito meno rispetto alla violenza commessa da un estraneo.

La «marital rape exemption» era riscontrabile in alcune giurisdizioni degli Stati Uniti d'America, fino al 1993, quando il North Carolina, l’ultimo Stato rimasto a prevedere come lecita la violenza intraconiugale, decise di incriminarla. Ciononostante in molti Stati americani la violenza commessa dal coniuge continua ad avere un trattamento giuridico diverso rispetto alla violenza commessa da un soggetto che non sia il coniuge della vittima, perché è incriminata come reato autonomo (spousal rape), punito in modo meno grave. Addirittura in alcuni Stati è prevista una causa di non punibilità (più ampia della marital rape exemption) per i voluntary social companions, ossia coloro che siano stati compagni affettivi della vittima o addirittura coloro che hanno avuto con la vittima anche un solo rapporto sessuale nel corso dell'anno precedente al momento della commissione del reato 63.

Anche in Inghilterra e in Scozia era riconosciuta la exceptio maritalis,                                                                                                                

63  A. Gentile, Violenza sessuale in matrimonio retto da diritto straniero: il

prudente approccio della Cassazione ai c.d. "reati culturali”, in Riv. it. dir. e proc. pen. 2009, 1, p. 421.  

venuta meno solamente tre decenni fa64. Furono le Corti inglesi a negare per la prima volta, nel 1989, l’applicazione della marital immunity, dilatando l’area dell’illiceità penale in nome della tutela della donna. L’esigenza di svecchiare il sistema e di reagire contro una condotta fortemente lesiva dei diritti fondamentali della persona portò alla condanna degli autori, giustificata dalla lesività sociale e dalla spregevolezza del comportamento. Essendo la violenza intraconiugale perfettamente lecita al tempo del fatto, la questione finì di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione del divieto di irretroattività sancito dall’art. 7 CEDU (parte della dottrina ha infatti considerato il caso come un’eclatante ipotesi di «retroattività occulta»)65. Tuttavia la Corte di Strasburgo (con critiche della dottrina) ritenne la condanna delle Corti inglesi «ragionevolmente prevedibile» per la natura barbarica e spregevole della condotta e quindi conforme alla regola dell’art. 7 CEDU66.

La sentenza che invece ha determinato una svolta nel nostro ordinamento è la n. 12855 del 1976, con la quale la Cassazione ha affermato che «il rapporto di coniugio non degrada la persona di un coniuge ad oggetto di possesso dell'altro».

La sentenza è stata poi seguita da altre importanti pronunce (come la n. 10488 del 13 luglio 1982 e la n. 11243 del 16 novembre 1988).

Oggi può dirsi quindi del tutto superato l’orientamento che dava rilevanza all’exceptio maritalis, essendo indiscussa la punibilità della violenza sessuale commessa ai danni del coniuge.

Tuttavia vi sono ordinamenti (come ad esempio quello marocchino) che non attribuiscono rilevanza penale a tali condotte, ma anzi le ammettono e le tollerano.

                                                                                                               

64  Cadoppi, Common Law e principio di legalità, in Quad. Fiorentini 2007, p.

1186.

65  V. Valentini, Diritto penale intertemporale: logiche continentali ed ermeneutica

europea, Giuffrè Editore, 2012, p. 139 ss.

66

Corte eur., CR c. Regno Unito, 22.11.1995; Corte eur., S.W. c. Regno Unito, 22.11.1995.

Quid juris nel caso in cui la violenza sessuale sia commessa nell’ambito di un matrimonio retto dal diritto straniero di tali paesi?

La questione è stata affrontata dalla Cassazione con la sentenza 17 settembre 200767.

Nel caso in questione l’imputato era stato condannato dal Tribunale di Rovereto a tre anni di reclusione per aver costretto la moglie a subire rapporti sessuali contro la sua volontà. I due coniugi, entrambi marocchini, si erano sposati, andando tuttavia a convivere solo due anni e mezzo dopo; il matrimonio, combinato dai genitori, sarebbe stato imposto alla ragazza. Dopo pochi giorni dall’inizio della convivenza l’imputato aveva preteso il rapporto sessuale dalla moglie dissenziente, ripetendo gli abusi in altre successive occasioni.

La Corte d’Appello di Trento, che aveva rigettato i motivi di appello, aveva però riconosciuto l’ipotesi della minore gravità prevista all’art. 609 bis comma 3, diminuendo la pena ad un anno e quattro mesi di reclusione. L’imputato propone ricorso per Cassazione deducendo tre motivi di particolare interesse:

1) la violazione della l. n. 218 del 1995, art. 29, ai sensi della quale «i rapporti personali tra coniugi sono regolati dalla legge nazionale comune». La difesa aveva infatti eccepito in Appello che il principio di territorialità non si applica al matrimonio retto da un diritto straniero che non prevede come reato la violenza sessuale intraconiugale.

2) la violazione degli artt. 42 e 43 c.p. per l’insussistenza dell’elemento soggettivo. L’imputato infatti afferma di aver ignorato sia la contrarietà della moglie al matrimonio, sia la rilevanza penale della violenza sessuale intraconiugale in Italia.

3) la violazione dell’art. 62 c.p., n. 2 per il mancato riconoscimento dell’attenuante della provocazione, ravvisata nel rifiuto della moglie ad avere rapporti sessuali. Tale affermazione troverebbe fondamento nell’art.                                                                                                                

67  Udienza 26 giugno 2007, n. 34909, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 2008, p. 407, con

143 c.c., che, tra gli obblighi coniugali, prevederebbe anche la reciproca disponibilità sessuale da parte dei coniugi.

La Corte respinge tutti i motivi.

