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L Athens La costruzione sociale della violenza e il ruolo della vittima

Devianza come costruzione sociale: l’Interazionismo Simbolico

3.8. L Athens La costruzione sociale della violenza e il ruolo della vittima

L. Athens (2013) ha elaborato una teoria basata sulla costruzione sociale della violenza, dove i fattori biologici non sono centrali, così come non lo sono le dimensioni psicopatologiche. Tale teoria è improntata sul processo di trasformazione attraverso cui un individuo diventa violento, pericoloso. Sostiene l‟esistenza una dicotomia eziologica tra sistema bio-fisiologico e sistema sociale (dove l‟Autore intende per “sociale” i processi di socializzazione), offrendo e ritenendo necessario un approccio più globale all‟analisi dei fattori determinanti il comportamento deviante.

La premessa è che le persone sono il risultato delle esperienze, più o meno significative, che hanno vissuto nel corso della propria vita. Un processo quindi graduale e

consequenziale, dove alcune esperienze nel corso del tempo possono rendere le persone anche criminali violenti.

Gli studi di Athens hanno preso avvio da una ricerca, criticata per il campione selettivo adottato, condotta attraverso interviste qualitative semi-strutturate di detenuti per crimini violenti (Athens, 1989), finalizzata a centrare l‟eziologia della violenza, attraverso l‟indagine delle emozioni e del sentire nel momento della commissione dell‟agito violento. Dalle narrazioni, anche in termini di criminodinamica e criminogenesi, l‟autore ha rilevato come ciò che accomuna le storie di vita fosse un processo progressivo d‟interazioni sociali e successive scelte che ha portato quei criminali ad essere individui violenti. La metodologia di indagine di tipo etnografico, propria dell‟interazionismo simbolico, ha permesso al ricercatore di comprendere l‟esperienza dalla prospettiva dell‟attore sociale.

Nella sua indagine Athens ha evidenziato come i detenuti violenti oggetto di studio avessero in comune una serie di esperienze particolari in età infantile, ed ha teorizzato un processo costituito da 4 fasi distinte:

1) brutalizzazione, 2) belligeranza,

3) prestazioni violente, 4) virulenza.

Anche se vi sono fattori che possono interrompere il processo ed evitare la costruzione sociale dell‟identità di criminale violento, chiunque attraversi tutte le fasi di

questo processo diventerà tale, indipendentemente dalla razza, dal sesso, dall‟età, dal quoziente intellettivo o dalla classe sociale di appartenenza (Athens, 2003).

L‟autore declina le fasi in termini socio- relazionali descrivendone i seguenti tratti: Fase 1. Abbrutimento: la coppia genitoriale agisce sul bambino la forza fisica per imporre la disciplina, intimidire, controllare, nuocere indipendentemente dalle ragioni alla base di tali agiti (ignoranza, frustrazione personale, esperienze di vita) che rendono il figlio un bambino soffocato, torturato, umiliato fisicamente malconcio. Questa fase è suddivisa in 3 sotto fasi:

a) L‟assoggettamento violento ad un genitore o altro adulto che usa la violenza per imporsi: dalla violenza psicologica a quella fisica per ottenere rispetto o obbedienza. La sottomissione violenta avviene quando le figure di fiducia o autoritarie usano la violenza o costringono qualcuno a sottomettersi alla loro autorità. Si ottiene la sottomissione o con la coercizione o con la ritorsione (violenza incessante).

b) La paura personale che impedisce al bambino di chiedere aiuto ad “altro adulto” per la sottomissione fisica e i continui attacchi, di conseguenza pur volendo fermare l‟abuso prova paura, preoccupazione e sensazioni di impotenza personale. È anche la violenza assistita verso terzi, che immobilizza e costruisce un immaginario violento. Questa incapacità di reagire crea sentimenti di rabbia e vergogna nel bambino.

c) L‟addestramento violento è agito dell‟adulto sul bambino che viene allenato a compiere agiti aggressivi per risolvere i conflitti con gli altri e si basa su un processo “formativo” insidioso e ambiguo basato sullo scherno, insulti, minacce e incoraggiamenti a risposte violente. Athens identifica cinque tecniche di addestramento: la vanaglorificazione, la messa in ridicolo, la coercizione, l‟arringa e l‟assedio.

Tutte queste sotto fasi rendono la violenza abitudine quotidiana, modello comportamentale tipico, interiorizzato, che avrà un impatto durevole nel corso di tutta la vita (Pannocchia, 2012).

Fase 2. Belligeranza: il bambino consapevolmente sceglie di agire aggressivamente per rispondere alle esigenze genitoriali e placare il genitore nella sua aggressività violenta rivolgendo la sua rabbia sugli altri. Il bambino terrorizzato e abusato (brutalizzato) emotivamente si distacca dall‟esperienza disumana subita, rafforzandosi in senso negativo. La fase dell‟agito violento del bambino è conseguente e lo stesso agirà aggressività e

violenza fisica, infondendo paura e scoprendo il piacere di comportarsi così. Per compiere atti di violenza anche gravi, secondo l‟Autore, il soggetto ha bisogno di una provocazione o che creda di avere una reale possibilità di prevaricazione.

