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Motivazione culturale e categorie del reato

4. Motivazione culturale e colpevolezza

4.2. Reati culturali e dolo 1 Dolo ed errore sul fatto

In taluni casi è emerso il quesito se il fattore culturale possa incidere sulla rappresentazione e volontà del fatto tipico, escludendo il dolo ai sensi dell’art. 47 c.p. che disciplina l’errore sul fatto, prevedendo la non punibilità dell’autore.

La letteratura rileva che la giurisprudenza italiana, in relazione a fatti di elevata offensività, ha negato che l’elemento soggettivo possa essere escluso dalle diverse concezioni che l’imputato ha, in ragione della sua diversa appartenenza culturale230.

                                                                                                               

227  De Maglie, I reati culturalmente motivati, cit., p. 215.  

228  Cass. 24 giugno 1983, in Basile, Immigrazione e reati culturalmente motivati,

cit., p. 389  

229  Ibidem  

Così, ad esempio, vengono riportati i casi:

- del cittadino algerino di fede islamica che viene accusato di maltrattamenti per aver imposto ai suoi familiari il rispetto del suo credo con violenze e minacce: il giudicante ritiene in tal caso sussistente il dolo poiché l’imputato era in grado di percepire gli effetti devastanti delle sue condotte sui familiari;

- dei genitori di etnia rom, chiamati a rispondere del reato di maltrattamenti per aver omesso di mandare i figli a scuola e per averli indirizzati al furto; secondo il giudicante il dolo sussiste poiché il disvalore dei maltrattamenti è «universalmente percepibile, indipendentemente dall’etnia di appartenenza231»;

- del marocchino imputato del delitto di maltrattamenti; secondo la Cassazione non è accoglibile l’assunto difensivo secondo cui l’elemento soggettivo sia escluso dal concetto che l’imputato, di fede musulmana, ha della convivenza familiare e delle sue potestà in quanto padre di famiglia; - del marocchino accusato di violenza sessuale intraconiugale; la Cassazione ha escluso che le pretese usanze marocchine dell’imputato potessero essere idonee a dimostrare la mancanza di dolo generico.

Al contrario, in relazione a fatti meno gravi, la letteratura osserva come i giudici si dimostrino invece più aperti a riconoscere che la diversità culturale del soggetto possa incidere sulla percezione della realtà, dando luogo ad un errore sul fatto ex art. 47 c.p.

Si riporta ad esempio il caso di un cittadino senegalese che, accusato del reato di commercio di prodotti con segni falsi per aver venduto articoli con marchio contraffatto, viene assolto per mancanza di dolo, in quanto non sarebbe stato consapevole che i marchi erano stati falsificati.

Il pretore osserva infatti che, essendo l’imputato cittadino del Senegal, Paese del terzo mondo economicamente sottosviluppato, sarebbe estraneo a quel sistema di consumi di marchi di prodotti commercializzati nei Paesi                                                                                                                

industriali. Essendo il soggetto non ancora integrato e non avendo avuto occasione di acquistare determinati prodotti di marca, difetterebbe dell’esperienza minima, comune alla generalità dei cittadini italiani, che gli avrebbe consentito di riconoscere la contraffazione del marchio.

Si ritiene che in realtà simili casi non siano annoverabili nella categoria dei reati culturalmente motivati; la semplice provenienza da una nazione diversa non è un elemento tale da configurare un fatto culturalmente orientato, per avere il quale sono necessari ben altri requisiti232.

Nei casi citati non è l’adesione ad un precetto culturale appartenente ad un sistema altro di valori ad aver determinato la condotta del soggetto, bensì la semplice provenienza da un Paese straniero, unita ad una situazione individuale di difficoltà dovuta ad una mancata integrazione. Nel caso di specie l’assoluzione dell’autore è stata resa possibile dal semplice ricorso alla disciplina in materia di errore di fatto, che si configura quando, nonostante la tipicità e l’antigiuridicità della condotta, il soggetto non si sia rappresentato, e non abbia conseguentemente voluto, il fatto incriminato dalla norma.

Si tratta di una soluzione che, se risponde alla normale esigenza di non punire il soggetto in mancanza dell’elemento soggettivo, non soddisfa quella di dar spazio alla motivazione culturale, che nel caso di specie nemmeno sussiste.

Il fattore culturale sembra al contrario emergere in situazioni diverse, che la giurisprudenza americana si è trovata ad affrontare, riconoscendo talvolta l’esclusione del dolo.