Quanto al primo, dichiarato manifestamente infondato, si ritiene palesemente irrilevante che il diritto marocchino non preveda come reato la violenza sessuale intraconiugale; secondo il principio generale della obbligatorietà e territorialità della legge penale espresso dall’art. 3 c.p., le norme penali obbligano tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano, salvo eccezioni che nel caso di specie non ricorrono, nel territorio dello Stato.

La Corte evidenzia poi come nel nostro ordinamento sia ormai pacificamente riconosciuto che commette il reato di violenza sessuale il coniuge che costringa l’altro coniuge a compiere o a subire atti sessuali, poiché «il rapporto di coniugio non degrada la persona di un coniuge ad oggetto di possesso dell’altro coniuge, sicché, qualora esso si riduca a violenza ai fini del “possesso del corpo”, costituisce un fatto gravemente antigiuridico, che non può non trovare la sua sanzione nelle norme poste a tutela della libertà sessuale».

Secondo la Corte infondato è anche il secondo motivo, poiché giustamente la Corte di Appello ha ritenuto sussistente l’elemento soggettivo, escludendo che fosse ravvisabile l’ignoranza incolpevole della legge penale. La Cassazione ricorda quindi la decisione della Corte Costituzionale che, con la nota sentenza 364 del 1988, «ha escluso che sussista una situazione di ignoranza inevitabile, e quindi incolpevole, quando il soggetto non abbia, con il criterio dell’ordinaria diligenza, adempiuto al c.d. “dovere di informazione”, ossia all’obbligo di espletare ogni utile accertamento per conseguire la conoscenza della legislazione vigente…».

Quanto all’ultimo motivo, l’attenuante della provocazione deve ritenersi esclusa poiché «non può considerarsi fatto ingiusto il rifiuto del coniuge di intrattenere rapporti sessuali, costituendo esso pur sempre espressione della libertà di autodeterminazione, che non può mai essere conculcata, anche se può costituire violazione degli obblighi assunti con il matrimonio e quindi

causa di addebito della separazione».

Nonostante l’apparente irrilevanza attribuita al fattore culturale, si deve però osservare come la Corte avalli la scelta della Corte d’Appello di tener conto della cultura d’origine nel cui ambito la violenza sessuale tra coniugi non è configurabile come illecito, attraverso il riconoscimento di una ipotesi di minore gravità prevista dall’art. 609 bis, comma 3.

La Cassazione ha avuto modo di affrontare un caso simile con la sentenza 16 dicembre 2008: un immigrato marocchino era stato condannato dai giudici di merito per maltrattamenti in famiglia, sequestro di persona, violenza sessuale e violazione degli obblighi di assistenza familiare nei confronti della moglie e del figlio minore.

L’imputato nel ricorso lamenta che i giudici di merito abbiano applicato schemi valutativi tipici della cultura occidentale, senza valutare, nella condotta del reo, la diversità culturale e religiosa che ha improntato la sua condotta; ritiene inoltre che la decisione abbia come esclusivo fondamento sostanziale un pregiudizio etnocentrico.

In buona sostanza secondo l’imputato la risposta giudiziaria, in considerazione della diversità culturale, dovrebbe scriminare la condotta illecita per un difetto dell’elemento soggettivo; tale elemento sarebbe infatti escluso dal concetto che l’imputato, quale cittadino di religione musulmana, ha della convivenza familiare e delle potestà anche maritali, a lui spettanti quale capo-famiglia.

La Corte respinge il ricorso, affermando che le prospettive che danno rilevanza al fattore culturale in tanto possono attuarsi «se e nella misura in cui non contrastino con i principi cardine del nostro ordinamento, anche di rango costituzionale, in tema di famiglia, rapporti interpersonali di coppia ivi compresa l’interazione sessuale che nel nostro sistema è stata rigidamente ed innovativamente regolata dalla legge n. 66 del 1996». Nello specifico, la Corte fa riferimento ai principi espressi dagli artt. 2 e 3 Cost., che «costituiscono infatti uno sbarramento invalicabile contro l’introduzione, di diritto e di fatto, nella società civile di consuetudini, prassi, costumi che si propongono come “antistorici” a fronte dei risultati

ottenuti, nel corso dei secoli, per realizzare l’affermazione dei diritti inviolabili della persona, cittadino o straniero».

Conclude infine affermando la sussistenza del dolo, poiché è obbligo per l’imputato conoscere, ai sensi dell’art. 5 c.p., il divieto imposto dalla legge, indipendentemente dal fatto che abbia ritenuto innocua o socialmente utile la sua condotta, potendo al più rilevare quest’ultimo profilo in punto di personalizzazione e adeguatezza della pena secondo i criteri dettati dall’art. 133 c.p. (profilo che tuttavia non è stato oggetto di ricorso).

In entrambe le sentenze viene fermamente esclusa, ai fini dell’esclusione dell’elemento soggettivo, la rilevanza della liceità della condotta secondo il diritto del paese d’origine dell’imputato e la sua diversità culturale. Rimane quindi un punto fermo che la violenza sessuale intraconiugale sia reato, indipendentemente dal concetto che il soggetto attivo ha della convivenza familiare e delle potestà maritali che gli competono.

Diverso è l’orientamento giurisprudenziale del Bundesgerichtshof nel caso 29 agosto 2001. Un cittadino turco, immigrato da circa trent’anni in Germania, abusa sessualmente della moglie, che, dopo un periodo di separazione, era tornata a vivere con il marito a condizione di dormire in un letto separato e di non avere più rapporti sessuali.

Il giudice di merito condanna l’imputato per violenza sessuale, ma con la pena ridotta prevista per i “casi meno gravi”.

Il BGH conferma la sentenza in considerazione della provenienza dell’imputato da un ambiente dai differenti valori, secondo i quali ci si aspetta dalla moglie obbedienza e sottomissione.