Fase 3. Prestazioni violente: la terza fase vede il bambino agire con attacchi fisici, infondendo paura e scoprendo il piacere di comportarsi così. Addestrato (allenato) alla violenza acquisisce un proprio modello di comportamento violento che viene confermato dal successo fornito dalle conferme altrui e da come questi ultimi lo trattano e lo temono.

Fase 4. Virulenza: il bambino prova piacere nell‟atto violento agito, dal potere che ne deriva e dalla paura che infonde agli altri. Ogni agito violento determinerà un altro agito più violento che aumenterà il suo senso di potere. Il bambino brutalizzato diventerà il bambino brutalizzante. Coloro che concludono la fase “formativa” della virulenza

diventeranno per Athens pericolosi criminali.Vi sono tre sotto fasi: la notorietà violenta, il guadagnarsi una reputazione violenta, l‟ansia sociale. In esse si richiama la costruzione dell‟immagine di sé come soggetto violento e pericoloso, dalla quale deriva il comportamento aggressivo non volto solo all‟ottenimento di un beneficio, ma gratificante di per sé e quindi agente come rinforzo ad una reputazione considerata negativa dalla società, che a sua volta la teme. Gli agiti violenti non hanno più lo scopo di un guadagno materiale ma agire la violenza diventa l‟elemento di gratificazione (meta e ricompensa). Alla base dell‟agito violento vi è quindi un processo cognitivo guidato da spinte interne che possono essere lette anche in termini psicoanalitici, come hanno dimostrato gli studi sul narcisismo. Questi affermano come nei soggetti che hanno bisogno di costante affermazione esterna, quando manca di tale riconoscimento o hanno una sconferma percepita o reale sul piano personale, si abbia una reazione di rabbia e un comportamento aggressivo per ristabilire il senso di auto integrità e di benessere e per ripristinare l‟equilibrio. Per Kemberg (1975) il narcisismo si basa su un modello di risposta con carattere di rabbia al rifiuto dei genitori, che si riattiva di fronte al rifiuto di altri in età adulta. Ciò a sostegno dell‟elaborazione di Athens della fase di virulenza dove il reo minacciato reagisce agli stimoli esterni con quella stessa violenza appresa in interazioni precedenti.

Attraversando tutte le tappe il bambino diventa un adulto criminale spietato.

I riferimenti nella teorizzazione di Athens alla teoria delle associazioni differenziali di Sutherland, per cui il comportamento criminale è appreso nell‟interazione con gli altri, richiama l‟apprendimento del comportamento genitoriale da parte del bambino e la sua proposizione con modalità simili o uguali in età adulta (ad es. tipica nella violenza intra

familiare come modalità comportamentale acquisita come modello, ma tipiche anche nelle vittime plurigenerazionali che apprendono modelli di vittimità dai processi di vittimizzazione che coinvolgono i genitori). Altro richiamo si ha nella teoria delle opportunità differenziali di Cloward e Ohlin (1960), dove i membri di una banda imparano comportamenti illegittimi dai modelli proposti dal gruppo. Si ha quindi una funzione di

coaching come descritta da Athens nella fase dell‟ “abbrutimento” nella quale vengono appresi i modelli devianti.

Dalla ricerca di Athens, emerge comunque come caratteristica la “seduttività” del male e della violenza, che potenzia l‟egocentrismo dell‟immagine deviante. Questa viene rinforzata proprio dalle esperienze criminali e dal rimando sociale, con un approccio fortemente interazionista.

La violenza è un processo relazionale che coinvolge vittima e carnefice, dove la vittima subisce un danno fisico, psicologico, economico o morale dall‟altro. La vittima conferma il senso di potere onnipotenza del reo, ma ne evidenzia al contempo anche la limitatezza, l‟impotenza e l‟inutilità, tanto da spingerlo a riaffermare la sua superiorità e ad essere di nuovo violento. La sfida e la motivazione alla violenza sono insite nell‟immagine stessa della vittima il cui patimento richiama, simbolicamente nella loro interazione, i limiti e il bisogno di autodeterminazione del deviante. La vittima minaccia quindi l‟identità del deviante che agisce violenza in termini di auto-rinforzo. L‟attore aggressivo usa la violenza come mezzo d‟interazione sociale ed impara a godere attraverso di esso della paura che incute negli altri. Ogni provocazione esplicita ma anche involontaria innescherà quindi reazioni sempre più violente in una escalation aggressiva finalizzata al solo rinforzo della sua identità e del suo potere. Gli “altri” vengono quindi scoraggiati dal mettere in discussione l‟aggressività ma soprattutto l‟identità del reo che trova in questo processo una giustificazione morale ai suoi agiti violenti.

Capitolo 4