Si cita il caso Kong Moua, riguardante un immigrato laotiano che, presentatosi al college dove la sua fidanzata studia, la obbliga a salire in macchina e la conduce in un’abitazione dove la costringe ad avere un rapporto sessuale. Il giovane avrebbe agito nell’intento di realizzare lo zij poj niam, una pratica tradizionale laotiana di matrimonio che consiste nel                                                                                                                

rapire la donna e congiungersi con lei; mentre quest’ultima deve opporre un rifiuto “rituale” all’unione sessuale, a dimostrazione della sua illibatezza e “integrità morale”, l’uomo deve vincere la resistenza per mostrare la sua virilità.

Tuttavia nel caso di specie la resistenza della ragazza non era finta, ma vera, e il ragazzo viene denunciato per violenza sessuale.

Nel processo si difende invocando l’erronea convinzione che la ragazza fosse consenziente e che il rapporto si consumasse secondo le tradizioni del suo popolo.

A dimostrazione di ciò vengono coinvolti esperti di antropologia che confermano la corrispondenza della dinamica fattuale alla pratica dello zij poj niam.

La Corte americana accoglie l’argomento difensivo riconoscendo l’esistenza di un mistake of fact, in quanto l’imputato avrebbe agito in buona fede credendo che il consenso della ragazza fosse autentico; l’influenza della cultura d’origine avrebbe giocato un ruolo determinante nel far sorgere un simile errore nel soggetto.

La decisione ha suscitato forti polemiche: la sentenza, considerata anti- femminista, garantirebbe l’impunità all’aggressore ribadendo la superiorità maschile e la passività femminile; ciò sarebbe in linea con la tendenza delle Corti americane ad essere indulgenti nei confronti degli aggressori sessuali che sono soliti difendersi affermando di aver frainteso la disponibilità della donna in mancanza di una sua convincente resistenza.

La sentenza della Corte sarebbe allora non un modo per dar spazio alla motivazione culturale, ma l’espressione di un orientamento maschilista in tema di violenza sessuale233.

Va però osservato come il caso in esame non sia assimilabile ai casi in cui l’imputato si difenda con lo scopo di confondere la seduzione legittima con il rapporto sessuale illecito. In relazione a questi ultimi casi, si era già                                                                                                                

osservato (Cap. II, § 1 e 4.1) come anche la giurisprudenza italiana di tempi non troppo lontani adottasse un orientamento simile a quello delle Corti americane: si tratta dello stereotipo vis grata puellis, retaggio storico espressivo di un’idea, del tutto inaccettabile, di un «onere di resistenza attiva» che graverebbe sulla donna.

Tali deprecabili conclusioni, a cui talvolta perviene la giurisprudenza, derivano, come si è rilevato in precedenza, dalla scelta di incentrare il delitto di violenza sessuale sull’elemento della vis piuttosto che sull’unico requisito negativo del consenso. Una simile struttura della fattispecie pone il giudice «nell’alternativa o di non punire, in assenza di una convincente prova da parte della vittima di una vera e propria violenza, o di stravolgere, dematerializzandolo, il concetto di violenza per mimetizzare (…) un’occulta analogia in malam partem234».

Tale scelta caratterizza anche il delitto di rape nel sistema americano, in quanto la fattispecie richiede per la sua integrazione sia la prova dell’uso della forza, sia la dimostrazione dell’assenza di consenso da parte della vittima.

Ebbene, in questi casi l’imputato è solito difendersi cercando di dimostrare il consenso della vittima in base all’assenza di resistenza; la giurisprudenza accoglie l’argomento difensivo attribuendo alla vittima l’onere di resistenza e avallando - in questo caso sì - la cultura maschilista che legittima la sopraffazione dell’uomo sulla donna.

Ma nel caso Kong Moua l’imputato non fonda il suo errore sulla mancata resistenza della donna (resistenza che in concreto vi è effettivamente stata), bensì sulla convinzione che quella resistenza fosse finta. La circostanza che poi tale errore sia dovuto ad usi e tradizioni che ai nostri occhi sono espressivi di una cultura maschilista, perché mai dovrebbe comportare la mancata applicazione della disciplina sull’errore sul fatto che il sistema penale prevede? Una simile soluzione darebbe luogo ad una discriminazione                                                                                                                

del soggetto, che si vedrebbe chiamato a rispondere, solo in ragione della sua diversa appartenenza culturale, di un reato di cui non sarebbe chiamato a rispondere un qualunque altro soggetto intraneo all’ordinamento che sia caduto in errore sul consenso per aver frainteso la disponibilità della donna. Il processo penale si trasformerebbe nella sede in cui giudicare non solo la responsabilità del soggetto alla luce della sussistenza degli elementi del reato, ma anche l’accettabilità o meno di una cultura.

Infine, un’ultima categoria di casi in cui pare riscontrabile un errore sul fatto è la questione, già affrontata nelle pagine precedenti (supra, § 2 e Cap. I, § 5), concernente gli elementi normativi culturali, rispetto alla quale si pone il quesito: in base alla cultura di chi si valutano tali elementi?

Per chi ritiene che essi debbano essere valutati in base alla «cultura della maggioranza degli Italiani», nel caso in cui l’autore abbia attribuito all’elemento normativo il significato che esso assume nella sua cultura d’origine non potrà escludersi l’integrazione del fatto tipico, bensì quella del dolo per errore sul fatto; in particolare, si tratta dell’errore di diritto previsto dall’art. 47, comma 3, che esclude la punibilità quando l’errore su una legge diversa dalla legge penale abbia cagionato un errore sul fatto che costituisce reato.

Un simile errore comporta lo stesso effetto dell’errore di fatto di cui al primo comma: determina un errore sul fatto (che il soggetto non ritiene di aver commesso) ed esclude il dolo; la genesi dell’errore è tuttavia diversa, perché mentre nel caso di cui al primo comma essa consiste in una falsa percezione della realtà materiale, nel caso di cui al terzo comma l’origine dell’errore va individuata in una errata valutazione del contenuto di norme extrapenali.

Si cita ad esempio il caso Jones, in cui un uomo eschimese viene accusato del reato di atti sessuali con minore per aver toccato le parti intime di un bambino non-eschimese durante una lotta intrapresa per gioco. L’uomo si difende affermando di aver letto la realtà con gli occhiali della sua cultura di origine, secondo la quale quei toccamenti non hanno valenza sessuale; la sua diversità culturale non gli avrebbe consentito di rendersi conto che il suo

comportamento era per il bambino offensivo della sua libertà-intangibilità sessuale. La Corte, dopo aver ascoltato la testimonianza di alcuni antropologi esperti di cultura eschimese che confermano le parole dell’imputato, accoglie le argomentazioni difensive assolvendo l’uomo che sarebbe caduto in un mistake of fact.

In materia di errore la giurisprudenza tende talvolta a confondere l’errore di diritto con l’errore sul precetto, che trova la sua disciplina in una diversa norma (art. 5 c.p.) e dà luogo ad un esito diverso: non l’esclusione del dolo, ma l’esclusione della colpevolezza, laddove l’errore fosse inevitabile data l’impossibilità dell’agente di conoscere l’illiceità del proprio comportamento.

In realtà esiste un criterio per distinguere le due ipotesi: nell’errore sul fatto il soggetto si rappresenta un fatto diverso da quello che la norma penale incrimina, senza mutare il contenuto della fattispecie e mantenendosi così all’interno dei principi dell’ordinamento; se il fatto fosse nella realtà come il soggetto lo aveva (erroneamente) rappresentato, sarebbe lecito.

Si prenda ad esempio il reato di bigamia: il soggetto che dovesse contrarre un secondo matrimonio, ritenendo che la sentenza di separazione (relativa al primo matrimonio) avesse la stessa efficacia di una sentenza di divorzio, sarebbe in errore sul fatto.

Diverso è il caso del soggetto che, ritenendo che la sua appartenenza religiosa gli consenta la poligamia, si sposi una seconda volta, cadendo in un errore sul precetto: il soggetto si raffigura il fatto esattamente come la norma incriminatrice lo prevede, ma ritiene che sia lecito, sostituendosi così al legislatore.

Quanto all’errore di diritto che concerne gli elementi normativi extragiuridici che posano su valutazioni sociali, si prenda ad esempio il concetto di “pudore” negli atti osceni: è ben possibile che il soggetto non sia consapevole di offendere il pudore, ritenendo privo del carattere osceno l’atto posto in essere; diverso sarebbe se il soggetto, consapevole del carattere osceno, avesse posto in essere il comportamento nella convinzione che la legge lo considerasse lecito; in questo caso l’errore verterebbe

sull’illiceità e non sul fatto.